10
Nere nubi oleose incombevano su Damasco. La torre di controllo aveva ordinato al pilota di cambiare pista, per evitare i crateri fumanti che si aprivano nel terreno.
I proiettili traccianti riempivano l’aria e scuotevano gli edifici dell’aeroporto. La maggior parte delle coperture di vetro era in frantumi. Dovunque c’erano soldati che imbracciavano fucili d’assalto; la puzza di cordite e di gomma bruciata si mescolava all’odore della paura e del sudore.
«Non c’è da preoccuparsi» li rassicurò il pilota, mentre li scortava attraverso la distesa di asfalto fino alla zona arrivi dell’aeroporto. «Il grosso della città è ancora intatto.»
Ovunque si vedevano postazioni protette da sacchi di sabbia. I proiettili fischiarono per qualche istante sopra la loro testa, poi le raffiche cessarono.
«Chiamatemi, quando volete tornare a casa» li salutò il pilota davanti al terminal. «Sempre che l’aereo sia ancora tutto intero!» Rise, ma Zizzy e Bourne sapevano che non stava scherzando.
All’interno dell’edificio, l’aria condizionata non funzionava e l’elettricità andava e veniva. Un funzionario nervoso prese i passaporti e intascò la mazzetta che Zizzy gli aveva allungato. Fece sparire i soldi e timbrò i passaporti senza nemmeno guardarli in faccia. Sembrava esausto per la paura.
«Ogni giorno che passa, i ribelli diventano sempre più forti» spiegò il tassista. «La città è divisa.» Era un uomo magro sulla cinquantina, aveva il viso bruciato dal sole e gli occhi azzurri molto comuni tra i siriani. «Ho visto di tutto, ma l’ultimo anno è stato tremendo.» Sterzò per evitare un paio di auto bruciate. Una era andata a sbattere contro un albero e l’incendio aveva incenerito il fogliame. Dalla carcassa spuntava un cadavere, la puzza di carne umana era nauseante.
«Se volete un consiglio» aggiunse, «girate sui tacchi e andatevene finché siete in tempo.»
Lo Shahakbik era un bell’albergo, o almeno, lo era stato finché un bombardamento non ne aveva distrutto un’ala. Il resto dell’edificio funzionava più o meno normalmente. Era dotato di un generatore che entrava in funzione quattro o cinque volte al giorno, ogni volta che l’elettricità veniva a mancare.
Bourne e Zizzy occuparono due camere adiacenti che affacciavano su un cortile interno pieno di alberi di fico e di lime, di buganvillee e cespugli di rose. Una balaustra decorata correva lungo il perimetro del giardino, illuminata dal sole che faceva capolino tra le nuvole di fumo nero. Il boato delle esplosioni spezzava il silenzio di tanto in tanto, facendo tremare i quadri appesi alle pareti e staccando pezzi di intonaco.
Bourne si sdraiò sul letto senza spogliarsi, e fissò il soffitto fino a quando gli si chiusero gli occhi e cadde in un sonno ristoratore.
Soraya sollevò la testa, svegliata da una luce improvvisa. La stanchezza l’aveva fatta scivolare in un sonno leggero, ma i suoi sensi erano sempre all’erta. Accanto a lei anche Sonya si svegliò con un gemito di terrore.
«Sonya!» Soraya non avrebbe voluto urlare, per non dare soddisfazione ai carcerieri. Ma era una madre, e sua figlia era l’unica priorità. La sua voglia di vivere era indissolubilmente legata al futuro di Sonya.
Dio, ti prego, fa’ di me quel che vuoi, ma concedi a Sonya una vita lunga e felice, si ripeteva da quando era calata l’oscurità. Non aveva altre cose a cui pensare.
«Cosa volete da noi?» chiese. Vedeva soltanto quella luce accecante. «Perché ci tenete qui?»
Non ebbe risposta, a parte il ronzio dei macchinari. Poi una figura sbucò dal buio e si diresse verso Sonya.
«Cosa fai? Non toccarla!» urlò, allarmata.
Un attimo dopo, la bambina fu depositata tra le sue braccia.
«Mamma! Mamma!» Il suo corpicino caldo si strinse contro il petto di Soraya e le piccole braccia le si avvinghiarono al collo. Il viso della bambina era rigato di lacrime. Le sentì, umide contro la sua pelle, e le venne da piangere. Sarebbe morta volentieri se solo avessero risparmiato sua figlia, pensò, prima di recuperare la lucidità. Non poteva morire, doveva occuparsi della sicurezza di Sonya.
Raccolse tutte le forze e le sussurrò all’orecchio: «Tesoro, questo è un gioco e dobbiamo giocare. Se giochiamo andrà tutto bene. Finirà tutto bene. Torneremo a casa e tutto sarà come prima».
«E papà? Lui non tornerà con noi, vero?»
Sua figlia era troppo intelligente, pensò Soraya. Avrebbe dovuto insegnarle a sfruttare al meglio quella lucidità. In quel momento fu sopraffatta da un’altra ondata di panico: e se non fosse riuscita a scappare da quel posto? E se non ci fossero riuscite?
«Mammina, cosa c’è? Perché stai tremando?»
«Io…» Soraya chiamò a raccolta tutte le sue forze. Doveva farlo, per il bene della bambina. «La mamma ha un po’ freddo.»
«Allora ti abbraccio più forte. Ti scaldo io…» replicò la piccola.
Qualcuno la prese per le braccia. Sonya urlò e Soraya le bisbigliò: «Ricordati di quello che ti ho detto, tesoro». La bambina si calmò. La fecero voltare, in modo che la luce fosse puntata sul suo viso.
«Ferma!» ordinò una voce sgradevole. Soraya non capì se fosse rivolta alla bambina o a lei.
Sentì un fruscio di carta e vide il profilo di un uomo che reggeva un giornale aperto davanti al loro volto. C’era anche un’altra persona. Qualcuno filmò la prima pagina e poi lei, assieme a Sonya. Cercò di pensare in maniera razionale, ma aveva la mente offuscata dalla paura e dall’isolamento.
«Parla!» ordinò la voce.
Si voltò e guardò l’obiettivo. «Ascolta, noi siamo…»
«Basta così.»
È la prova che siamo vive, pensò, e improvvisamente capì il motivo della loro prigionia. La richiesta di un riscatto non era plausibile. Rimaneva una sola possibilità: i carcerieri volevano obbligare qualcuno a fare qualcosa per loro. Ma chi? Di chi potevano avere così bisogno da spingerli a rapire la sua famiglia? Di colpo tutto fu chiaro. L’uccisione di suo marito era stata un atto dimostrativo. Volevano essere presi sul serio. Rimaneva una domanda: chi volevano obbligare ad agire per loro?
La risposta esplose nella sua testa, chiara e accecante come la luce che le avevano puntato sul viso.
Jason Bourne.
Bourne si svegliò quando la luce del sole, facendo capolino nella stanza, lambì il suo viso come un insetto strisciante. Aveva sognato il buio, occhi che lo spiavano nell’oscurità, un irrefrenabile e vano desiderio di scappare. Poi una lampadina si era accesa e si era accorto di essere intrappolato al centro di una ragnatela fatta di cavi ad alta tensione. Sentiva un ronzio, come uno sciame di api che si avvicinavano. Poi era arrivato il dolore, e aveva inarcato la schiena, incapace di respirare…
Aprì gli occhi e si aggrappò alla vista della stanza d’albergo. La realtà. Si mise a sedere e controllò il cellulare di El Ghadan. Aveva ricevuto un messaggio.
Era arrivato a mezzanotte in punto, mentre lui dormiva, isolato dal mondo.
Guardò il video che gli avevano inviato. Vide il giornale, la data. Poi qualcuno scostò le pagine e apparvero Soraya e Sonya. La donna era confusa, il volto rigato di lacrime e di sudore. Sembrava smarrita e consumata dalla preoccupazione. La bambina piangeva. Fino a quel momento il video era muto, ma improvvisamente l’audio venne attivato. Bourne sentì una voce perentoria e la risposta di Soraya, poi tornò il silenzio e lo schermo diventò nero.
Rimase seduto. Non riusciva a formulare pensieri coerenti. Raccolse le forze e si costrinse a guardare il video un’altra volta. Prestò attenzione ai margini dell’inquadratura, in cerca di un dettaglio che lo aiutasse a capire il luogo della prigionia, ma non c’era nulla a parte le due donne e il quotidiano.
Si infilò gli auricolari e ascoltò l’audio dall’inizio alla fine.
Scagliò il cellulare sul letto, come se fosse incandescente. Si alzò per andare in bagno, ma l’apparecchio iniziò a squillare. Lo raccolse. Sapeva già chi lo stava chiamando.
«Che ci fai a Damasco?» gli chiese El Ghadan.
«Cerco la persona giusta per fabbricare la bomba» replicò Bourne.
«È così che hai deciso di procedere?»
Bourne si voltò verso la finestra e guardò la città illuminata dal sole. Era quasi pomeriggio, aveva saltato colazione e pranzo. I caccia sfrecciavano nel cielo, le scie simili a serpenti. «Non lavoro bene se qualcuno mi sta con il fiato sul collo.»
«Abituati. Controllo tutte le tue mosse.»
Bourne lanciò il cellulare sul letto sfatto, si spogliò e si fece una lunga doccia. Provò a svuotare la mente dai pensieri, ma continuava a vedere i volti di Sonya e Soraya. Era un’immagine che lo faceva infuriare. Avrebbe voluto ritornare immediatamente a Doha per scoprire dove erano imprigionate e… e poi? In quel modo avrebbe solo causato la loro morte. L’acqua calda scorreva sul volto, sulla testa, sulle spalle e sulla schiena. Pazienza, si disse. Devi avere pazienza. Solo così potrai salvarle.