capitolo 26
Una coppia di grasse gazze zampettò sull’erba, con il petto bianco come un panciotto, come se fossero eleganti avvocati intenti a discutere qualche oscuro cavillo in un processo per omicidio.
La tazza di porcellana tremava nella mano di Wee Hamish, con il tè che vi ondeggiava all’interno. «Le vere preoccupazioni cominceranno quando io me ne sarò andato».
Logan si appoggiò contro lo schienale della sedia pieghevole di legno. «Non è ancora…».
«Oh, non temere: mi hanno dato sei mesi di vita tre anni fa. Non me ne andrò certo senza combattere».
Logan prese dalla tasca le due buste e le posò sul piccolo tavolo rotondo. «Dobbiamo parlare di queste».
«A proposito, ho fatto qualche ricerca per la tua vittima incravattata. Abbiamo avuto un paio di… riunioni in merito, ieri notte. Ma nessuno ha ammesso nulla».
«Non lo farebbero comunque, no?».
Wee Hamish sorrise. «Logan, quando si fa qualcosa di così eclatante, praticamente è un gesto per dire: “Ehi, guardatemi, guardate cosa succede alla gente che mi pesta i piedi!”. Quindi lo si deve rivendicare, o non servirà affatto come avvertimento».
«Non è legato al mondo della droga, quindi». Non lo era mai stato.
«Naturalmente, non avrei mai dovuto abbandonare il controllo di quella parte delle mie attività. Lasciare che se ne occupasse Reuben è stata una debolezza, da parte mia. Un buon capitano conosce ogni centimetro della sua nave».
Logan finì il suo tè. «Devi dire a Reuben di farsi da parte».
«Una cosa che ho scoperto stamattina è che abbiamo una guerra della droga in corso. Niente di grosso, anzi: una scaramuccia tra alcuni dei nostri imprenditori e un gruppo di affaristi venuti dall’Estremo Oriente».
«Se minaccerà me o i miei, me ne occuperò personalmente».
«Sì». Wee Hamish si mordicchiò per un attimo il labbro inferiore, con gli occhi sollevati verso il soffitto della serra. «Ho pensato anche a questo. Quando scoprirà che ti ho reso esecutore del testamento, potrebbe diventare un po’… chiassoso».
«Sto parlando sul serio».
«È un’anima semplice, Logan, non è adatto a comandare la nave. Non saprebbe mai tracciare una rotta in mezzo agli iceberg, si limiterebbe a puntarli e ad andarci contro a tutta velocità». Wee Hamish portò lo sguardo verso il giardino. «La cosa sensata da fare sarebbe tagliare la cima della sua scialuppa di salvataggio… ma ho un cuore troppo tenero per farlo, è questo il mio problema».
Un cuore tenero? Sì, certo.
Il vecchio annuì. «Penso che il modo più sensato di gestire la faccenda, sia quello di occupartene appena saputa la notizia, e prima che lui possa fare una mossa contro di te».
«Io non voglio…». Un sospiro. «Non posso essere l’esecutore del tuo testamento. Cosa dovrei fare, dividere il tuo impero tra le fazioni rivali, aspettare e sperare che non si ammazzino a vicenda, insieme a tutti quelli che incontreranno sulla loro strada? Sono un ufficiale di polizia».
«L’alternativa è che Aberdeen finisca a tutta velocità contro l’iceberg».
«Non posso farlo».
Wee Hamish gli sorrise. «Considera la scaramuccia tra i ragazzi locali e i nostri amici orientali: si stanno facendo la guerra per delle piantagioni di cannabis. Una piccola cosa, ma potrebbe sfuggire di mano, senza qualcuno con del buonsenso al timone. La gente vorrà sempre la droga, Logan. E finché la gente ne vuole, ci sarà qualcuno che gliela fornirà. È la legge della domanda e dell’offerta. Essere al centro di questo commercio significa continuità, mancanza di conflitti e sicurezza e certezze per tutti».
«Quindi cosa dovrei fare, scambiare il mio distintivo con un martello?».
Il vecchio si sporse in avanti e posò una mano tremante su quella di Logan. La sua pelle era sottile e fragile; calda come se qualcosa dentro di lui, nel profondo, stesse bruciando.
«Dovresti fare quello che ritieni più giusto».
Come fuggire il più lontano possibile, per esempio.
Logan parcheggiò la malandata fiat accanto alla mx5 del commissario Steel, abbassando decisamente il tono del’intero parcheggio posteriore. Poi si piegò in avanti fino ad appoggiare la fronte contro il volante, e soffocò uno sbadiglio, tenendo ancora il cellulare contro l’orecchio. «Praticamente, mi ha detto che dovrei uccidere Reuben».
Samantha emise una sorta di risucchio, come un meccanico che sta per dare brutte notizie. «Forse ha ragione, che ne dici?»
«Ma non posso uccidere…».
«E se venisse a cercare me? Lo uccideresti, allora? Perché se non è così, sei nei guai, stronzo!».
«Sì, certo, ma non è…».
«E se volesse fare del male a Jasmine? O a tuo fratello? O a tua madre?… Be’, magari non per tua madre, ma per gli altri lo faresti?»
«Sono un ufficiale di polizia».
«Più che altro, sei un vigliacco. Ricordi quel discorso che abbiamo fatto sul farti crescere un bel paio di palle?».
Qualcuno bussò sul finestrino del passeggero, e Logan sussultò. Girò la testa, guardando dall’altro lato della macchina. Il commissario Steel sbirciò all’interno, dicendogli qualcosa in labiale e indicando l’orologio.
Lui tornò a parlare al telefono, con la voce ridotta a un sussurro. «Non voglio uccidere nessuno».
«Potresti non avere scelta». E a quel punto, Samantha chiuse la telefonata.
Logan ficcò il cellulare in tasca e uscì dalla macchina. «Che c’è?»
«Dove diavolo sei stato?»
«La dottoressa Graham vorrebbe ricostruire anche il volto dello scheletro».
«Sì, ci scommetto che vuole farlo. Ma io non sono fatta di banconote». La Steel tirò fuori un pacchetto di sigarette e il suo Zippo ammaccato. «I bastardi arrivano alle due. Ho bisogno di un sospetto, Laz».
Lui chiuse la macchina e scese un paio di gradini della scala che portava all’obitorio. «Che ne dice di Agnes Garfield, la sua adolescente scomparsa?».
La Steel lo seguì rumorosamente. «È solo una ragazzina».
«Ha diciotto anni, è ossessionata da Witchfire, psicotica e senza medicine».
Pacchetti di patatine vuoti, cicche di sigaretta e bottigliette di plastica erano ammassati in piccoli mucchi sulle scale. Logan li aggirò scendendo, per poi inserire il suo codice di identificazione sulla tastierina numerica. «Il cadavere di Kintore era sdraiato in mezzo a un pentacolo identico a quello che i cacciatori di streghe usano nel romanzo. Tutti quei tagli che ha addosso? Era Agnes che cercava su di lui il marchio del diavolo, e anche questo è nel libro. C’era un nastro con degli ossicini appesi accanto alla porta sul retro, come quelli appesi fuori da casa mia: e anche quelli sono nel libro. È ovvio che si tratta di lei».
All’interno, il ronzio delle ventole faceva tremare i pannelli del soffitto.
Logan fece capolino in sala staff, ma era vuota, così come l’ufficio del patologo. C’era la luce rossa accesa sopra le porte della sala operatoria: probabilmente stavano ancora lavorando all’autopsia di quel poveraccio che era stato processato per stregoneria sul pavimento della cucina di una casa abbandonata.
La Steel gli batté una pacca sulla spalla. «Sai cosa significa, vero? Se non avessi perso tempo e avessi fatto davvero qualcosa per trovarla, niente di tutto questo sarebbe accaduto! Sarebbe già rinchiusa in un ospedale psichiatrico, e quei poveracci sarebbero ancora vivi».
«Pensa che non lo sappia?». Logan spinse la porta della zona di osservazione, una piccola stanza con due sedie e una pesante tenda di velluto rosso su una parete. Tirò la corda dietro di essa per farla aprire.
La dottoressa Graham si trovava dall’altra parte del vetro, dove di solito venivano posizionati i cadaveri, china sul suo calco coperto di argilla, con la punta della lingua che sporgeva dall’angolo delle sue labbra. Alzò lo sguardo e sorrise. Poi girò la testa ricostruita e la sollevò verso di loro. La Steel la fissò strizzando gli occhi. Avanzò di un passo, fino a schiacciare il naso contro il vetro. «Non ti sembra familiare?».
«Chi diavolo sei?». La Steel sollevò la testa ricostruita, rigirandola da ogni lato mentre il bollitore fischiava.
La sala staff era fredda quel tanto che bastava per dare fastidio. Una fila di armadietti copriva gran parte di una delle pareti; erano tappezzati di adesivi e ritagli di giornale. Quello con il nome sheila dalrymple era pieno di adesivi di My Little Pony, unicorni e orsacchiotti in tutù. Un Post-it verde lime brillava in mezzo a quel collage da diabete, con la scritta, in grandi lettere nervose: piantatela di fregarmi i dolci!!! Un leggero odore di intestini e carne putrefatta penetrava nella stanza da sotto la porta che dalla sala staff conduceva alle “zone sporche”, le aree dell’obitorio non aperte al pubblico. Le stanze in cui i cadaveri venivano depositati, immagazzinati e sezionati.
Logan mise delle bustine di tè in alcune tazze. «Forse è uno degli insegnanti di Agnes Garfield? Oppure un amico di famiglia?».
La Steel guardò la ricostruzione della testa da una certa distanza, tendendo il braccio davanti a sé. Chiuse un occhio. «Somiglia un po’ a Burns della contabilità…». Poi la guardò con l’altro occhio. «Chi diavolo sei? Perché mi sembra di conoscerti?».
La dottoressa Graham prese il latte dal piccolo frigorifero della stanza. «E che mi dite dello scheletro, volete che lavori anche su quello? Se fossi autorizzata a procedere, penso che potrei fare un calco al volo del cranio entro l’ora di pranzo, e poi cominciare con la profondità dei tessuti per le cinque…».
«Non ha ancora dimostrato che questo possa servirci a qualcosa…». La Steel continuò a occhieggiare il volto ricostruito. «Manca qualcosa».
«Be’, questa non è una scienza esatta, anche l’interpretazione ha la sua parte. Non si può pretendere di premere un pulsante e via, ottenere una ricostruzione perfetta. Dobbiamo fare delle ipotesi. Per esempio, non c’è modo di sapere se il soggetto avesse la barba o i baffi, o dei tatuaggi, o magari una verruca, o…».
«La barba!». La Steel tornò a posare la ricostruzione sul tavolino, in mezzo alle copie di «Hello!» e «Heat». Una testa mozzata che incontrava la cellulite delle star. «Sì, gli metta la barba. Lunga e cespugliosa, e anche i baffi».
«Ehm… okay». La dottoressa uscì rapidamente dalla stanza.
La Steel tirò su con il naso. «Non sono ancora convinta che non si tratti soltanto di un mucchio di merda inutile».
Logan le piazzò davanti una tazza di tè. «Dobbiamo assolutamente trovare Agnes Garfield. Ho fatto mettere dei poster con la sua foto dappertutto, ma non servono a niente, ora che si è tinta i capelli e ha cambiato aspetto. Dobbiamo coinvolgere i media: i giornali e anche la tv; far vedere quel video della telecamera di sicurezza del bancomat».
«Eppure, non sono ancora convinta».
La porta si aprì, e la Graham tornò nella stanza con un mucchio di batuffoli di cotone. Si sedette su una delle sedie, urtando una pila di rotocalchi ammucchiati sul tavolo e facendoli finire sul pavimento. «Oops». Prese la testa e posizionò l’ovatta intorno alla mandibola, premendola contro l’argilla. «È il materiale che usano per riempire le teste dopo aver rimosso il cervello…». Armeggiò ancora un po’. Poi tagliuzzò l’ovatta con un paio di forbici, per renderla più realistica. Infine annuì e sollevò nuovamente la ricostruzione. Con quella pelle d’argilla rosso-bruna e la barba grigiastra e soffice, sembrava un Babbo Natale troppo abbronzato. «Che ne dice?».
Un lento sorriso fece la sua comparsa sul volto della Steel. «Che esperta…». Poi indicò. «Laz, guarda un po’ chi c’è».
Logan fissò il volto ricostruito. «Chi?»
«Santo cielo. Ma non leggi neanche uno degli appunti che ti mando?»
«Ma certo che…».
«È Roy Forman». Una pausa. «Muffa Forman? Il senzatetto di Hardgate? Avanti, devi averlo visto, ogni tanto, da quelle parti, con quel suo berretto sudicio dell’afc, a urlare “Stronzi!” ai gabbiani…». Sospirò. «Era nei Gordon Highlanders, prima che lo buttassero fuori perché aveva il disturbo post-traumatico da stress».
La dottoressa Graham chinò il capo verso il tavolino. «Lei lo conosceva…».
«L’ho arrestato… Dio solo sa quante volte. Il suo plotone finì su una bomba in Iraq… e be’, potete immaginare il seguito. È tornato a casa cieco da un occhio e con tutti i compagni morti. Si è infilato in una bottiglia e non ne è mai più uscito».
Logan aggrottò la fronte, fissando la testa. «E cosa ci faceva al Thainstone con una ruota in fiamme intorno al collo? Forse aveva fatto qualcosa ad Agnes? Magari l’ha infastidita, o cose del genere?».
La Steel si appoggiò allo schienale della sedia e sorrise. «Mi ricordo una volta in cui l’ho arrestato per aver pisciato sulla soglia di un negozio, completamente ubriaco. E non appena l’ho portato alla stazione, ci siamo ritrovati davanti Finnie che sbraitava per…». Si schiarì la gola. «Be’, diciamo per un piccolo malinteso, riguardo a tre lap dance e una bottiglia di tequila che erano finite nei rimborsi spese. Comunque, Finnie era nel bel mezzo della sua strigliata quando Muffa si è piegato in avanti e gli ha vomitato addosso. E intendo totalmente addosso». Il suo sorriso si tramutò in un ghigno divertito. «Ne aveva pezzi tra i capelli, su tutta la camicia… ovunque. A quel punto si è allontanato, puzzolente come una fogna, e Muffa mi ha guardato e ha ammiccato. E ha detto che l’aveva fatto apposta, perché Finnie stava facendo lo stronzo con la sua poliziotta preferita».
Se ne restò lì in silenzio, a fissare la testa, mentre il sogghigno svaniva dal suo volto. «Poveraccio».
«Nooo…». All’altro capo del telefono, Rennie sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Ha idea di che ore siano?»
«Le undici e un quarto».
«Stavo dormendo!».
«Ehi, sei tu quello che si è lamentato perché non gli era stato detto che avevamo risolto il caso della rapina in gioielleria».
«La rapina in…?». Uno sbadiglio. «Non mi interessa. Sonno. Ho bisogno di sonno…».
«Okay, bene, in tal caso torna pure a letto, e chiederò alla Chalmers di occuparsene».
Silenzio. «Alla Chalmers?»
«Abbiamo trovato uno dei tuoi senzatetto scomparsi: Roy Forman. Era la vittima incravattata».
Un tonfo, un rumore di cocci infranti, qualche imprecazione e poi: «Arrivo».
Logan attaccò. Ora che sapevano chi era la vittima, il caso sarebbe stato molto più facile da risolvere. Sarebbe bastato collegare Agnes Garfield a Roy Muffa Forman. Quanto poteva essere difficile? Fece dondolare la sedia avanti e indietro un paio di volte.
Poi si fermò.
C’era un foglio di carta nel suo contenitore delle pratiche da evadere, in cima all’analisi del budget della Steel ancora da completare. Era la fedina penale dell’ex ragazzo di Nichole Fyfe, Robbie Whyte. Guthrie doveva avergliela lasciata lì mentre lui era sulla scena del crimine a Kintore.
La raccolse e diede un’occhiata. Furto, aggressione, bla bla bla, furto di oggetti dalle auto e giri su auto rubate…
Un sorriso tese le labbra di Logan.
«Oh, che bravo ragazzo».
La stanza per visionare le registrazioni puzzava ancora di noodles in scatola, ma ora in più vi si aggiungeva anche l’odore inconfondibile di piedi sporchi.
Il dottor Goulding alitò sui suoi occhialetti rettangolari, li ripulì con un panno e poi tornò a inforcarli sul naso lungo e adunco. Si passò una mano tra i folti capelli neri in cima alla testa, tagliati corti come il pelo raso di un animale, brizzolati lungo le tempie. Un paio di scacchi rossi si trovavano al centro della sua cravatta verde bottiglia. Allungò una mano e premette il tasto di riproduzione sulla console video. «Questa è la parte interessante».
Logan spostò più vicina la sua sedia, mentre lo schermo crepitante mostrava l’interno della sala interrogatori due. Robbie Whyte si trovava sulla sedia dalla parte sbagliata del tavolo, quella inchiodata al pavimento, Goulding era di fronte a lui, e le gambe e la parte bassa del busto dell’agente Guthrie su un lato dell’inquadratura.
Whyte alzò nuovamente le spalle in quel suo modo contorto. «Non lo so. L’ho trovata».
Goulding, sullo schermo, annuì. «Ha trovato la testa di un cane». Non era una domanda, ma un’affermazione.
«Io lo so che lei mi ama ancora…».
«A volte, Robbie, è difficile accettare che i profondi sentimenti che proviamo non sono condivisi dagli altri».
«No: lei mi ama. Io so che è così». Si appoggiò allo schienale della sedia e alzò lo sguardo verso la telecamera. «Un’estate siamo stati in una roulotte a Lossiemouth. Era del padre di un nostro amico, e ci siamo stati per due settimane intere. Solo io, lei e il Piccolo Robbie. Abbiamo pescato, e poi fatto la brace sotto le stelle e fumato così tanta erba che una sera abbiamo visto uno spiritello acquatico…».
«Capisco. Avevate chiamato il cane “Piccolo Robbie”. Era stata una sua idea, oppure di Nichole?»
«Ci dovevamo sposare e avere dei figli. Un maschio e una femmina. Io ho sempre desiderato un figlio, sa? Un bambino uguale a suo padre».
Un pazzo che non si sarebbe fatto scrupoli a tagliare la testa al suo cane. Sì, quello era proprio un modello cui aspirare.
Goulding in carne e ossa premette il tasto di pausa. «Quindi, quando lei lo ha lasciato, non ha abbandonato soltanto lui, ma anche quel futuro figlio. È stato un doppio colpo, per Robbie. Poi, sua madre è morta, e questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non ce l’ha fatta più».
«Ha dato al cane lo stesso nome che avrebbe dato a suo figlio?»
«Mi ha chiesto se Robert Whyte sarebbe capace di commettere un omicidio…».
Silenzio.
Logan sfiorò la spalla di Goulding. «Ebbene?»
«Uccidendo il cane, che era il surrogato emotivo di un figlio mai nato e il suo potenziale futuro con la donna che ama, Robert ha metaforicamente ucciso se stesso e tutte le sue speranze degli ultimi otto o nove anni. È un uomo morto. E non si può fare del male a un morto».
«Potrebbe incravattare qualcuno? O torturarlo a morte?»
«La mia opinione è che Mr Whyte è un pericolo per se stesso e per gli altri. Farò in modo di farlo controllare da un agente della sezione psichiatrica, e lo sottoporremo a dei test per settantadue ore. Se tutto andrà come credo, richiederemo un trattamento obbligatorio secondo la Sezione Sette della legislazione scozzese sulla salute mentale – Cura e Trattamenti – del 2003».
Logan gli mollò una lieve gomitata. «Conosco una guardia di sicurezza privata che parla esattamente così».
Un sospiro. «A volte è necessario essere formali. La salute mentale di Robert è…».
«Li… ha… uccisi… lui?».
Goulding aggrottò la fronte e sbuffò, gonfiando le guance. «È molto più probabile che possa arrivare a uccidere la persona che ama, per poi suicidarsi».
«Secondo la banca dati nazionale della polizia», e qui Logan sollevò il foglio che Guthrie gli aveva lasciato sulla scrivania, «è stato arrestato per furto d’auto. E detenzione di sostanze illegali, oltre a tre denunce per aggressione, due per effrazione, e ora ha tagliato la testa a un cane che aveva chiamato come il figlio che voleva avere».
«Questo non…».
«Robbie lasciava i veicoli che rubava nel Cimitero delle Auto, dove abbiamo trovato il cadavere di Roy Forman. È ossessionato da Nichole Fyfe, e quell’omicidio è stato il suo modo per attirarne l’attenzione. E quando non ha funzionato, ha ucciso il cane». Logan si appoggiò contro lo schienale della sedia. Gioco, set e partita.
Goulding sospirò, aprì la sua cartellina e vi fece scivolare il taccuino all’interno. «Non si sarebbero mai dovuti mettere insieme. Robbie Whyte è bisognoso d’affetto, dipendente dalle relazioni. Nichole Fyfe… be’, lei è un’attrice». Chiuse di scatto la ventiquattrore e fece scorrere un dito sulla combinazione numerica. «E gli attori sono abituati a trattare le emozioni, perché le devono mostrare e manipolare, quando lavorano. Si nutrono dell’approvazione esterna, e si domandano perché la loro vita personale non sia strabiliante come dovrebbe essere. Ed è per questo che spesso diventano tossicodipendenti e alcolisti». Sospirò. «Non poteva funzionare, tra loro».
«Ha dei precedenti».
«Logan, ci pensi: l’evento che l’ha fatto crollare è stato la morte di sua madre. La donna è rimasta in ospedale per l’ultimo mese e mezzo per un cancro al pancreas. È morta ieri pomeriggio, ho chiamato un oncologo che conosco e ho controllato. A quanto pare, Robert è sempre rimasto al suo capezzale, per tutto il tempo».
«Ma avrebbe potuto…».
«Lei è morta. E il dolore ha causato a Robbie un crollo mentale. È uscito e si è andato a ubriacare. E a un certo punto, mentre scolava l’ennesima bottiglia, ha deciso che donare la testa del Piccolo Robbie a Nichole Fyfe sarebbe stata l’espressione perfetta del suo eterno amore. Se sua madre non fosse morta, sarebbe rimasto uno dei tanti, inquietanti ex fidanzati che finiscono per diventare degli stalker».
E addio sospetto.
Logan lanciò un’occhiata all’orologio: mancavano cinque minuti alla successiva riunione con la Steel per gli aggiornamenti sul caso. Avrebbe avuto giusto il tempo di ingoiare un ultimo caffè, prima di prendersi una strigliata per aver perso tempo inutilmente con quella pista. Si alzò in piedi. «Controllerò comunque il suo alibi».
«Certo, capisco». Goulding restò dov’era, sorridendogli con quei suoi occhi da pesce lesso. «A proposito, già che ci siamo, perché non facciamo due chiacchiere?»
«Ho… devo… c’è una riunione. Sa, gli aggiornamenti per il caso della vittima incravattata…».
«Come se la sta cavando con la terapia?».
Dannazione. Insisteva. «La sto seguendo, okay?»
«E la sta aiutando? Perché se così non fosse, può sempre…».
«Ho detto che la sto facendo».
Goulding annuì. «Bene». Si sistemò la giacca e raddrizzò la sua brutta cravatta. «Be’, ha il mio numero…».
Logan posò la tazza di caffè sulla scrivania. «So cosa ho detto, ma è un po’ più complicato di quanto sembrasse…».
«Nel nome dei capezzoli di Satana, Laz, mi avevi detto che era lui!».
L’ufficio della Steel era affollato: l’ispettore Bell stravaccato sulla sedia degli ospiti, come un orso parzialmente rasato e costretto a indossare camicia e cravatta; l’ispettore Leith appoggiato agli schedari, Logan accanto alla lavagna magnetica, Rischio Biologico Bob e il sergente Chalmers più indietro, nei pressi della porta.
Logan alzò le spalle. «Ho detto che poteva essere lui».
L’ispettore Bell si grattò una crosta sull’avambraccio peloso. «Tornando al mondo reale: dobbiamo fare un profilo della vittima. Controllare gli ultimi luoghi frequentati da Muffa Forman, interrogare i suoi compagni di bevute, scoprire se l’hanno visto litigare con qualcuno».
Leith sbuffò. «Cerca di essere realistico, Din-Don, la riunione comincerà alle due, non riusciremo mai ad avere qualcosa per quell’ora».
«Be’, allora sentiamo la tua idea geniale».
«Non sappiamo neanche se sia davvero Muffa Forman, vero? Solo perché una testa d’argilla gli somiglia un minimo…».
«Oh, avanti, è ovvio che è lui. Chi altro dovrebbe…».
«Stai sognando, Din-Don. Se fosse lui, l’avrebbero già beccato sul database quando hanno controllato il dna, ti pare?»
«Quel dannato laboratorio non è neanche riuscito a distinguere il dna della vittima da quello del ragazzo che l’ha pugnalata. Da quando c’è stata la riorganizzazione…».
«Dove è finita la deduzione per esclusione? Non fare l’idiota, non è…».
«Ehi!». L’ispettore Bell scattò in piedi, torreggiando su Leith, con i pugni serrati in grossi martelli pelosi. «Chi stai chiamando “idiota”, brutto testa di cazzo viscido e…».
La Steel si portò due dita alle labbra ed emise un fischio acuto, che riecheggiò violentemente nella stanza. «Basta! Rischio Biologico: subito ai laboratori e stagli addosso finché non ci danno un’altra analisi del dna. Con campioni nuovi, che non si ripeta quel casino totale che hanno combinato l’ultima volta».
Bob annuì. «Sì, capo».
«Poi, dobbiamo…». Sospirò. «Din-Don, siediti. Leith, chiedi scusa».
Leith si mordicchiò l’interno di una guancia, distolse lo sguardo e tirò su con il naso. «Mi dispiace, non era nulla di personale. Solo così per dire».
Bell non si mosse, per un attimo, poi si umettò le labbra e tornò a sprofondare nella sedia degli ospiti.
La Steel li fissò entrambi. «È come essere una cazzo di maestra della prima elementare…».
Bell tornò a grattarsi la crosta sul braccio. «Ha cominciato lui».
«Stavo dicendo: poi, dobbiamo mandare delle squadre a cercare ogni senzatetto, vagabondo, barbone, mendicante, accattone e miserabile in strada. Fate controllare i centri di accoglienza, gli ostelli, le cliniche e gli ospedali. Trovate tutti quelli che conoscevano Muffa e vediamo se riusciamo a tirare fuori qualche testimone».
Logan indicò i poster con la scritta avete visto questa donna? sulla scrivania della Steel. «E dovranno anche mostrare loro il volto di Agnes Garfield».
«Va bene, se può farti mettere l’anima in pace. Vedete se qualcuno ha notato in giro la pazza che si crede una cacciatrice di streghe. Leith, tu e Din-Don…».
«Ehi, occhio!». Rischio Biologico Bob avanzò di un passo, mentre la porta della stanza si apriva, urtandolo sulla schiena. Si voltò e la aprì del tutto. «Sei a caccia di un occhio nero?».
Rennie comparve sulla soglia, con addosso un bomber verde, un paio di jeans e una T-shirt con un tirannosauro rock’n’roll sul davanti. «Scusa».
La Steel fece un altro tiro dalla sua sigaretta elettronica. «Sergente, ma che gentile a prenderti una pausa dalla tua affollatissima agenda piena di eventi sociali per farci la grazia della tua presenza».
Rennie si strinse nelle spalle. «Sono arrivato appena ho sentito la notizia. E non dovrei essere qui fino alle dieci di stasera, okay? Stavo dormendo».
«Ti saresti almeno potuto dare una pettinata: sembri un cuscino esploso».
Il che era un tantino ipocrita, considerando i nidi di vespe che la Steel aveva in testa.
«Era il mio caso e…».
«Non preoccuparti. Avresti dovuto trovare quel poveraccio prima che lo ammazzassero. Ti avevo affidato il semplice incarico di ritrovare tre vagabondi, e ora due di loro sono cadaveri. Sei come il dannato angelo della morte».
«Non è giusto, io…».
«Pensi di poterci fare un favore e ritrovare il terzo ancora vivo?». Il commissario raccattò una manciata di moduli dalla sua scrivania e agitò una mano verso la porta aperta. «Avanti, tutti fuori di qui, e trovatemi qualcuno che abbia visto cosa è successo a Muffa Forman».
Tutti si avviarono all’uscita, Rennie per primo, con le spalle curve.
La voce della Steel stroncò sul nascere i borbottii. «Ispettore McRae, dove credi di andare? Con te non ho ancora finito».