capitolo 43

Logan lanciò uno sguardo attraverso il vetro del reparto di terapia intensiva. Dildo era sdraiato sulla schiena su un letto d’ospedale, con il volto nascosto dietro a una maschera dell’ossigeno il cui tubo spariva nel muro.

Un agente in uniforme era seduto su una sedia di plastica nel corridoio all’esterno, a capo chino su un voluminoso tomo, le labbra che si muovevano leggermente mentre scorreva il testo di una pagina. Le luci sul soffitto si riflettevano su una chierica larga quanto un pugno, al centro della sua testa.

Logan gli si fermò di fronte. «Novità?»

«Non ci capisco una parola di questa roba». Sollevò il libro per farglielo vedere: La Critica della ragion pura di Immanuel Kant. L’infermiera Claire aveva colpito ancora. «A quanto sembra, non posso dimostrare che la sedia su cui mi trovo ora esiste, perché io penso che esista soltanto perché è il mio sedere a dirmelo, e io non posso essere certo empiricamente che il mio sedere dica la verità…».

«È questo che dice?»

«Da quel che ho capito, uno dei più grandi filosofi del diciannovesimo secolo pensa che il mio culo sia un bugiardo».

«Non ci crederei troppo, se fossi in te».

Una dottoressa bassa, con due borse violacee sotto agli occhi e la spalla sinistra vistosamente più in basso della destra, uscì zoppicando dal reparto di terapia intensiva, lasciando che la porta si richiudesse alle sue spalle, per poi appoggiarvisi contro con la schiena e la nuca. Sospirò, rivolta al soffitto.

Logan si schiarì la voce. «Come sta…?».

La dottoressa sbatté le palpebre, con gli occhi che si assottigliavano agli angoli, come se avesse appena calpestato qualcosa di appuntito. Poi gli rivolse uno stanco sorriso. «Mi scusi, è stata una lunga giornata. Posso aiutarla?»

«Timothy Mair… l’uomo che è stato accoltellato, come sta? Sta forse…?»

«Ah, sì. No, no, se la caverà. Hanno fermato l’emorragia e ricucito il buco che aveva in un polmone. Lo stiamo tenendo d’occhio per evitare infezioni secondarie ed edemi, ma se la caverà». Represse uno sbadiglio, per poi passarsi una mano sugli occhi. «Mi scusi. Questo caldo mi uccide…».

«Grazie». Logan si addentrò nell’ospedale. Un gruppo di pazienti in sedia a rotelle si era radunato intorno ai distributori automatici, nel corridoio. Pronti alla razzia. Due vecchietti con la stessa vestaglia marrone gli ciabattarono incontro, trascinandosi dietro le flebo e discutendo sulla possibilità che l’Aberdeen si facesse fare il culo a strisce dal Celtic nella finale di coppa.

Logan continuò a camminare.

Una donna incinta, con il braccio sinistro chiuso in un gesso premeva con insistenza il pollice contro il pulsante dell’ascensore. Lui si fermò lì accanto. Attese che la cabina cigolante scendesse fin lì dal quinto piano. Ding, fecero le porte, aprendosi. All’interno, il pavimento dell’ascensore era tenuto insieme da strisce di nastro adesivo, la cui superficie argentata era graffiata e piena di buchi. Entrarono entrambi.

A metà strada, la donna scoppiò silenziosamente in lacrime.

«Si sente bene?».

Lei non rispose, continuando semplicemente a fissare la parete della cabina, finché l’ascensore non si fermò con un lieve scossone. A quel punto uscì e si dileguò.

Le porte si richiusero.

Logan chiuse gli occhi, lasciando che l’ascensore riprendesse a salire. Non aveva importanza quante foto piacevoli e quanti bei dipinti attaccassero alle pareti dei corridoi, l’Aberdeen Royal Infirmary sarebbe sempre rimasto un orribile labirinto di cemento infestato da malati e moribondi.

Che argomenti allegri.

Prese un profondo respiro, mentre le porte si riaprivano, e uscì dall’ascensore, dirigendosi in fondo al corridoio. La testa alta e un sorriso sul volto che sperava non sembrasse forzato.

Dopotutto, lui era uscito da quel posto, e anche Samantha ci sarebbe riuscita.

Alla fine…

Logan entrò nel reparto.

Samantha si sedette sul letto non appena lui entrò. Aveva i capelli di un rosso arrabbiato, e i tatuaggi sulle sue braccia spiccavano sulla pelle chiarissima. «Gah, sto impazzendo, qui dentro».

Lui trascinò la sedia vicino al letto e vi si lasciò cadere sopra. Non aveva importanza se il suo sedere gli mentiva o meno, a lui stava bene di credergli comunque. «Non immagineresti mai la giornata che ho avuto».

«Cavolfiore gratinato, di nuovo, per pranzo. Ma come si fa a farlo diventare beige? Non è fisicamente possibile».

«Dildo è stato accoltellato».

«Lo so. Ma se la caverà, quindi…». Si strinse nelle spalle. «Mi leggi un altro po’ di Witchfire

«Non posso». Logan appoggiò i piedi sul letto. «Ho un incontro con quelli degli Standard di Comportamento Professionale». Controllò l’orologio. «Circa… ooh, un’ora fa».

Silenzio. Poi Samantha incrociò le braccia sul petto. Non era mai un buon segno. «Dobbiamo parlare».

Ecco, appunto. «Non potremmo semplicemente…».

«È ora che ti muovi e fai risistemare l’appartamento. Hanno finito il tetto due anni fa. Sei fortunato che l’architetto voglia ancora rivolgerti la parola».

«Non ho avuto tempo e…».

«Non resterò qui dentro per sempre. E sarebbe carino avere una casa in cui vivere. Non fraintendermi, adoro la mia roulotte, ma… è troppo vicino alla strada, e quella rotatoria è così trafficata. Avremo bisogno di un posto più sicuro per Cthulhu».

Fantastico: prima Jackie, poi Samantha. Non era incastrato come un insetto nell’ambra. «Non è…».

«Logan, sono passati due anni: è ora di muoversi».

Lui scivolò più in basso sulla sedia. «Okay, okay, vedrò cosa posso fare… dannazione».

La suoneria della Steel si fece sentire dalle profondità della sua giacca. Non era difficile immaginare cosa volesse. Tirò fuori il cellulare, perse la presa e lo vide rotolare sul pavimento, finendo sotto al letto. La suoneria di Darth Fener salì di volume.

«Santo Dio!». Logan si alzò e controllò sotto al letto. Dannato aggeggio… Si inginocchiò e tese una mano per prenderlo. Il pavimento era freddo, l’odore di ammoniaca e disinfettante al pino abbastanza forte da fargli sbattere le palpebre. «Avanti, piccolo bastardo…».

La testa di Samantha comparve dall’altra parte del letto, capovolta, con i lunghi capelli scarlatti dritti come se avesse preso la scossa. «Che vuole Mrs Rughe?».

Lui ricambiò lo sguardo. «Ha attaccato. Probabilmente vuole urlarmi contro perché non sono andato a sentire le lagne di Napier e del resto degli Standard di Comportamento Professionale…». Poi si bloccò, lo sguardo fisso.

«Che c’è?». Una mano passò su una guancia della ragazza. «Ho qualcosa in faccia?».

Lì, appesa alla rete metallica sotto al letto, c’era un nodo di tre ossicini, tenuti insieme da un nastro scarlatto. Della stessa tonalità dei capelli di Samantha.

La firma di Agnes Garfield.

Era stata lì, nella stanza della sua compagna.

«Bastardi…». Si alzò in piedi.

Samantha aggrottò la fronte, guardandolo. «Che succede?»

«Inutili dannatissimi idioti bastardi…». Aprì la porta di scatto e sporse la testa nel corridoio. «venite subito qui!».

Poi tornò dentro.

Samantha era distesa a pancia in giù sul letto e si sporgeva dal bordo per guardarci sotto. «Che c’è? Che sta succedendo?»

«Dovrebbero tenerti al sicuro!».

Dei passi risuonarono nel corridoio, poi un enorme infermiere oltrepassò pesantemente la porta. Aveva braccia come tronchi d’albero, un pizzetto da gemello malvagio e piccoli occhiali rotondi. «Che è successo? Va tutto bene?».

Logan gli puntò un dito contro. «Voi dovreste tenerla d’occhio! A che cazzo di gioco pensate di giocare?»

«Prego?». La fronte dell’infermiere si aggrottò, mentre piegava e distendeva le dita davanti al petto, come se stesse giocando a qualche console portatile. «Okay, le devo chiedere di calmarsi, o sarò costretto a chiamare la sicurezza».

«e la chiami! Se facessero il loro fottuto lavoro, tutto questo non succederebbe. Questo dovrebbe essere un reparto sicuro!».

«E infatti lo è».

«Ah, davvero?». Logan lo prese per il colletto e lo trascinò verso il letto. «Ci guardi sotto. Forza, ci guardi!».

«Okay, okay… santo cielo…». L’uomo piegò un ginocchio. «Cosa dovrei cercare?»

«Le ossa, idiota!».

L’infermiere allungò un braccio sotto il letto, armeggiò con qualcosa e poi si alzò. Il talismano di Agnes Garfield era nel palmo della sua mano. «Cosa dovrebbe essere questo, una specie di scherzo?»

«Uno scherzo?». Logan gli strappò gli ossicini di mano e li fece ondeggiare dal nastro. «Da dove vengono?»

«Le uniche persone che sono state qui dentro da quando ho iniziato il mio turno sono state le infermiere, il consulente e il tecnico della stampante. E hanno tutti un badge di sicurezza». Incrociò le braccia enormi sul petto e alzò il mento. «Quindi credo che lei mi debba delle scuse».

Logan tornò a puntargli un indice contro. «E il personale della cucina? Quelli che portano il pranzo? Oppure sono in grado di teletrasportare magicamente il cavolfiore gratinato dalla mensa?».

L’infermiere arretrò di un passo. Una smorfia gli deformò i lineamenti, mentre allungava una mano verso il pulsante di chiamata. «Cavolfiore gratinato…?». Guardò a sinistra, e poi a destra. «Perché mai dovrebbero portare del cibo qui dentro? Insomma… è il reparto della gente in coma. Sono tutti attaccati a flebo e tubi».

Logan sbatté le palpebre. Poi si girò a fissare nuovamente il letto.

Samantha era distesa sulla schiena, con le braccia sopra le lenzuola. Il tubo dell’ossigeno fissato al buco sulla sua gola sibilava lentamente, e i tubicini dell’alimentazione le sparivano nel naso. Entrambi gli occhi chiusi. I capelli di un rosso sbiadito, con quarantacinque centimetri di ricrescita. La pelle del colore dello yogurt, con i tatuaggi evidenti come graffiti sulle pareti di una chiesa.

Si schiarì la voce.

«Sì… è…».

«Si sente bene?»

«No. Naturalmente no». Logan si passò una mano sugli occhi. Samantha era perfettamente immobile, nella posizione in cui era rimasta negli ultimi due anni. «Senta… quand’è stata l’ultima volta che hanno pulito la stanza? Agnes Garfield deve essere stata qui subito dopo. Possiamo controllare le registrazioni della telecamera di sicurezza».

L’infermiere scosse la testa.

«Cosa?»

«Il personale delle pulizie lava i pavimenti, svuota i cestini, spolvera le superfici, cose del genere. Non si preoccupa dei meccanismi idraulici sotto ai letti, a meno che non stiano facendo delle pulizie molto approfondite o… sa, se si sporcano per altri motivi». Si strinse nelle spalle. «Quelle ossa potrebbero essere lì da settimane».

Tre ossicini delle dita di una strega, appesi sotto al letto di Samantha. Con tutta la loro magia nera. Pronti a impedirgli di trovare Agnes Garfield.

Molto bene.

Logan prese un profondo respiro. Fissò il pavimento. «Senta, mi dispiace. Non volevo…».

«Sì, be’…». L’infermiere annuì. «Lo capisco. Se fosse la mia ragazza… se fosse bloccata qui dentro in coma da due anni… probabilmente non ci starei così tanto con la testa neanche io».