35

Il manipolo di arabi e ceceni si mise in marcia allo scoccare della mezzanotte. Nuvole nere si rincorrevano nel cielo e un vento freddo portava l’odore della pioggia. Gli uomini sembravano rassicurati da quelle condizioni climatiche avverse. Avrebbero avuto meno probabilità di essere avvistati.

Si muovevano con insolita libertà d’azione, alle spalle dei due waziri che si erano incamminati verso le montagne. Una foschia pallida e irreale li attendeva, e forse li avrebbe aiutati a entrare in Afghanistan senza intoppi.

Bourne pensava a Soraya e a Sonya. Il cellulare non funzionava, quindi non sapeva se El Ghadan avesse inviato il video che dimostrava la loro sopravvivenza. Si rendeva conto che il tempo non giocava a loro favore: più si prolungava la prigionia, più rischiavano di essere uccise, a prescindere da ciò che lui avesse fatto.

Il fatto di avere un piano, e quindi una speranza residua, non lo consolava molto. La pianta di Singapore che portava con sé gli appariva come un faro nelle tenebre, ma c’erano molti dettagli oscuri. Come avrebbero fatto Borz, Faraj e i loro uomini a spostarsi dall’Afghanistan fino a Singapore? Sempre che fossero sopravvissuti ai talebani.

Bourne non poteva permettersi dubbi. Voleva proteggere Soraya e la bambina dai pericoli e avrebbe smosso il cielo e la terra pur di riuscirci.

Si allontanarono dal fondovalle e il cammino, su quei ripidi pendii, si fece più disagevole. Ben presto si trovarono su un sentiero stretto e sinuoso, che si dipanava in mezzo a sporgenze e affioramenti di roccia. Dopo tre ore di marcia anche il sentiero finì: erano nelle mani degli uomini di Khan Abdali. Faraj non era molto felice della situazione, mentre Borz non sembrava particolarmente preoccupato. Il ceceno seguiva i due spilungoni con assoluta fiducia, suscitando l’irritazione di Faraj, che aveva dovuto cedergli il controllo delle operazioni da quando era arrivato in Waziristan.

Erano costretti ad arrampicarsi come lucertole sulla parete della montagna. I waziri salivano senza alcuna fatica né sforzo apparente, diretti verso la spessa coltre di nubi.

Dopo un’altra ora di cammino iniziò a piovere: un’acqua gelida che li infradiciò fino al midollo. I waziri non ne furono infastiditi, e i ceceni decisero di imitarli. Anche Faraj e i suoi uomini avanzarono senza lamentarsi. Erano abituati a soffrire, era l’unica vita che conoscevano. Erano concentrati sulla missione, sull’obiettivo e sugli angeli che li attendevano dopo la morte.

«Yusuf, ti dirò una cosa che Faraj non capirebbe. Anzi, ne sarebbe offeso» esordì Borz. «Io amo l’America. Sì, è così, e sai perché? Perché l’America ha sviluppato la più grande macchina da guerra del mondo e ha trasformato l’ideologia bellica in un affare che vale miliardi di dollari. E sai perché mi piace tutto questo? Be’, la macchina non appartiene soltanto agli americani, ma ha bisogno dell’aiuto di persone come me. Yusuf, te lo garantisco: ogni volta che l’America entra in guerra, io guadagno un sacco di soldi.»

Avrebbe continuato a parlare, ma uno dei waziri si avvicinò a Bourne e gli riferì qualcosa. Jason annuì.

«Cosa dice?» chiese Borz.

«Dopo la prossima curva c’è l’Afghanistan. Nel momento in cui attraverseremo, saremo in territorio nemico. Vuole che ordini a tutti di stare in guardia.»

L’avvertimento fu solertemente trasmesso agli uomini, che strinsero le armi, pronti a sparare. Superarono l’ultima curva scivolando sulle pietre bagnate, sotto la pioggia battente. Le nuvole incombevano sopra di loro come una pressa.

Erano arrivati in Afghanistan.

Nessun cambiamento nel paesaggio che li circondava, ma non c’era da stupirsi. Non c’erano barriere naturali a separare le due regioni. Dal punto di vista geografico il Waziristan era una mera prosecuzione dell’Afghanistan.

Dopo mezz’ora di cammino i waziri trovarono un’apertura tra le pietre, dove il sentiero si faceva ancora più stretto tra le pareti rocciose. La pioggia scrosciava, ancora più violenta. L’acqua aveva trasformato il passaggio in un torrente.

Di colpo il terreno si fece estremamente ripido. Presero a scendere verso il basso, nella luce irreale dell’alba, e si ritrovarono in una valle stretta e lunga.

Sulla parete rocciosa si apriva un gran numero di caverne, e vi si rifugiarono per trovare riparo dalle intemperie.

Pur essendo fradici decisero di non accendere il fuoco, nemmeno all’interno delle grotte. E pur essendo stanchi e stremati, nessuno riuscì a prendere sonno: l’unico pensiero era il nemico da attaccare e distruggere. Si limitarono ad accovacciarsi e a divorare un po’ di cibo. I waziri e i ceceni sedevano con le spalle contro la parete e osservavano Bourne e gli arabi, che si erano rivolti verso la Mecca e pregavano a voce bassa.

«Quando vedo tutta questa gente pregare» confidò Borz a Bourne una volta che le preghiere furono concluse «non penso ai miliardi di musulmani che ci sono nel mondo, anche in Cecenia, ma ai funzionari di Washington che prendono decisioni che riguardano l’intera umanità. Siamo tornati ai giorni in cui Roma governava il mondo attraverso i suoi papi corrotti e migliaia di uomini venivano mandati in guerra nel nome di Dio.» Rivolse a Bourne uno sguardo intenso. «Immagina come sarebbe il mondo senza le religioni. Io e te, Yusuf, saremmo disoccupati! E allora cosa faremmo?»

Era ormai giorno, e la pioggia era diminuita di intensità.

«Va’ a chiamare i waziri, voglio sapere cosa ci aspetta nelle prossime ore.»

Bourne si stava avvicinando ai due guerrieri, all’ingresso della caverna, quando iniziò la sparatoria. Le armi automatiche colpirono da ogni direzione, e tutto intorno a lui arabi e ceceni cominciarono a cadere, e il sangue a schizzare dappertutto.