27
Il Waziristan era una terra dimenticata da Dio e dagli uomini. Era intrappolato tra l’Afghanistan e il Pakistan, e visto dall’alto sembrava che fosse stato espulso da entrambi gli Stati. Confinava con la regione di Peshawar ed era attraversato da impervie catene montuose. Era abitato da tribù pashtun, costrette a dividere quel territorio aspro e inospitale con talebani, terroristi di al-Qaida e altri jihadisti. I waziri, un popolo rude e dedito alla guerra, tenevano separate le diverse milizie per evitare che scatenassero una guerra senza quartiere e trascinassero la regione verso il baratro.
Il C-17 planò su una pista di terra battuta e iniziò a frenare bruscamente per evitare di schiantarsi contro la parete di roccia che si levava alla fine del tracciato. Un atterraggio tutt’altro che morbido.
L’altopiano si trovava a un’altitudine elevata. L’aria era tersa e pulita, il cielo azzurro, quasi blu. Nuvole minacciose si addensavano sulla vetta delle montagne, a est. A tratti si vedeva il bagliore di un fulmine e il tuono rompeva il silenzio della vallata con un rombo sinistro.
Gli uomini di Faraj avevano iniziato a scaricare il velivolo dal portellone posteriore. I futuri jihadisti americani scendevano camminando a fatica, con le gambe intorpidite dalla lunga e disagevole immobilità. Alcuni correvano a fare i propri bisogni, perché l’aereo non aveva servizi igienici. Lungo la pista c’era una fila di edifici. Sembravano rifugi temporanei, mimetizzati in modo da essere invisibili dall’alto.
Bourne vide alcuni uomini uscire dalle baracche. Erano diversi dai suoi compagni di viaggio. Ceceni. Pensò alle informazioni inviategli da Sara, che confermavano le parole di Nabby: c’era un filo invisibile che collegava Khalifa, El Ghadan e Ivan Borz, il trafficante di armi ceceno che era riuscito a infilarsi nello spazio lasciato libero da Viktor Bout.
«Qui siamo ai margini del nulla, al limite della società» affermò Faraj, interrompendo le riflessioni di Bourne. «Le montagne del Pakistan occidentale sono piene di persone costrette a fuggire dalle città orientali per motivi etnici e religiosi. Li hanno trattati come paria, e loro lo sono diventati.»
Bourne aveva l’impressione che Faraj e molti dei suoi fratelli jihadisti calcassero un po’ troppo la mano sulla propria condizione di rinnegati, che li legittimava a predicare ai poveri, agli sfortunati, a quelli che non avevano nulla da perdere perché non possedevano e non avrebbero mai posseduto niente. E allora perché non unirsi ai paria, perché non unire le forze? Era questo il vero messaggio trasmesso da Faraj e dai suoi accoliti. Le chiacchiere su Allah e sul Grande Satana erano soltanto un pretesto. Il Grande Satana era il motivo per cui erano diventati emarginati. E Faraj non avrebbe avuto motivi per esistere se non avesse sfruttato quella condizione.
«Ma tu hai un piano. O meglio, El Ghadan ha un piano, non è così? E se funzionerà, né tu né lui rimarrete paria ancora per molto tempo. Anch’io voglio stare dalla parte dei vincitori.»
Faraj osservò i suoi uomini, che disponevano in lunghe file i nuovi arrivati. «Yusuf, cosa devo fare con te? Sei un cecchino, un filosofo o un futuro comandante?»
«Forse tutte e tre le cose.»
«E se tu non fossi nessuna delle tre cose?»
Bourne sorrise. «Ti ho già fatto vedere le mie abilità di cecchino.»
«E anche le tua abilità con le parole. Furuque non parlava bene come te.»
«Lui era limitato. Era soltanto una pedina sulla scacchiera.»
«Ma tu non lo sei.»
«Faraj, sarai tu a deciderlo.»
Faraj esitò. «Vieni con me» ordinò alla fine dirigendosi verso le baracche. «Aspetta qui fuori» gli ordinò prima di entrare. Bourne rimase a guardare l’addestramento delle nuove reclute. Adesso impugnavano fucili AK-47. Dopo qualche minuto, Faraj si affacciò alla porta e gli fece segno di entrare nell’edificio centrale.
Era lungo e stretto, e dall’esterno ricordava un casino di caccia come quelli che si trovano negli Stati Uniti sudoccidentali. All’interno sembrava più la tenda di un generale romano. C’era un uomo seduto su una sedia da campeggio, davanti a un tavolo di alluminio. Sul piano c’erano mappe, cartine e planimetrie. Quartieri, edifici, sistemi fognari. Erano coperte di annotazioni, frecce e punti di domanda. Bourne li riconobbe: piani di battaglia. E individuò anche la città: Singapore.
I due ceceni si erano disposti ai lati del tavolo e rimasero immobili come due fermalibri. Guardarono soltanto Bourne, ignorando Faraj, che conoscevano già e del quale si fidavano.
Il tizio seduto alzò gli occhi quando Faraj e Bourne entrarono. Si tolse gli occhiali da vista e li appoggiò sul tavolo. Era robusto, aveva il torace ampio ed era praticamente senza collo. Braccia e gambe piuttosto corte. Si alzò in piedi e si portò davanti al tavolo. Non in gesto di cortesia, ma per bloccare la visuale ai nuovi arrivati.
Era Ivan Borz: Bourne lo aveva visto nelle foto che accompagnavano i resoconti delle sue imprese e delle sue straordinarie ricchezze.
Faraj fece le presentazioni e Jason ne approfittò per osservare Borz da vicino. Aveva il naso grosso, fratturato in almeno un punto. Le orecchie erano piccole e alte rispetto al viso. Le braccia erano coperte di peli ricci e scuri, mentre la testa era calva. Gli occhi avevano qualcosa di straordinario: erano grigi e infossati, circondati da pesanti occhiaie scure. Lo sguardo era fisso e inespressivo, come quello degli psicopatici e degli assassini. Non esprimeva alcuna emozione.
Schioccò le dita. «Passaporto.»
Bourne gli diede il documento di Yusuf Al Khatib.
Mentre Borz lo esaminava, Faraj spiegò: «È un cecchino di prima categoria».
«Ho forse chiesto la tua opinione?» replicò Borz. La voce era dura, profonda e secca, un po’ soffocata.
Faraj rimase in silenzio. Un buon indizio per capire i rapporti di potere che correvano tra i due.
«Lasciaci soli» ordinò Borz senza nemmeno alzare lo sguardo dal documento.
Il jihadista lanciò un’occhiata a Bourne, poi girò sui tacchi.
«Faraj, sai cosa devi fare» aggiunse appena prima che l’altro uscisse, seguito da uno dei due energumeni ceceni.
Borz prese una sigaretta da un pacchetto, la accese e aspirò, assaporando con calma il gusto del tabacco. Si batté il passaporto sul palmo della mano.
«Yusuf, ho la sensazione di conoscerti.»
«Non ci siamo mai incontrati.»
«Sicuro? Non ci siamo già visti da qualche altra parte?» Poi iniziò a parlare in russo. «Yusuf Al Khatib è il tuo vero nome?»
Bourne lo guardò scuotendo la testa, come se non avesse capito una parola. «Per favore, puoi parlare in arabo? Lo parli molto bene.»
«Yusuf Al Khatib è il tuo vero nome?» ripeté l’uomo in arabo.
«Sì.»
Il ceceno fece un brusco cenno con la testa verso la porta da cui era uscito Faraj. «Conosci bene Faraj?»
«No, quasi per niente» rispose Bourne. Era preparato a subire un interrogatorio. «Abbiamo scambiato due parole a Damasco, e qualcuna in più sull’aereo.»
«Che impressione ti ha fatto?»
«Come ti ho detto, non lo conosco bene.»
«Infatti.» Incrociò le braccia sul petto. «Tu non hai nulla da guadagnare in questa situazione. L’istinto mi dice che non vai matto per l’ideologia, e non sei uno che esegue gli ordini ciecamente. Mi sbaglio?»
«No, non ti sbagli.» Borz aveva appena fornito un’informazione preziosa a Bourne: nemmeno il ceceno era un ideologo. Era un uomo pratico, che seguiva il profumo del denaro ovunque lo conducesse. In un luogo isolato come quello, irraggiungibile persino per i rappresentanti più potenti dell’ordine pubblico, era importante trovare un’anima che sembrasse affine alla propria.
«E allora rispondi alla mia domanda. Come hai fatto ad agganciare Faraj?»
«È stato un caso. Sono rimasto coinvolto in un attacco dell’esercito siriano, insieme agli uomini di Faraj e a due nuove reclute. Sono riuscito a scappare con uno dei ragazzi. Lui non conosceva Damasco e l’ho accompagnato al raduno di Faraj, che è rimasto colpito dalle mie capacità di cecchino e mi ha proposto di unirmi a lui.»
«No» replicò Borz, senza cambiare tono di voce. «Io credo che tu sia una spia.»
Era uno dei trucchi più efficaci in un interrogatorio. Cambiare bruscamente argomento, molte volte, per poi arrivare improvvisamente al nocciolo della questione. Era molto utile per distinguere tra bugie e verità.
«Tu mi offendi. È questo che dice il tuo istinto? E per chi farei la spia?»
«Per gli israeliani. Fino ad alcuni giorni fa, il Mossad aveva piazzato un suo uomo qui tra noi, ma adesso se n’è andato. Potresti essere il suo sostituto.»
«Potrei, ma non lo sono.»
«Be’, di sicuro non sei americano.»
Bourne si chiese perché Borz ne fosse così convinto.
«E quindi hai seguito Faraj senza farti domande, vero?» riprese Borz.
Di nuovo un brusco cambiamento di rotta.
Bourne sorrise. «No, non direi. Damasco era diventata pericolosa per me. Ho calcolato le probabilità e ho deciso che Faraj era la mia via d’uscita.»
«In altre parole, ti sei comportato da opportunista.»
Bourne annuì. «Sì. Per necessità.»
«Un uomo pragmatico. Capisco perfettamente.» La sigaretta era quasi finita, ma Borz non sembrava interessato alla cenere in equilibrio precario sul mozzicone. «Hai calcolato le probabilità.» Ridacchiò emettendo un suono strano, come se avesse ingoiato la sigaretta. «Allora sediamoci e calcoliamo le probabilità.»
In quel momento l’udito acutissimo di Bourne captò un rumore inquietante. Non erano le urla dei soldati di Borz, che erano cessate improvvisamente, e nemmeno il soffio del vento tra le montagne.
«Giù!» urlò Jason, poi si gettò addosso al ceceno e lo spinse sotto il tavolino di metallo. Un attimo dopo, l’edificio saltò in aria. La terra tremò e le macerie volarono ovunque, poi la baracca si disintegrò e furono avvolti da un muro di fiamme.
Camilla si diresse a ovest. Dopo un paio di chilometri le nuvole si impadronirono del cielo e il vento diventò più fresco. Di lì a poco sarebbe piovuto.
Si diresse verso un fitto boschetto di betulle. Le cime degli alberi furono illuminate per un breve istante da uno degli ultimi raggi di sole.
Camilla vide una sagoma a cavallo alla sua sinistra, immersa nella penombra. Era accanto a un’amaca montata sotto una quercia imponente. Camilla pensò che si trattasse di Terrier o di qualche altro scagnozzo inviato da Anselm, magari su ordine di Bill stesso. E se l’avessero ritenuta inaffidabile? E se non fosse mai arrivata a Singapore? Volevano eliminarla proprio lì, in una delle loro proprietà? Si sentì sola e indifesa. Se fosse caduta da cavallo o se le avessero sparato, nessuno l’avrebbe mai saputo. Sarebbe scomparsa, come la vittima di un naufragio. Rabbrividì per quel pensiero sgradevole.
Si avvicinò all’albero e vide che il misterioso cavaliere si spingeva in avanti e si dirigeva verso di lei. Con un tuffo al cuore riconobbe Dagger, e tutto le fu chiaro.
Fece voltare Dixon e tornò allo scoperto. Stava iniziando a piovere. Dagger si portò al suo fianco.
«Cosa ci fai qui? Mi avevano detto che te n’eri andata.»
«Quando sarai fuori di qui ti diranno un sacco di cose, molte delle quali saranno bugie. Devi imparare a riconoscerle» replicò Hunter.
Camilla la guardò per un istante. «Allora Terrier era un test.»
Hunter sorrise con la sua aria da monella. «Proprio così.»
Senza dire una parola, scesero da cavallo e si diressero nuovamente verso il boschetto di betulle, al riparo dalla pioggia.
Gli alberi ondeggiavano sotto il temporale, ma l’atmosfera aveva qualcosa di accogliente. A Camilla ricordava la sua infanzia, la casa che si era costruita tra gli alberi, poco più di una capanna, dove si rifugiava quando il padre e la sorella diventavano più insopportabili del solito.
«Ho detto che ti avrei protetta, e non mentivo.»
«Lo so.»
Erano molto vicine, ora. L’odore dei cavalli si mescolava a quello del cuoio bagnato. Ma Camilla colse nell’aria anche una nota di un profumo più personale: la pelle di Hunter. Sapeva di pulito.
«Abbiamo stretto un patto» aggiunse lei.
Camilla annuì. «È vero.»
Hunter le si avvicinò, le appoggiò una mano sulla nuca, la attirò a sé e la baciò. Le sue labbra erano morbide come petali e sapevano di albicocca.
Si separarono.
Hunter cercò gli occhi di Camilla. «Scusami.»
«Non devi scusarti. Era una cosa naturale, credo» disse Camilla, confusa.
Hunter scoppiò in una risata profonda. «Ci sono molti motivi per cui mi piaci.»
«Io non sono gay.»
«Non c’entra niente il fatto di essere gay o etero.»
«Davvero?»
«Non per me.» Il tono di Hunter era pacato, senza traccia di irritazione.
Camilla cercò di baciarla di nuovo, ma Hunter la fermò, posandole le mani sugli avambracci.
«Cam, ti fidi di me?»
«Certo.»
«Allora sei pazza.» La guardò negli occhi. «Ti ho mentito.»
«Su cosa?»
«Non ho mai pilotato un jet. L’ho detto perché avevo letto il tuo dossier e sapevo di tua madre. È stata una scorciatoia per avvicinarmi a te.»
Camilla non replicò. Il cuore le batteva forte, pieno di disperazione. Ripensò a sua sorella che raggiungeva il traguardo mentre lei era sdraiata sull’erba, ferita. E pensò anche a suo padre, al suo atteggiamento sdegnoso, alla perenne smorfia di disprezzo che gli aleggiava sul viso e che soltanto lei sembrava vedere. Aveva sempre snobbato lei e sua madre, e alla fine le aveva mollate per scappare con un’ereditiera, una contessa che si divideva tra Roma e la Costa Azzurra. Il massimo, per uno come lui.
«Ero davvero una testa calda» riprese Hunter. «A Howard piacciono le ragazzacce, perché le può controllare. Ho imparato ad andare a cavallo in Mongolia. Ero stata spedita da quelle parti da una società che si occupa di sicurezza e lavora per il Pentagono, dopo che mi avevano buttato fuori dai Marines. Un sergente aveva cercato di violentarmi, e io gli avevo tenuto testa.»
Camilla scosse la testa. «Non mi sembra la reazione di una testa calda.»
«Aspetta di sentire il resto della storia. Sai perché ero in Mongolia? Facevo parte di una piccola squadra inviata nella provincia del Bajan-Ôlgij, all’estremità occidentale del Paese. Dovevamo raccogliere informazioni su alcuni gruppi estremisti musulmani che infestavano il Kazakistan orientale. Lo abbiamo fatto, ma dopo un po’ ho scoperto che il vero scopo della missione era intercettare un traffico di droga tra Cina e Russia, controllato da un ceceno di nome Ivan Borz. Borz aveva appena iniziato a trafficare armi, ma aveva accumulato una fortuna con gli stupefacenti.
«Ero un’idiota, e credevo che il nostro scopo fosse sgominare quel traffico. Ma i nostri capi volevano semplicemente che ci prendessimo una fetta della torta. Dovevamo entrare in contatto con Borz e dirgli che da allora in avanti avrebbe avuto bisogno della nostra protezione.»
«E lui?»
«Lui pagò. Immagino fosse più conveniente che ucciderci, attirando l’attenzione del mondo su quella rotta così lucrosa.»
«Quindi i tuoi capi lo hanno taglieggiato.»
«Non si sono limitati a questo.»
La pioggia diventò più intensa e Hunter si addentrò tra le betulle, dove i cavalli non potevano seguirla. Camilla la raggiunse. Voleva sentire il resto della storia.
«Dopo il successo in Mongolia mi spedirono in Iraq. Un modo per ricompensarmi, immagino.» Nei suoi occhi brillò un lampo di cattiveria. «Non dovevo proteggere nessun ufficiale dell’esercito, e neppure valutare potenziali minacce, anche se il mio incarico ufficiale era quello. Ero lì con tre colleghi della squadra mongola per un’altra missione di intercettazione. Solo che questa volta era diretta contro il nostro governo. Cam, non hai idea di quanti soldi vengono spesi in Iraq. Un fiume di denaro, mazzi di banconote fruscianti che arrivano dritte dalla zecca. Milioni, migliaia di milioni di dollari. Abbiamo deviato il corso del fiume, e lo abbiamo fatto ritornare a Washington, nelle mani dei nostri capi.»
«Come sei caduta nella rete di Anselm? Ha saputo della missione e l’ha usata per ricattarti?»
Hunter scoppiò a ridere. «Magari! No, Anselm era socio dell’azienda privata per la quale lavoravo. Era lui a fornire le informazioni riservate che permettevano ai soci di accumulare quelle spaventose fortune.»
Camilla appoggiò la schiena al tronco di un albero. Le sembrava di avere ricevuto un pugno nello stomaco. Distolse lo sguardo per un istante, nauseata.
«Quella gente è mostruosa» continuò Hunter. «Sono figli del capitalismo e del libero mercato, ma l’unica cosa che hanno imparato è che devono arraffare tutto quello che possono e fregarsene degli altri.»
Camilla sentiva la presenza di Hunter al suo fianco, le sue labbra vicine all’orecchio.
«L’aspetto peggiore è che sono proprio quelli che fanno i moralisti, i patrioti che lavorano per la sicurezza del Paese e del mondo intero. Una specie di scherzo di cattivo gusto, non credi? Uno scherzo crudele e abominevole. Hanno distrutto il sistema del libero mercato. Lo hanno corrotto.» Costrinse Camilla a guardarla. «Voglio che mi aiuti a lottare contro quei mostri. Voglio che mi aiuti ad abbatterli.»
«Io?»
«Sì» rispose Hunter, seria. «Sei in una posizione unica. Devi fare una dichiarazione. Una dichiarazione che verrà ascoltata e compresa da tutto il mondo.»