capitolo 28

Rennie sbadigliò sonoramente, mostrando le otturazioni, e poi si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania di Logan. «Gaaah…».

Logan alzò lo sguardo dal mucchio di moduli di straordinari, spese e richieste di budget che era magicamente comparso nel suo contenitore delle pratiche da evadere. «Se sei qui per lamentarti, puoi tornartene subito da dove sei venuto».

«Sono stato in tutti i centri di accoglienza e ostelli della città, e nessuno ha visto Scotty Crosta neanche da lontano».

Logan controllò l’orologio: l’una e quarantacinque, il che significava che Henry Scott aveva un buon vantaggio.

«Strano: era seduto sui gradini di Gilcomston Church, quando ci ho parlato un’ora fa».

Rennie lo fissò, con un sorriso che gli si allargava sul volto. «L’ha trovato? Ottimo, è in cella? Perché…».

«Ho detto che ci ho parlato, non che l’ho arrestato».

Il sorriso svanì. «Ma l’ho cercato in lungo e in largo per ore! Come posso…».

«Avevo bisogno di informazioni su Roy Forman; gli ho dato la mia parola che non l’avrei arrestato per i furti nei negozi».

«Ma…».

«Se ti sbrighi, forse lo trovi ancora lì. Altrimenti…». Un’alzata di spalle.

Rennie si alzò rapidamente, allungandosi verso la porta proprio nel momento in cui si apriva di scatto. Si fermò di colpo, fissando la Chalmers. «Oh. Sei tu».

Lei alzò il mento. «Sergente Rennie».

Lui incrociò le braccia sul petto. «Sergente Chalmers».

“Che Dio ci aiuti”, pensò Logan. Prese una penna dalla scrivania e ci pungolò la schiena di Rennie, proprio in mezzo alle scapole. «Pensavo avessi fretta».

«Sì. Giusto. Molto bene». Rennie raddrizzò le spalle e uscì a lunghi passi dalla stanza, senza degnare la Chalmers di uno sguardo.

Lei increspò le labbra, sollevò un sopracciglio e richiuse la porta alle sue spalle.

Logan tornò ai moduli. «Dov’è la Steel?»

«È uscita a fumare una sigaretta prima della riunione».

L’ultimo desiderio del condannato.

Prese il modulo successivo dal mucchio. «Come andiamo?».

La Chalmers tirò fuori il taccuino. «Per quanto ne sappiamo, l’ultima volta che Roy Forman è stato da uno psichiatra risulta risalire almeno a due anni fa. È stato in cura per circa diciotto mesi, dopo essere rientrato dal Kuwait, ma questo è quanto».

E addio pista. «Non importa, dimmi del…».

«Ma…». Una pausa teatrale. «Sono riuscita a rintracciare il capo del reparto psichiatrico dell’Aberdeen Royal Infirmary, e mi ha detto che ci sono alcuni psicoterapeuti che offrono consulenza gratuita ai senzatetto e alle vittime di crimini violenti».

«E hai anche…?».

Lei recuperò un Post-it dal taccuino e lo posò sulla scrivania. «Ho pensato che avrebbe potuto chiedermelo».

Quattro nomi, uno dei quali immediatamente riconoscibile: David Goulding. Psicoterapia gratuita per i senzatetto. Fatta da lui. Poveretti. Sotto a ognuno dei nomi in lista c’era un numero telefonico, le cifre ordinatamente allineate.

La Chalmers girò qualche pagina del taccuino. «Secondo i genitori di Agnes Garfield, lei stava seguendo una terapia psichiatrica come parte di un programma sperimentale dell’Aberdeen University. Qualcosa che riguardava un’analisi comparativa tra i benefici del comportamento cognitivo e della terapia farmacologica». Un altro Post-it si affiancò al primo, quest’ultimo con un solo nome scritto al centro: Prof. Richard Marks. «Ho cercato di parlarci, ma ha messo subito in mezzo il segreto professionale. Possiamo procurarci un mandato?»

«Potremmo farlo», ribatté Logan, lasciando ricadere il modulo in cima agli altri e alzandosi, «oppure possiamo provare a prendere due piccioni con una fava».

«…e quando ho letto la sceneggiatura, me ne sono innamorata. Certo, adoravo quei romanzi da piccola, insomma, un po’ come tutti, no? Ho sempre saputo che ne sarebbe potuto venire fuori un gran film, ma non avevo mai sperato di poterne far parte!».

La malandata fiat Punto di Logan sobbalzava cigolando sul lastricato di College Bounds, oltre la facciata grigia e beige del King’s College, la cui grossa cupola in cima al campanile era avvolta da impalcature e tessuto come se fosse circondata da un’immensa ragnatela.

La Chalmers lanciò uno sguardo infastidito fuori da dietro al volante. «Sono tutti posti riservati…».

«Wow. Lo so». La voce del dj era più viscida dei maccheroni della Steel. «Bene, state ascoltando Jimmy’s Late Lunch, e sono qui con Nichole Fyfe. Sì, esatto, la ragazza di Aberdeen che è diventata una vera star di Hollywood: Nichole Fyfe! Fantastico, vero?».

Una risata che sembrava una carezza di seta. «Non sono affatto una star, Jimmy. Judi Dench è una star, Robbie Coltrane lo è, e anche Morgan Mitchell. Io sono soltanto una ragazza di Kincorth che spera che nessuno cominci a chiedersi che diavolo ci faccio accanto a tutti questi grandi nomi».

Logan indicò oltre il parabrezza. «Continua dritta. Dovrebbero essercene un paio liberi, più avanti».

«Allora, vuoi scegliere un’altra canzone per noi, Nichole?»

«Certo, Jimmy. Questa è una canzone che ha significato tanto per me, quando ero adolescente: si tratta di The Real Slim Shady di Eminem».

La Chalmers fece una smorfia e spense la radio. «Non sopporto il rap».

Un gruppo di studenti, vestiti come polli ninja, saltellarono in mezzo alla strada, fermandosi proprio al centro della carreggiata per esibirsi in qualche goffa mossa di kung-fu, prima di correre via attraversando un piccolo tratto di prato, lasciandosi alle spalle una scia di piume bianche.

Il cellulare di Logan si mise a squillare. La Marcia imperiale, soffocata dal tessuto della sua giacca. La Steel.

La Chalmers fece risalire alla vecchia macchina High Street, con una serie di edifici universitari coperti d’edera da un lato e costruzioni di granito poco appariscenti dall’altro. «Non risponde?».

Lui si agitò sul sedile. «Direi di no».

Infine, la musica tacque. Poi, due secondi più tardi, ricominciò.

«Sicuro, capo?»

«Assolutamente». Tirò fuori il telefono e disattivò la suoneria. Poi lo rimise in tasca. Se la Steel voleva urlargli contro per aver evitato la riunione della National Police Improvement Authority, avrebbe dovuto attendere.

La Chalmers aggrottò la fronte, fissando la strada. Gli spazi per parcheggiare erano tutti occupati da berline nuove di zecca o Smart. «Ma li guardi. Sa cosa avevo io, quando andavo all’università? Una bicicletta. E un idiota me l’ha rubata a metà del primo semestre».

Altri studenti, che indossavano lunghe giacche nere e piccoli occhiali da sole altrettanto neri, con gli zaini su una spalla, passarono muovendo la testa all’unisono. Matrix era invecchiato abbastanza da diventare ironico? O erano soltanto dei fissati con lo stile gotico che si facevano un giro?

Logan sorrise. Uno di loro aveva un frisbee.

Il cellulare vibrò nella sua tasca. La Steel non sembrava in grado di intuire un suggerimento, a quanto pareva. Proprio come Agnes Garfield.

Lanciò uno sguardo all’ultimo manifesto creato dall’ufficio stampa. Tre versioni diverse del viso di Agnes: la foto fornita dai genitori, quella della telecamera di sorveglianza del bancomat e una terza elaborata dal software degli identikit. L’avevano fatta bionda, tanto per non scartare alcuna possibilità. Una giovane donna di bell’aspetto, con le lentiggini e un sorriso accattivante. Bruna, rossa e bionda… qualcuno doveva pur riconoscerla.

Logan posò il manifesto sul cruscotto impolverato. «Che ne è stato del diario?».

Silenzio.

Per l’amor del cielo. Fissò la Chalmers. Lei continuò a guardare la strada.

«Sergente, ti ho detto di leggerlo due giorni fa. Perché non hai…».

La sua voce era secca e rauca: «Sono stata sveglia fino alle tre a leggerlo. E le ho anche scritto un rapporto!».

«Ah, sì?»

«Gliel’ho lasciato sulla scrivania, è stata la prima cosa che ho fatto questa mattina».

«Ah…». E probabilmente era ancora lì, sepolto sotto quattro tonnellate di scartoffie.

«Non lo ha neanche guardato, vero?». Le sue labbra erano ridotte a una linea severa e sottile.

«Non sapevo neanche che fosse lì: la Steel usa il mio contenitore delle pratiche da evadere come bidone della spazzatura per tutto quello che non ha voglia di fare». Accennò a una piccola e lucente Alfa Romeo rossa che si allontanava dal marciapiede. «Ecco il parcheggio».

La Chalmers fece scivolare la Punto rognosa di Logan nello spazio appena lasciato libero. Poi lanciò un’occhiata fuori dal finestrino, evitando di guardarlo in faccia. «L’avrei fatto prima, ma c’erano troppe altre cose da fare».

Logan sganciò la cintura di sicurezza. «Conosco bene la sensazione. Ma la prossima volta fammi un favore e consegnami qualunque cosa di persona. Direttamente nelle mie mani».

Lei annuì, continuando a guardare altrove. «Sì, capo».

«Nel cid di Grampian bisogna lasciare qualcosa sulla scrivania di qualcuno soltanto se si sta evitando quel collega, o gli si vuole rifilare una pratica spiacevole senza che lo sappia. Pensa al gioco “passa regalo”, ma con una granata alla merda come premio finale».

Uscì dalla macchina, nella luce del pomeriggio, il telefono che continuava a ronzargli silenzioso in tasca, vibrandogli contro le costole come una vespa infuriata. «Andiamo: mi farai un sunto strada facendo».

Il cielo, di un grigio uniforme, aveva lo stesso colore degli edifici di granito, mentre il vento faceva rotolare nell’erba un pacchetto vuoto di patatine. La temperatura stava decisamente scendendo. Logan seguì il sentiero dietro uno degli storici edifici dell’università, il Vecchio Birrificio, prendendo una scorciatoia che passava sotto al blocco da Tetris di cemento del Taylor Building.

La Chalmers si ficcò le mani in tasca. «La prima parte del libro non è un diario. È una specie di versione copiata dei…».

«Dei libri delle accuse delle Dita. È un oggetto di scena del film, Agnes l’ha rubato».

«Oh… lo sapeva». La Chalmers incurvò leggermente le spalle, ma poi rialzò il mento. «La seconda parte non presenta la sua grafia: è diversa da quella del racconto slash che abbiamo trovato. È stata sempre lei a scrivere, ma è come se avesse tentato di copiare la grafia di chi ha scritto la prima parte».

Oltrepassarono un parcheggio incastrato tra gli edifici e la griglia gialla di un’area di incrocio, in parte cancellata e piena di buche.

«Ci sono moltissime poesie sul male di vivere, e poi qualche pezzo in cui afferma che nessuno la capisce, e che odia come le medicine la fanno sentire, e poi parecchi che parlano del fatto che ama Anthony Chung più dell’aria… bla, bla, bla. Le solite storie da adolescenti».

«Ha diciotto anni».

«Non c’è nulla, comunque, nel diario, che faccia riferimento a possibili fughe, o a luoghi dove rifugiarsi in tal caso».

Oltrepassarono anche Coopers Court, riscaldandosi per un attimo sotto un raggio di sole, mentre la massa di cemento dell’edificio li schermava dal vento.

«E la misteriosa Stacey…?»

«Gourdon, capo. Stacey Gourdon. Nessuna traccia di lei».

Non era un buon segno: se Agnes era capace di incravattare un barbone sconosciuto, difficilmente avrebbe cucinato dei biscotti per la donna che si portava a letto il suo ragazzo. E non sarebbe stata colpa di Anthony, giusto? No, ovviamente soltanto di Stacey Gourdon.

Sarebbero stati già fortunati a trovarla tutta intera, se era ancora viva.

«Senti gli ospedali. Prova a scoprire se Ms Gourdon è ricoverata in qualche pronto soccorso». Logan si fece di lato, permettendo a una ragazza su uno skateboard di passare. I capelli biondi le arrivavano al fondoschiena, e indossava un paio di larghi jeans strappati, a vita così bassa da mostrare le mutande rosse e un tatuaggio che recitava tesorino di papà. «Se avessi diciotto anni e decidessi di scappare di casa, tu cosa porteresti con te?».

La Chalmers aggrottò le sopracciglia. «Un beauty case, i miei trucchi, l’asciugacapelli, il mio Mr Trousermonkey, i miei vestiti preferiti…».

«E il diario?»

«Certo, non lo lascerei mai a casa. Mia madre era come l’Inquisizione spagnola in una giornata negativa: non le sfuggiva nulla».

«Esatto. E sappiamo che la madre di Agnes… un momento, “Mr Trousermonkey”, hai detto?»

«Mia madre l’aveva fatto con un paio di vecchi pantaloni di mio padre, quando ero piccola. È fatto di tessuto a scacchi».

Più avanti lungo la strada, i polli ninja stavano saltellando fuori dalla facoltà di psicologia, mettendosi in posa e sfoggiando mosse di arti marziali per chiunque fosse così idiota da prestare loro un minimo di attenzione.

Logan li ignorò, puntando invece verso le porte a vetri. «Okay, lasciamo perdere per un attimo il pessimo gusto di tuo padre: non avresti mai lasciato a casa il diario. E che mi dici di una grossa busta di erba?»

«Non ne ho mai fumata, capo. Non mi drogo».

«La Guinness non conta, allora?». Le tenne la porta aperta. Il vetro era quasi completamente coperto da manifesti di versioni americane delle commedie di Gilbert e Sullivan, da annunci di una band alla ricerca di un batterista, e da locandine dei film in programma per la stagione horror del cineclub.

«Forse Agnes non aveva pianificato di scappare? È stato un impulso improvviso?».

Era possibile… «E allora perché non è tornata a prendere le cose importanti?».

Salirono le scale, diretti al primo piano.

«Forse non poteva? Forse Anthony Chung non glielo ha permesso?».

Forse…

La segretaria chiuse la telefonata, poi li guardò con gli occhi acquosi, mentre un sorrisetto nervoso le sollevava gli angoli delle labbra. «Il dottor Goulding vi riceverà subito».

Logan entrò per primo in un ufficio con tre pareti coperte di libri, e la quarta occupata da quattro grandi lavagne magnetiche coperte di una fitta grafia incomprensibile. I mobili erano un minimalistico mix di metallo cromato, vetro e cuoio. Un tavolino era stato posizionato al centro della stanza, ed era coperto di pubblicazioni: «Psychology Review», «Behavioural and Cognitive Psychotherapy», «European Journal of Behavior Analysis», e «International Journal of Neuropsychopharmacology».

Il proprietario dell’ufficio era sdraiato in quella che sembrava una poltrona reclinabile voluminosa e nera, fornita di due braccioli cromati, con una copia di «Magic Magazine» appoggiata sul viso. Non portava scarpe, soltanto un paio di calzini neri a scacchi rosso fuoco. Russava leggermente, con la pancia prominente che saliva e scendeva a ritmo con il respiro.

Logan attese che anche la Chalmers fosse entrata, poi chiuse di botto la porta, abbastanza forte da far tremare i diplomi incorniciati. «Dave!».

Il dottor Goulding si tirò su a sedere di scatto, con la rivista che gli cadeva sulle ginocchia. «Sono sveglio, sono sveglio…». Sbatté le palpebre un paio di volte, poi allungò una mano verso gli occhiali appoggiati sul tavolino e li inforcò. «Logan, perché non mi ha…». Aggrottò la fronte. «La segretaria ti ha fatto aspettare?»

«Per dieci minuti. Ci ha detto che era in videoconferenza con Johannesburg».

«Quella donna è un incubo. Solo perché le ho detto che non poteva prendersi un giorno di vacanza per andare a giocare a golf». Si alzò in piedi, spazzolando via le briciole dalla sua camicia a righe. «Scusatemi per la maleducazione». Prese un paio di mocassini bicolori e se li infilò. «Sedetevi, prego».

Logan si sistemò in una sedia di cuoio nero con la seduta a rettangoli intrecciati, poi accennò alla Chalmers. «Dave, lei è il sergente Chalmers».

Lo psicologo le tese la mano. «ChalmersDaveGoulding». Pronunciò tutto di corsa, come se fosse una sola parola. «La prego, si sieda, si sieda. Vuole un tè, o un caffè? Avevamo dei biscotti con l’uvetta, ma…». Lanciò uno sguardo alle briciole sulla chaise longue. «Qualcuno li ha finiti».

Logan recuperò il Post-it della Chalmers e lo posò al centro della scrivania di vetro.

Dave tirò su con il naso. Poi lo prese. «Una lista di psicoterapeuti? Logan, si sta affidando a qualcun altro?». Aggrottò la fronte. «Devo ammettere che la cosa mi ferisce un po’. Pensavo che la terapia avesse funzionato, e che era per questo che non ci eravamo più sentiti. Avresti potuto dirmi qualcosa in merito, quando la stavo aiutando, stamattina…».

«Voi quattro avete seguito dei senzatetto. Gratuitamente».

La maledetta Chalmers lo stava fissando con un sopracciglio sollevato, come se avesse appena sentito che aveva la coda.

Lo psicologo aggrottò la fronte. «Be’… sì. Cerchiamo semplicemente di fare la nostra parte. Queste persone sono molto vulnerabili, e le terapie convenzionali…».

«Sa se qualcuno di voi ha avuto a che fare con un certo Roy Forman?».

Dave piegò la testa di lato. «Poteva farmi un colpo di telefono: non doveva per forza venire fin qui per questo. Non che non sia contento di vederla, ma…».

«Ho bisogno anche di un favore».

«Ah, ecco». Unì le punte delle dita. «E si è rivolto a qualcun altro?»

«Dave, è importante…».

«Intendiamoci, non sto dicendo che la aiuterò solo se mi piacerà la sua risposta. Mi interessa semplicemente l’argomento».

Fantastico. Discutere se si stesse facendo seguire o meno da un altro psicoterapeuta, mentre la Chalmers se ne stava lì a fissarlo. Non voleva assolutamente che quella storia finisse in pasto alla stazione di polizia nel giro di poche ore. «No».

«Hmm… d’accordo, cosa posso fare per lei?»

«Il professor Richard Marks. Aveva in cura una giovane donna di nome Agnes Garfield, nell’ambito di un programma sperimentale?».

La Chalmers aprì il suo taccuino. «Un’analisi comparativa tra i benefici del comportamento cognitivo e della terapia farmacologica».

Un lieve sorriso sollevò gli angoli delle labbra di Dave. «È sospettato di qualche reato? La prego, mi dica che quel vecchio idiota grasso e pelato è nei guai. Molesta le pecore? Scommetto di sì, mi sembra proprio il tipo, no?»

«Pensiamo che Agnes Garfield possa aver ucciso Roy Forman. Il professor Marks, tuttavia, si appella al segreto professionale».

Dave sbatté le palpebre. Poi i suoi occhi si strinsero fin quasi a chiudersi del tutto e lui si afflosciò nella grande sedia di cuoio. «Roy è morto

«Abbiamo identificato il suo cadavere un paio di ore fa, grazie a una ricostruzione facciale. È la vittima incravattata ritrovata nel Cimitero delle Auto».

«Non riesco a credere che sia morto. Avevamo fatto tanti progressi…».

«Dave, dobbiamo trovarla prima che possa fare del male a qualcun altro. Mi serve che parli con il professor Marks. Si tratta di un’indagine per omicidio, posso procurarmi un mandato, se necessario, ma se collabora renderà le cose molto più semplici a tutti».

Dave inspirò profondamente. Poi annuì e si alzò, sistemandosi i polsini della camicia a righe e puntando verso la porta. «Mettetevi comodi. Vi farò portare una tazza di tè da Miss Broncio».

Un lieve tonfo del battente, e si ritrovarono soli.

La Chalmers si sistemò sulla chaise longue, per poi appoggiarsi con le spalle allo schienale reclinato, tirando su i piedi. «E così… psicoterapia, eh?»

«Sono stato accoltellato, mi hanno sparato addosso, sono saltato in aria e sono stato costretto a mangiare carne umana». Logan sollevò la mano sinistra e le mostrò le due sottili cicatrici che aveva sul palmo. «Un tizio mi ha inchiodato la mano a un pavimento con una sparachiodi, e poi ha tentato di fare lo stesso con la mia testa. Un altro ha dato fuoco al mio appartamento, con me all’interno. La mia fidanzata è ancora in ospedale per colpa di quella storia…». Andò alla finestra, guardando fuori verso il prato punteggiato di alberi. I ragazzi dark di High Street avevano ammucchiato i lunghi spolverini neri in un angolo, per poter correre dietro al frisbee, ridendo e strillando come bambini. «Quindi, sì: mi hanno spedito da uno psicoterapeuta. L’alternativa era farsi sbattere fuori dalla polizia».

«Oh…». Lei si schiarì la gola. «Mi dispiace, capo. Io non… mi dispiace».

Silenzio.

Già. Dispiaceva sempre a tutti.

«Chiama la Centrale: voglio che qualcuno tenga sotto controllo la casa di Agnes Garfield. A ogni ora del giorno e della notte. Se vuole riavere i suoi oggetti preferiti, dovrà tornare a casa per prenderli. Fai cercare la macchina di Anthony Chung. E mettiti in contatto anche con l’ufficio del procuratore generale: voglio un mandato per controllare i fascicoli del professor Marks, faxato a questo ufficio entro un’ora».

«Pensavo che avesse detto di poter prendere due piccioni con una fava…».

«Meglio andare sul sicuro. Sai come sono questi accademici, un mucchio di stronzi presuntuosi che non…».

Si sentì uno schianto nel corridoio, e poi l’eco di voci alterate filtrò nella stanza.

«Bastardo senza professionalità!». L’accento era di Liverpool, quindi quello doveva essere Goulding.

«Lasciami! Aiuto! Qualcuno chiami la polizia!». E questo non era Goulding.

«Oh, merda…». La Chalmers si alzò di scatto dalla chaise longue e corse alla porta.

Logan la seguì, irrompendo nella sala d’attesa.

La segretaria era in piedi accanto alla porta che dava sul corridoio, con una mano premuta sulle labbra e gli occhi che scintillavano, mentre spostava il peso da un piede all’altro. Borbottava tra sé e sé, con la voce appena udibile al di sopra delle urla e dei rumori della baruffa lì fuori. «Avanti, colpiscilo, ancora, dritto nelle palle…».

«Agh! No, i morsi no!».

Logan sporse la testa fuori dall’ufficio. Il dottor Dave Goulding teneva un braccio stretto intorno al collo di un uomo basso e calvo, e lo stava trascinando lungo il corridoio, verso di loro, mentre quello si dibatteva e imprecava.