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«Ma prima» continuò Islam «c’è un’altra cosa da fare.»

Doveva avere inviato qualche segnale che era sfuggito a Sara, perché proprio allora si aprì la porta del magazzino e uscì un altro jihadista. Era magro come Islam, ma più basso. Aveva il volto coperto e si vedevano soltanto gli occhi. Portava con sé una valigetta di plastica da quattro soldi che appoggiò vicino alla sedia del compagno, poi si girò e se ne andò senza dire una parola.

Islam aprì la valigetta, estrasse un portatile e lo accese, poi inserì nella porta USB un rettangolino con un sensore.

«Dammi l’indice destro» ordinò a Sara. La ragazza obbedì e lui appoggiò il polpastrello di lei sul rettangolino, poi controllò la scansione biometrica sullo schermo. «Sei davvero un mistero. Le tue impronte non risultano in nessun database internazionale.»

Per fortuna, pensò Sara, ringraziando per l’ennesima volta l’ingegnosità dei tecnici del Mossad. «Quindi dovrete fidarvi di me.»

«Non sappiamo chi sei, né se Ellie Thorson è il tuo vero nome. Ci hai dato due dossier sul Mossad, entrambi di buona qualità. E allora? Potrebbero essere esche, un regalino per infiltrarti nella nostra organizzazione.»

Sara non replicò. Se avevano sospetti su di lei, era meglio tacere. Cercò di stare ferma e di controllare la respirazione. Doveva rilassarsi, a ogni costo. Si allungò per prendere un po’ di cibo: mangiare l’aveva sempre aiutata a calmarsi.

Islam le rivolse uno sguardo curioso. «Abbiamo bisogno di garanzie. Qualcosa di solido, che non possa essere contraffatto.»

Era il momento di buttarsi, di chiedere quello che voleva da lui. «Qualcosa che tu possa vedere con i tuoi occhi.»

«Esatto.»

«Capisco. Al tuo posto, farei la stessa cosa.»

«Allora siamo d’accordo.»

Lui fece per alzarsi, ma lei lo trattenne. «Non proprio.» Aspettò che si stravaccasse di nuovo sulla sedia. «Anch’io ho bisogno di garanzie.»

Lui si irrigidì. «Non credo che tu sia nella posizione di…»

«Dimmi, Islam, per voi sono una prigioniera o una risorsa? Ma come potrei essere una prigioniera? Sono l’emissario di El Ghadan, o sbaglio?»

Lui annuì. «Sì, lo sei.»

«E allora voglio garanzie.»

Per la prima volta da quando si erano incontrati lui esitò, come se avesse perso il controllo della situazione. Era a disagio, e non sapeva cosa fare.

«Vuoi chiamare El Ghadan?» chiese Sara con un tono neutro, privo di sarcasmo. Non voleva farlo arrabbiare. «Ma non c’è motivo per farlo, vero?» In questo modo gli avrebbe permesso di salvare la faccia, ma nello stesso tempo avrebbe spostato il baricentro gerarchico della loro relazione. Aveva ancora molte cose da scoprire.

Lui infilò la mano nella valigetta e tirò fuori una SIG Sauer che appoggiò sul tavolo.

«Adesso devi prendere la tua decisione.»

Sara evitò con cura di guardare la pistola, anche se attraeva i suoi occhi come una calamita.

«È per me?»

«Te l’ho detto: il valore dei nostri ospiti è diminuito in maniera sensibile.»

Sara sentì accelerare il battito del cuore. Riuscì a scacciare il pensiero di Soraya e Sonya. «Vuoi dire che la donna e sua figlia non servono più a El Ghadan?»

«Questo è ancora da stabilire.»

«E devo essere io a farlo.»

Gli occhi scuri di Islam non si mossero dai suoi. «Ellie, prendi la pistola.» Si alzò in piedi. «Prendi la pistola e andiamo a conoscerle.»

«Perché lo fai?» chiese Bourne, allacciando la cintura di sicurezza.

Borz fece lo stesso e lo guardò con disprezzo. «Ha importanza?»

«Borz, io sono un tipo razionale. Non sono un fanatico né un ideologo, te l’ho detto fin dall’inizio. Certo che ha importanza!»

«È teatro, Yusuf. Ogni atto di terrorismo è una rappresentazione teatrale.»

I dispositivi di atterraggio si attivarono con un cigolio. I flap erano in posizione.

«Non è una risposta sufficiente.»

«Dovrai fartela bastare.»

«Non sono d’accordo.»

Borz lo fissò, poi tirò fuori una pistola. «Allora ti ammazzo subito.»

«Ora stai parlando come un pazzo, e tu non sei pazzo. Sei un uomo d’affari, nient’altro. Se agisci, agisci per denaro.»

«Sta’ zitto!»

Toccarono terra con uno scossone e l’aereo rullò lungo la pista frenando bruscamente.

«Chi è il tuo cliente? Chi paga per questo omicidio all’ingrosso?»

«Ti ho detto di stare zitto!»

Il jet aveva rallentato e si stava avvicinando al terminal merci. Il personale di terra guidò Musa verso la fase finale dell’atterraggio.

Borz si voltò verso Bourne. «Perché ti interessa chi paga per il lavoro? Che cosa ci guadagni?»

«Non uccido alla leggera. Ho bisogno di una motivazione.»

«Bene! Un cecchino con una coscienza! Hai bisogno di una motivazione per ammazzare qualcuno con il tuo fucile di precisione?»

«Lavoro per me stesso, e quindi sì, ho bisogno di una motivazione per ogni assassinio. Non guadagno tanto quanto te, ma almeno dormo bene la notte.»

«Yusuf, anch’io dormo bene.»

«Ascoltami, Borz: tu non vuoi dirmelo, e va bene così, è una tua scelta. Ma io mi tiro fuori. Ci salutiamo qui e me ne vado per la mia strada.»

Borz lo afferrò per il polso. «Tu non vai da nessuna parte.»

«Vogliamo parlarne? Allora metti via la pistola.»

L’aereo si era fermato. Le ruote erano state bloccate, i motori spenti e la scaletta era posizionata davanti al portellone aperto. Nessuno si era alzato, nessuno si era slacciato la cintura: tutti aspettavano il segnale del capo. Ma il capo era troppo occupato nella sua battaglia verbale con Yusuf.

Dopo qualche secondo, Borz mise via la pistola. Come intendesse entrare a Singapore con un’arma rimaneva un mistero.

«Se vuoi che rimanga, allora significa che hai bisogno di me. E se hai bisogno di me, allora negoziamo» continuò Bourne, in tono vagamente minaccioso.

Borz scrollò le spalle, come se l’argomento della discussione non fosse di suo interesse. «E cosa dovremmo negoziare?»

«Voglio centomila.»

«Non se ne parla neanche.»

«Allora me ne vado.»

«Ti consegnerò alle autorità di Singapore.»

«Rischiando di far saltare la tua copertura? Non penso proprio.» Bourne guardò fuori dal finestrino. «È una serata meravigliosa, Borz. Perché non usciamo a divertirci?»

Anselm era appena rientrato in camera. Si era tolto tutte le voglie che aveva, in ogni modo possibile, più un paio di variazioni che non aveva mai osato immaginare. Qualcuno bussò alla porta. Si era sdraiato mollemente sul letto, avvolto in una deliziosa spossatezza postcoitale e con il pensiero di ordinare qualcosa con il servizio in camera, e per nulla al mondo si sarebbe alzato. Gli sembrava di fluttuare in un sogno da cui non voleva risvegliarsi. Ma purtroppo la realtà la pensava diversamente.

I colpi alla porta continuavano e fu costretto ad andare ad aprire.

«Il presidente vuole vederla. Subito.» Era uno degli agenti dei servizi segreti.

Percorse il corridoio in calzini, imprecando silenziosamente, ed entrò nell’immensa suite di Magnus senza bussare.

Il presidente si voltò quando sentì aprirsi la porta. «Howard, eccoti!» Stava ammirando la distesa di luci della città, simile a un cielo trapunto di stelle multicolori.

«Dov’è Camilla? Ti avevo detto che volevo vederla.»

Anselm sentì una gelida goccia di sudore che gli scendeva lungo il fianco. «Bill, Camilla è sotto copertura, credevo di avertelo detto» disse, allarmato.

«E io ti avevo detto che non me ne importa nulla. Howard, accidenti, siamo dall’altra parte del mondo! Che cosa può capitarci?»

«Bill, devo ricordarti che il presidente degli Stati Uniti d’America porta il mondo con sé, ovunque egli vada?»

Come gli succedeva spesso quando qualcuno, in privato, gli faceva sbattere il muso contro la realtà, Magnus accusò il colpo. In un istante il suo volto si fece smorto e pieno di rughe, come se fosse invecchiato di cinque anni in pochi secondi. Si allontanò dalla finestra e si lasciò cadere su una poltrona, prendendosi la faccia tra le mani.

«Howard, cosa devo fare?» alzò lo sguardo verso il capo di gabinetto. «Ho bisogno di vederla, di toccarla… Non riesco a pensare che a lei.» Scosse la testa.

L’angoscia del suo amico fece breccia nella coltre di beatitudine che avvolgeva Anselm. «Va bene.» Si sedette di fronte al presidente. «Adesso ti dico cosa faremo. Domani c’è un’ora di buco tra una corsa e l’altra. Hai mezz’ora di tempo, prima di fare il tuo ingresso nel box del presidente di Singapore. Ti porterò da lei.» Sollevò un dito. «Ascoltami, Bill: lei sta lavorando. Non devi interferire con le sue attività, non puoi far saltare la sua copertura.»

«Trenta minuti non sono sufficienti.»

«Dovrai farteli bastare, il presidente di Singapore non accetterà un ritardo.»

«A proposito, come diavolo si chiama?»

Entrambi scoppiarono a ridere. Anselm si alzò in piedi, si avvicinò al mobile bar e si versò due dita di bourbon. Poi si voltò verso il presidente.

«Bill…»

«No! Ho letto il dossier, so esattamente cosa farà Camilla domani.» Sospirò. «Howard, fa’ del tuo meglio.» Si alzò, raggiunse il capo di gabinetto e gli afferrò la spalla. «Io non sono preoccupato. Sei tu quello che si preoccupa per me.»