17
«Zizzy, hai mai sentito parlare di un locale notturno che si chiama Golden Horn?»
«No, non qui a Damasco.»
«Non mi sorprende. La sua esistenza è un segreto ben custodito» replicò Bourne, guardando fuori dal finestrino del vecchio taxi.
«I ragazzi sono sempre ragazzi, anche quando c’è una guerra in corso» sentenziò Zizzy.
«E i terroristi sono sempre terroristi.»
Zizzy si girò di scatto, facendo scricchiolare le ossa del collo.
«È lì che si trova il cecchino che ha sparato ad Hafiz.» Bourne sollevò la testa. «Siamo quasi arrivati all’ospedale. Scenderai lì, ci ritroveremo in albergo.»
«Quando?»
Il taxi si era fermato. Bourne si chinò in direzione di Zizzy e gli aprì la portiera. «Quando sarò di ritorno.»
Non era strano che Zizzy non avesse mai sentito nominare il Golden Horn: era ben nascosto in un quartiere devastato, nello scantinato di una fabbrica bombardata. Nessuno vide Bourne scendere dal taxi e avviarsi in direzione del locale, tra muri diroccati e radi ciuffi d’erba tenaci come la volontà dei terroristi.
I fari illuminavano il buio e i passi dei soldati disturbavano il silenzio della notte. Si sentirono colpi di arma da fuoco. All’inizio singoli spari, poi raffiche sempre più lunghe: i tiratori avevano individuato l’obiettivo. Un’esplosione fece tremare il terreno, poi un pennacchio nero si alzò verso il cielo, nell’oscurità che avvolgeva le case.
Gli avevano detto di entrare dal lato occidentale. Il motivo era evidente: gli altri ingressi erano ostruiti da cumuli di mattoni o erano stati sbarrati. Un camion era ribaltato sul fianco, simile a un animale preistorico. Le bombe lo avevano scaraventato in aria. La carcassa era pulita come lo scheletro di una preda attaccata dagli sciacalli. Pneumatici, fanali, autoradio, motore, volante: tutto sparito. Al passaggio di Bourne, alcuni cani dal pelo fulvo che avevano trovato rifugio tra i rottami alzarono il muso e si misero ad abbaiare.
L’interno della fabbrica era un labirinto di corridoi, stanze e uffici senza soffitto, a volte anche senza pareti. C’erano macerie ovunque, e non si vedeva anima viva. Il cielo si illuminò di rosso, poi si sentì il boato dell’esplosione. Un altro razzo aveva colpito il bersaglio.
Trovò una scala interna che conduceva verso il basso. I primi gradini erano coperti di vetri e pezzi di cemento, lasciati lì per mimetizzare la via d’accesso al locale, mentre quelli sottostanti erano puliti. Scese fino a un pianerottolo dove la scala girava su se stessa, poi riprese a scendere e sentì il tump-tump-tump della musica elettronica. Prima la batteria, poi un accenno di melodia. Una voce amplificata iniziò a urlare quello che doveva essere il testo. O forse il cantante stava morendo tra atroci sofferenze.
L’area che si trovava sotto di lui era mal illuminata, proprio come il cielo della città. Alcune lampadine rosse riflettevano la loro luce su un ballatoio di cemento, appena più grande di quello che si era lasciato alle spalle, e su una porta di metallo ammaccata. Sembrava che un rinoceronte infuriato l’avesse presa a cornate.
Davanti alla porta c’erano due tizi che fumavano. Si girarono a guardarlo e Bourne sentì il rumore del cane di una pistola che veniva armato. Uno dei due uomini, protetto dal buio, gli puntò contro un’arma antidiluviana che sembrava risalire ai tempi della rivoluzione russa.
«Sei qui per affari?» disse l’ombra armata. Dalla voce dimostrava tredici anni al massimo. O forse era un soprano naturale.
«Devo incontrare Furuque.» Era il nome del cecchino. Un’informazione per cui aveva dovuto utilizzare metodi molto convincenti.
«Chi?» chiese il tipo armato.
«Furuque non c’è» esclamò il suo compagno, nello stesso momento.
«Merda!» imprecò l’altro.
«Ragazzi, mettetevi d’accordo. Lo so che è qui, gli ho appena parlato.» Li superò e aprì la porta con una spallata, così in fretta che non ebbero il tempo di rispondere né tantomeno di fermarlo.
Fu accolto da un muro di suoni amplificati fino a un volume insopportabile. Il posto era pieno di ragazzini che pogavano. La puzza di sudore si mescolava all’inconfondibile odore della marijuana. Alla sua sinistra c’era una specie di bancone che serviva alcolici. Era chiaro che in quel locale non c’erano regole, nonostante i severi divieti applicati in tutto il Paese.
Bourne si mosse in mezzo alla folla. Doveva avere pazienza. Era impossibile procedere con rapidità in quella stanza gremita di corpi che si dimenavano. Divise metodicamente lo spazio in quarti, poi in ottavi e in sedicesimi, alla ricerca di Furuque, scartando tutti coloro che non corrispondevano alla fisionomia del cecchino.
Dopo una ventina di minuti era fradicio di sudore, ma non aveva trovato nulla. Stava tornando verso il bar, che non aveva ancora controllato, quando la porta del bagno si spalancò e ne uscirono due ragazzi, mano nella mano, il volto rilassato dall’appagamento del sesso. Alle loro spalle Bourne vide Furuque, un attimo prima che la porta si richiudesse. Era in piedi, vicino ai lavandini, e parlava a due giovani dall’aria seria che indossavano il kufi, il tradizionale copricapo musulmano. Bourne aprì la porta un po’ alla volta, finché non riuscì a scorgere di nuovo il terzetto.
Entrò, si avvicinò al primo lavabo e aprì l’acqua. Mentre si lavava le mani cercò di captare quello che diceva Furuque. Il cecchino parlava lentamente, scandendo le parole, per farsi sentire nonostante la musica martellante.
Colse alcuni brandelli del suo discorso: «… miscredenti… che combattono per la causa di taghut». Taghut nel mondo islamico indicava l’idolatria e l’adorazione di tutto ciò che non è Allah. Satana, in altre parole. «Il Corano rimarrà immutato, preservato per sempre dai suoi sacri guardiani, quando tutti gli altri libri cosiddetti sacri saranno finiti in polvere», «gli ebrei, gli americani, gli infedeli che hanno espulso, distrutto e devastato», «il sangue versato in Palestina deve essere vendicato», «nel nome dell’Islam… la completa sottomissione alle sue leggi», «per rimediare alle ingiustizie dobbiamo impegnarci fino alla morte e oltre, finché non saremo liberi da…»
Furuque era immerso nella declamazione del credo jihadista ed era concentrato soltanto sui due ragazzi che lo ascoltavano. Bourne stava per afferrarlo, quando il mondo crollò. La musica si fermò di colpo e fu sostituita da ordini gridati a voce alta, seguiti dal passo pesante dei soldati che si ammassavano ai bordi della pista. Dopo pochi istanti iniziò il fuoco delle semiautomatiche, proprio davanti alla porta del bagno. Urla di spavento, di dolore e imprecazioni per l’impossibilità di rispondere all’attacco furono l’unica replica alla pioggia di proiettili.
Dal bagno Bourne poteva sentire i rumori della folla impazzita. Poi la porta fu scardinata da ragazzini, instupiditi dalla droga e dal sesso, che si riversarono fuori dalla stanza in cerca della salvezza. Come pecore al macello, si erano diretti proprio verso gli artigli della morte che li attendeva sulla pista insanguinata e coperta di cadaveri. I singhiozzi terrorizzati dei ragazzi feriti sembravano il ritmo di una nuova forma di musica, terribile e disumana.
L’esercito siriano li aveva trovati, e non avrebbe fatto prigionieri.