22

Sara si svegliò e sentì il calore sul viso, poi vide la luce e una finestra affacciata sull’alba.

«È sveglia! Andate a chiamarlo.»

Un attimo dopo apparve il volto di Blum.

«Cosa…» borbottò. Le sembrava di avere la bocca piena di cotone. Si passò la lingua sulle labbra.

«Qui.» Blum le sollevò la testa e la aiutò a infilarsi una cannuccia in bocca.

Sara bevve l’acqua ghiacciata a piccoli sorsi. Quando ne ebbe abbastanza fece un cenno e lui allontanò il bicchiere.

«Cosa è successo? Dove sono?»

«Ti ho portata dal dottore.» Il Mossad aveva un medico dislocato in ogni sede operativa. «Sei svenuta nel bel mezzo di una frase. Non sapevo cosa avessi e ho fatto la scelta che ritenevo migliore. Rebeka, il fianco è messo male. Cosa ti è successo?»

Sara gli raccontò la nottata da incubo sulla barca, l’assassinio di Hassim da parte di Khalifa e ciò che era successo dopo. «Lo squalo mi ha colpita.»

«Il medico ha trovato anche un’altra ferita, sotto la più recente, non completamente rimarginata.»

Sara chiuse gli occhi. Concentrata sul presente, non si era resa conto che lo squalo l’aveva colpita nello stesso punto nel quale era stata pugnalata l’anno prima, a Città del Messico.

«Hai perso molto sangue. Più di quanto tu creda» aggiunse Blum.

Poi si ricordò di qualcosa e si mise seduta. «Dov’è il cellulare di Khalifa?»

«Eccolo.» Blum glielo porse e la aiutò a sistemarsi sui cuscini. «Era sul comodino. Credevi che l’avessi fatto sparire?»

«A dire il vero, sì.»

Blum annuì. «Non posso biasimarti.» Si sedette con le mani in grembo, intrecciando le dita. Sembrava uno studente convocato dal preside per una ramanzina.

«Tu lavoravi con Khalifa, e lui mi ha quasi uccisa. Levi, la tua carriera nel Mossad è finita. Non sto scherzando.»

«Rebeka, so che le apparenze non depongono a mio favore, ma ti prego di ascoltarmi, prima di prendere una decisione della quale potresti pentirti.»

«E cosa potresti dire per farmi cambiare idea?»

«Hai ragione. Al tuo posto risponderei nello stesso modo, ma forse farei un passo indietro e ascolterei.»

Sara sospirò, poi annuì. «Hai tre minuti.»

«Ma…»

«Giocateli bene, Levi.»

«D’accordo.» Deglutì. «È vero, il colonnello Khalifa è venuto a cercarmi. Ma ero già sotto la sua sorveglianza.»

«Che cosa?»

«Dal momento in cui ho messo piede a Doha. Non so come abbia fatto né chi gliel’abbia detto, ma quando mi ha fatto la sua proposta ho pensato di avere soltanto due possibilità: accettare o abbandonare la nave. La seconda opzione era inimmaginabile. Sarei stato buttato fuori dal Mossad all’istante. Così ho pensato: se devo fare il doppio gioco, posso comunque farlo nella direzione che decido io.»

«Quindi volevi raccogliere informazioni su di lui, da passare al Mossad.»

«Esatto.»

«Ma non l’hai fatto.»

«Ho raccolto il materiale, ma non ho avuto il coraggio di inviarlo. Controllava ogni mia mossa, fin dall’inizio. Non potevo rischiare.»

«Allora avresti dovuto tirartene fuori.»

«E rinunciare all’opportunità? Senza contare che mi avrebbe beccato subito, non appena mi fossi presentato in aeroporto.»

Sara gli rivolse uno sguardo glaciale. «Quante, Levi?»

«Cosa?» rispose lui, spaventato. Sembrava che Rebeka fosse pronta a colpirlo da un momento all’altro.

«Quante informazioni hai passato a Khalifa?»

«Il minimo indispensabile, per prendere tempo.»

«Di che genere?»

«Un po’ di tutto, lo sai.»

«Hai fatto saltare la copertura di qualche agente?»

«Assolutamente no.» Si strinse nelle spalle. «Cercava un altro genere di informazioni, comunque.»

«Che informazioni?»

«Dettagli sulle nostre operazioni nel Pakistan occidentale.»

«Il Pakistan occidentale? Ne sei sicuro?»

Blum annuì, sempre più nervoso.

«Ha detto che non avrebbe intrapreso nessuna azione di disturbo. Voleva soltanto monitorare la situazione.»

«E tu gli hai creduto?»

«Chiama Tel Aviv e verifica. Non abbiamo riportato danni.»

«Lo farò, stanne certo.»

Levi mosse la testa avanti e indietro, nervosamente. «È così. Non c’è stato alcun danno.»

«Ho bisogno di un elenco. Subito.»

«Già fatto. Ho usato il computer del medico per accedere ai miei file criptati e ho stampato quelli più importanti.»

Le passò una busta. Sara non sapeva nulla delle operazioni israeliane nel Pakistan occidentale. In ogni caso, in quelle carte non sembrava esserci molto. Diede una rapida occhiata, controllando ciò che Blum aveva rivelato a Khalifa. Riguardava i movimenti lungo il confine del Waziristan. Rimise i fogli al loro posto.

«Va bene» concesse, continuando a pensare a quale fosse il reale valore di quei documenti. «Vai avanti.»

«È vero» continuò lui con un cenno. «Ho intravisto la possibilità di fare molti soldi, ma ho anche immaginato che conquistare la fiducia di Khalifa mi avrebbe permesso di scoprire come aveva fatto a individuarmi così presto.»

Rebeka sentì una fitta allo stomaco. «Nel Mossad c’è qualcuno che gioca sporco.»

«È quello che pensavo anch’io. È la spiegazione più logica, vero? Finché non è successo qualcosa che non avevo previsto.» Guardò l’orologio. «I tre minuti sono finiti.»

«Levi, non fare il cretino. Farai bene a darmi qualche informazione valida.»

«Qualche? Ho scoperto una vera miniera.»

«Non esagerare. Limitati a riferire quello che hai scoperto.»

Blum si rilassò. Sembrava più sicuro di sé, ora. «Ecco quello che è successo: Khalifa aveva stabilito di incontrarci una volta a settimana. Mai nello stesso posto, ovviamente, per ragioni di sicurezza. Ci alternavamo tra cinque ristoranti esclusivi. Sempre a metà pomeriggio, quando i locali erano chiusi. Un giorno sono arrivato in anticipo e l’ho visto parlare con un tizio accompagnato da quattro guardie del corpo. Non erano poliziotti né soldati locali, e nemmeno agenti dei servizi. Non c’entravano nulla con il Qatar.»

«E allora chi erano?»

«Militari, o forse ex militari. Ceceni.»

«Ceceni?» Sara si sistemò contro i cuscini. «Ne sei sicuro?»

«Assolutamente. Ho scattato qualche foto con il cellulare.»

Lo tirò fuori, cercò le immagini e gliele mostrò. Sara vide Khalifa in un locale poco illuminato, appoggiato a un tavolo, in compagnia di un uomo del quale si intravedeva soltanto il profilo. Un altro scatto mostrava i quattro accompagnatori. Non erano arabi, questo era sicuro.

«Come diavolo hai fatto a scattare foto così nitide?»

Blum accennò un sorriso compiaciuto. «La fotocamera del mio cellulare è strepitosa. Quarantuno megapixel, perfetta anche con luminosità scarsa. E senza flash, ovviamente.»

Sara annuì, concentrata sulle foto dei quattro uomini. Guardie del corpo, senza dubbio. Mentre osservava i loro volti, un senso di disagio si impadronì di lei. Si sentiva come se all’improvviso si fosse addentrata in un territorio molto pericoloso.

«Va’ avanti. Ho fatto un po’ di ricerche» la incalzò Blum.

Fece scorrere le immagini e trovò altri scatti dei quattro uomini. Erano foto segnaletiche dell’Interpol. Erano «molto pericolosi», secondo la loro valutazione. Seguiva un primo piano sfocato dell’ospite di Khalifa, e infine la rispettiva foto segnaletica.

«Ivan Borz» sussurrò Rebeka.

«Proprio lui» confermò Blum.

La sensazione di pericolo si fece ancora più forte. «Mio Dio.»

«Ivan Borz, il Lupo. Il più grande trafficante del mondo dopo Viktor Bout. Da quando Bout è in carcere, Borz è il riferimento mondiale per le forniture di armi.»

«Ma non è soltanto un mercante di armi.»

Blum annuì. «Tra i suoi molti nomi c’è anche l’Uomo dei Papaveri, e non a caso. Controlla il traffico mondiale di oppio ed eroina.» Blum riprese in mano il cellulare. «Ma non credo che Khalifa fosse interessato a queste attività. Era in rapporti stretti con Borz per una ragione completamente diversa.»

Sara lo fissò per un istante, pensando a quanto fosse facile giudicare male una persona. «Continua.»

«C’è un legame molto stretto tra Borz ed El Ghadan. Per essere precisi, Borz è il capo degli spioni di El Ghadan.»

«E così è grazie a Khalifa che El Ghadan è riuscito ad accedere all’Al-Bourah Hotel di Doha.»

«Esatto. E grazie a Khalifa sono riuscito a sorvegliare le mosse di Borz.»

«Cos’hai scoperto?»

«Sta per succedere qualcosa di grosso. È per questo motivo che Borz mi spiava. Non voleva interventi dall’esterno né disturbi. Doveva essere sicuro che ce ne stessimo buoni. Doveva accertarsi che non sapessimo nulla della sua nuova operazione, qualunque cosa fosse.» Blum rivolse a Sara uno sguardo amareggiato. «Ma adesso che Khalifa è morto, come diavolo facciamo a scoprirlo?»

Faraj aveva fatto salire Bourne nella cabina del secondo autocarro. I veicoli si misero in marcia all’alba, sotto un cielo striato di rosso. Rombarono lungo le strade silenziose, lasciandosi alle spalle le carcasse delle automobili bruciate. I ciclisti si spostavano sull’altro lato della carreggiata e i passanti si giravano dall’altra parte, come se avessero visto il demonio.

Le bombe iniziarono a cadere in un quartiere vicino. Probabilmente era un espediente per distrarre l’esercito, mentre Faraj e i suoi uomini si avvicinavano alla destinazione.

«Senza di noi, il tuo Paese non ha alcuna speranza» affermò Faraj, sovrastando il rumore del motore.

Bourne aveva detto di essere nato a Lattakia, una città della Siria occidentale, sulla costa del Mediterraneo.

«Mio fratello e mio padre sono morti nello stesso istante. Mia madre non si è più ripresa, è impazzita per il dolore.»

Faraj annuì lisciandosi la barba. «È una tragedia molto comune, vero? E tu sai che le tragedie, per definizione, non dovrebbero essere così frequenti.»

«Non di questi tempi, e non qui.»

«Parlami di Lattakia.»

«È una città portuale. Ci sono un bel po’ di problemi in questo momento.» L’aveva scelta perché buona parte dei traffici di Hafiz e Zizzy passavano dal porto mercantile della città. «Sta subendo l’attacco dei guerriglieri dell’ISIS.»

Faraj gli rivolse uno sguardo truce. «Il gruppo iracheno di al-Qaida è di gran lunga l’organizzazione più pericolosa per il vostro Paese, e anche per noi. L’ISIS ha cercato di unirsi al Fronte al-Nusra, ma noi abbiamo preso l’iniziativa e stroncato l’alleanza sul nascere. Sai perché? Il loro slogan è “da Diyala a Beirut”: vogliono espandersi sui territori del vecchio impero ottomano e schiacciare tutti i jihadisti che non sono estremisti come loro. Noi compresi. Rispetto all’ISIS, noi e al-Nusra siamo agnellini.»

Bourne decise di assecondare Faraj. «Mio padre e mio fratello sono stati uccisi nel nord del Paese mentre combattevano contro l’ISIS. Prima i turchi, poi gli israeliani, poi gli americani e infine quei fanatici iracheni. L’ISIS ha ammazzato, rapito e torturato molte persone ad al-Raqqa e ad Aleppo. Dovevano reagire in qualche modo.»

«Sono morti da martiri. Tutti noi aspiriamo a morire come loro.» Faraj si appoggiò allo schienale, pensieroso, continuando ad accarezzarsi la barba. «Amico mio, il futuro non è facile per noi. L’economia mondiale ci ha superati, e non abbiamo alcuna speranza di recuperare il terreno perso e tenere il ritmo delle grandi potenze. Siamo relitti, soldati di un’epoca antica, che combattono una guerra giusta, per l’Islam e per Allah. Noi cerchiamo di riportare indietro le lancette dell’orologio, ma l’Arabia Saudita, la Tunisia, il Marocco e soprattutto la Siria e l’Egitto ci dimostrano che la modernità è nemica della sharia

Bourne era stupito e affascinato dalla lucidità di Faraj. Non aveva mai incontrato un leader jihadista con una visione del mondo così chiara. «E allora cosa dobbiamo fare?»

«Continuare a combattere, e forse un giorno vinceremo. La vittoria degli Stati del Nord nella Guerra di secessione americana costò la vita al trenta per cento dei loro ragazzi. Quei giovani avevano molte ragioni per vivere, i nostri non ne hanno. Sono poveri, e li aspetta una vita difficile. Non hanno nulla da perdere. Unirsi alla nostra causa è la loro strada per la gloria.»

Si voltò verso Bourne rivolgendogli uno sguardo feroce, animalesco. «Amico mio, ce ne sono tanti, tantissimi, disposti a morire per la nostra causa. Gli americani non riusciranno mai a eliminarli tutti. Questa guerra avrà un esito molto diverso.»

Avevano oltrepassato da tempo il confine occidentale della città. Bourne capì perché avevano scelto il parco Nairabein per il reclutamento. In quel modo potevano evitare l’autostrada e le file infinite di automezzi che entravano a Damasco.

Dopo aver percorso un lungo tratto diretti a sud svoltarono verso sudovest, in mezzo al nulla.

«Sei pronto a lasciare Damasco e la tua patria?» chiese Faraj.

«Certo, Abu Faraj Khalid. Sono qui al tuo servizio.»

«Bene.» Il leader annuì.

Il viaggio continuò. Bourne prese il cellulare prepagato e provò ad accedere al server del Mossad, dove trovò un messaggio per lui. Era criptato. Lo scaricò e impiegò una decina di minuti a decrittarlo. Era di Sara, conteneva informazioni molto riservate e di importanza vitale. Lo cancellò, eliminò la cronologia dell’apparecchio, poi lo spense e lo ripose.

Faraj lo stava guardando. «Un messaggio amoroso?»

Bourne scoppiò a ridere. «Se avessi una donna, le causerei soltanto dolore.»

Faraj annuì in segno di solidarietà. Erano entrambi guerrieri, e sapevano ciò che implicava la loro scelta.

Dopo alcuni minuti si fermarono davanti a un cancello che si apriva in un’alta rete metallica. Apparvero alcuni jihadisti, e Faraj li salutò. Uno di loro aprì il cancello e fece entrare i mezzi e gli uomini prima di richiuderlo.

Girarono a sinistra. Non era un centro di addestramento, ma un campo d’aviazione. Un aereo militare, un Boeing C-17, era fermo all’inizio della pista; la porta posteriore era spalancata in attesa del carico.

Gli autocarri si fermarono dietro l’aereo e i soldati aiutarono i ragazzi a scendere e a salire sul C-17. Anche Faraj e Bourne uscirono dal furgone e si fermarono ad aspettare il completamento delle operazioni. Faraj parlò con il pilota e con il navigatore. Le missioni della mattinata li avevano obbligati a cambiare i loro programmi. Dovevano aspettare che lo spazio aereo siriano fosse libero.

«Dove siamo diretti?» chiese Bourne, mentre lui e Faraj si incamminavano dietro l’equipaggio del C-17.

«Andiamo a casa» replicò Faraj, senza rallentare.

Ma Bourne era riuscito a leggere la destinazione sul piano di volo, mentre salivano la scaletta dell’aereo, e sapeva che Faraj gli aveva mentito. Il Pakistan occidentale, e in particolare il Waziristan, non era la casa di quei terroristi: era il loro rifugio.