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Camilla tornò alla casa sicura e compose un numero sul cellulare. Hunter rispose subito, come se fosse in attesa della sua chiamata.

«Sei tu» disse, con il fiato corto. Camilla aveva imparato in quei giorni che le accadeva solo quando era davvero emozionata. «Temevo che non mi avresti richiamata.»

«Hunter, stammi a sentire. È successo qualcosa che non avevi previsto.»

«Cosa vuoi dire?» rispose l’altra con la voce strozzata.

«Ho letto il rapporto che tu e Terrier avete scritto.»

Ci fu una pausa. Camilla immaginò i pensieri che dovevano attraversare la mente di Hunter in quel momento. Niente di buono, con ogni probabilità.

«E quindi?»

«Devi lasciare il Caseificio.»

«Camilla!»

«Lascia il Caseificio, vattene da Washington, e anche dal Paese.»

«Non puoi denunciarci, non puoi… Ti chiediamo solo di non fare nulla, di farti da parte, di lasciar accadere quello che deve accadere. È così tremendo?»

«Hunter, ti rendi conto di quello che dici? Ascoltami: io sono qui per proteggere il presidente. Non tradirò il mio incarico, non ucciderò per te e non mi farò da parte.» Aveva alzato la voce. Si era ripromessa di mantenere la calma, ma appena aveva iniziato quella discussione si era resa conto che non ci sarebbe riuscita. «Hunter, vattene subito. Adesso!»

«E dovrei sacrificare Terrier?»

«Sarà lui a sacrificare te, quando lo prenderanno.»

«Non puoi…»

«È la tua unica possibilità.»

Ci fu un’altra pausa carica di tensione.

«Non posso. Io credo in quello che faccio… È l’unica cosa da fare per fermare…»

«Hunter, mi dispiace, davvero.»

Interruppe la telefonata prima che le emozioni prendessero il sopravvento, facendole perdere il controllo. Doveva affrontare la realtà e rendersi conto di ciò che aveva sotto gli occhi da qualche giorno: Hunter e Terrier erano due fanatici. Dato che il loro complotto coinvolgeva il presidente, chiamò Tony Levinson dei servizi segreti. Era stata lei a portarlo a bordo, quindi si poteva fidare. Gli raccontò di Hunter e Terrier e rispose come poteva alle sue domande incalzanti. «Va’ subito a prenderli» ordinò, e chiuse la conversazione.

Per qualche istante non provò nulla, come se il vuoto l’avesse inghiottita. Ma poi, all’improvviso, arrivò la tempesta e scoppiò in singhiozzi, come non le capitava da quando era bambina. E anche allora, sua madre l’ammoniva sempre perché non piangesse. Non avrebbe mai dovuto mostrare le sue emozioni. «Ti fanno sembrare debole, e in un mondo di maschi non puoi permetterti di apparire fragile» le diceva. Ma in quel momento la diga era crollata e lei pianse senza vergogna, finché non ebbe più lacrime da versare.

Si sentiva a pezzi. Avrebbe voluto andare a letto e dormire per una settimana, ma non lo avrebbe fatto: non era quel genere di persona. Si versò un drink e lo tenne in mano senza assaggiarlo: era anche quel genere di persona. Le piacevano il peso del bicchiere e l’aroma, che le ricordavano tempi migliori e meno pericolosi.

All’alba sentì la chiave girare nella toppa e versò il whisky nel lavandino. Era Ohrent.

«Dormito bene?» le chiese entrando in cucina.

«Come un angioletto» replicò lei con un sorriso finto.

«Hai bisogno di mangiare qualcosa.» Sembrava non essersi accorto delle sue lacrime. «Ma non troppo… non vogliamo aumentare di peso, vero?»

«E Kettle? L’hai trovato?»

«Non ti preoccupare per lui.» Batté le mani. «E adesso andiamo: oggi ci sono le corse!»

«Entra, Howard! È bello vederti così presto!» esclamò il presidente gioviale.

Anselm, spettinato, si stava ancora allacciando la cintura dell’accappatoio dell’albergo. «Bill, oggi per noi è una grande giornata.»

Si fermò quando vide Marie Engle, l’addetto stampa, che gli sorrideva. Era seduta sul divano, di fronte al presidente. Un carrello traboccante di cibo era sistemato accanto a Bill.

Anselm salutò la Engle e poi tornò a concentrarsi su Magnus. «Tra un paio d’ore dobbiamo incontrare il presidente palestinese e il primo ministro di Israele, al Thoroughbred Club.»

«Sì, ma c’è tutto il tempo per fare colazione. Vieni qui e mangia qualcosa con noi» lo invitò, indicando il posto vicino a lui.

Anselm obbedì. Il tavolino era apparecchiato per tre. C’erano frutta, uova, pane tostato, tazze e bicchieri di spremuta.

Il presidente si versò un caffè, mentre la Engle ne aveva già presa una tazza. Anselm si accorse che non c’era nessun altro nella stanza: nessun inserviente e nessun agente della sicurezza. Era decisamente strano.

«Che tu ci creda o no, il caffè è magnifico» continuò Bill, con lo stesso tono che usava nelle interviste. «È balinese. Non sapevo che a Bali coltivassero caffè… È davvero una bomba. Tieni.»

Gli passò una tazza e mentre Anselm se la portava alle labbra continuò: «Sapevi che sono un grande ammiratore di John Le Carré?».

«No, non lo sapevo» rispose Anselm, sempre più perplesso. «Ehi, è davvero forte.»

Cercò di prendere un po’ di latte, ma il presidente lo fermò. «Fidati, è meglio senza.» Gli fece l’occhiolino. «Ti fa sentire un vero uomo.»

Anselm obbedì e bevve un altro sorso facendo una smorfia, come se la tazza fosse piena di grappa.

Il presidente si appoggiò contro lo schienale e accavallò le gambe. Sembrava rilassato come se stesse facendo colazione con un amico dopo una notte brava. «Sapevi che Le Carré è uno pseudonimo?»

«Sì, mi sembra di averlo letto da qualche parte.»

«Il suo vero nome è Cornwell, David Cornwell.» Bill bevve un altro sorso di caffè senza perdere di vista Anselm. «Il padre di Cornwell era un truffatore. Te lo immagini? Forse è per questo che ha adottato uno pseudonimo. Il padre fu catturato, processato e spedito in galera, lo sapevi?»

Anselm, sempre più pallido, rimase in silenzio qualche istante. «Sì.» Si schiarì la voce. «Sì, credo di sì.»

«Me lo immaginavo!» gridò il presidente con il tono felice di un bambino che sta per aprire i regali di Natale, prima di cambiare bruscamente atteggiamento. «Quando pensavi di dirmi che il programma dei droni è sotto attacco?» continuò, gelido.

«Bill, è tutto sotto controllo. Ho già pensato a tutto.»

«Davvero? Come hai pensato a questo?» Aprì lo scomparto superiore del carrello, tirò fuori una copia dell’incarico a Kettle e la lanciò in grembo ad Anselm.

Anselm guardò il foglio e poi distolse gli occhi, spaventato come se il suo superiore gli avesse lanciato addosso un serpente velenoso.

«Fermalo, Howard.» La voce di Magnus non mostrava alcuna esitazione. «Ferma il piano.»

«Signore, io…»

«Chiama quello stronzo del tuo amichetto Finnerman. Digli di revocare l’incarico del tiratore scelto, o come diavolo lo chiamano adesso al dipartimento della Difesa.»

«Sniper, signore» rispose Anselm, sconvolto. Sembrava sul punto di cadere a terra stroncato da un infarto.

«Fallo, Howard. O vuoi che sia io a chiamare?»

«Bill, ascoltami…»

«Hai perso il privilegio di darmi del tu.»

«Signore, sta commettendo un grave errore. Se il cecchino non si occuperà di Bourne…»

«Gli uomini della sicurezza sono stati avvertiti della sua presenza.»

«Certo. Ma la mia opinione è che non siano all’altezza del compito. Non come Kettle.»

«Smettila di dire stronzate.» Alzò severamente l’indice, come un padre di famiglia che ammonisce suo figlio. «C’è qualcosa che non mi hai detto… Un’aggiunta all’incarico, decisa da te e da Finnerman. O sbaglio?»

Anselm deglutì. «Io… non so a cosa si riferisca, signore.»

Il presidente premette un tasto del cellulare e Anselm ascoltò pietrificato la sua voce e quella di Finnerman. I suoi occhi guizzarono da una parte all’altra, come se ne avesse perso il controllo. «Signore, mi dia la possibilità di spiegarle tutto. Volevamo proteggerla da…»

«Le spiegazioni non mi interessano più. Adesso farai quello che ti dico. Né più, né meno.»

Anselm annuì, intontito. Mise una mano in tasca, prese il cellulare e premette il tasto di chiamata rapida.

Il presidente lo guardò attraverso gli occhi socchiusi. «Cosa c’è? Non risponde?» Schioccò le dita. «Ma certo! Il telefonino di Marty Finnerman è stato sequestrato, così come il suo computer fisso e il portatile.» Sorrise. «Il tuo amichetto adesso si trova in una cella di isolamento ed è interrogato da alcuni tizi della Sicurezza nazionale dei quali non so nulla.» Il sorriso si fece più ampio. «O meglio, detto tra noi, li conosco, ma proprio per questo…»

Si appoggiò le mani sulle cosce e si alzò in piedi. «Adesso tocca a te.»

Anselm non riusciva a respirare. «Un attimo… è stata mia l’idea di infiltrarla come fantino. Perché? Perché sarebbe stata addestrata al Caseificio e avrebbe incontrato Hunter Worth. Hunter era nel nostro mirino da un po’ di tempo…»

«Cosa significa “nostro”? Di chi?»

Anselm sospirò cercando di calmarsi. «Di Gravenhurst.»

Il presidente annuì. «Certo, i cosiddetti Sorveglianti. Ma chi sorveglierà i sorveglianti?»

Anselm ignorò la domanda. «Hunter è un pericolo per la nazione. Lavorava con qualcuno, e dovevamo scoprire chi fosse. Così ho mandato Camilla…»

«È Terrier.»

«Che cosa?»

«Camilla lo ha appena denunciato: il contatto di Hunter è Terrier» ringhiò Magnus, fuori di sé. «Uno degli agenti più fidati di Finnerman, per l’amor di Dio!»

Anselm impallidì. «Io non…»

«Howard, sta’ zitto!» Per la prima volta da mesi, il volto del presidente non esprimeva indecisione né ansia. Senza staccare gli occhi da Anselm allungò una mano. «Marie?»

Lei gli passò un foglio di carta intestata. «Howard, questa è una dichiarazione per la stampa. Descrive nel dettaglio che il programma dei droni era una creatura di Finnerman. Darò la colpa a lui, e lui ne pagherà le conseguenze. E sai perché? Perché tu lo convincerai che è nel suo interesse. E perché lo farai? Perché è anche nel tuo interesse.»

«Camilla ha fatto quello che doveva fare… voglio dire, io non c’entro…»

«Tu l’hai usata e l’hai messa in pericolo, stronzo!» Gli passò un altro foglio. «Firma questa dichiarazione che attesta la tua complicità con Finnerman e non finirai in galera, ma nulla di più. Sono stato chiaro?»

Anselm annuì scuotendo la testa, incapace di parlare.

«E adesso vattene.»

Il presidente attraversò la stanza e raggiunse due agenti dei servizi segreti che aspettavano pazientemente dietro la porta chiusa. «Ragazzi, è tutto vostro. Trattatelo come se fosse il figlio di puttana che si è appena scopato la vostra bambina di sedici anni.»