capitolo 6

Le sirene della volante aprirono un passaggio nel traffico congestionato del pomeriggio. La Chalmers fece svicolare la macchina intorno a un grosso camion carico di sacchi di ghiaia. «Non penso di essere mai stata così in imbarazzo in tutta la vita».

Logan si premette il cellulare contro il petto. «Rallenta! Ho detto che volevo andare all’ospedale, ma non per finire al pronto soccorso!». Dopo tornò al telefono. «Che vuol dire che non è lì?».

Ci fu una pausa. Poi il pesante accento di Aberdeen del sergente Big Gary McCormack si fece sentire dall’altra parte della linea. «E cosa pensi che voglia dire? Intendo che non è lì. Ho mandato una volante tre volte da quelle parti, stamattina, e non c’è ancora traccia di lui».

«È alto un metro e ottanta e largo un metro e mezzo, e sembra che gli abbiano schiacciato la faccia su una graticola accesa, quindi come è possibile che non riusciate a trovarlo?»

«Ti stai cercando un altro pugno sul naso? Ho un’intera città da tenere al sicuro, qui, e avrei di meglio da fare durante il mio turno, che correre dietro al tuo culo ingrato!». Un rumore secco, e la chiamata si concluse. Quel bastardo gli aveva attaccato il telefono in faccia.

Logan tornò a infilare con rabbia il cellulare in tasca. «Tipico. Gli dai un solo compito semplicissimo e… Dannazione!». Afferrò la maniglia sopra allo sportello mentre la Chalmers lanciava la volante intorno alla rotonda, con le ruote che stridevano selvaggiamente.

La vide serrare le mani sul volante. «Faranno un reclamo, vero? Non voglio che una cosa del genere compaia sul mio ruolino: come faccio a ottenere una promozione, con un simile reclamo sul…».

«Lascia che si lamentino. Il laboratorio non ha confuso le impronte digitali, ma il dna. Non si tratta di quello della vittima: è quello dell’assassino. Quindi, appena arriveremo all’ospedale…?»

«Prenderemo l’assassino». La Chalmers fece scintillare i suoi dentini aguzzi. «Una settimana che sto qui e ho già risolto il caso di un’esecuzione stile gang».

Logan la fissò. «Ti rendi conto che sono qui, vero?».

Per lo meno, ebbe la decenza di arrossire. «Volevo dire, abbiamo risolto il caso di un’esecuzione stile gang. Lavoro di squadra… mi scusi, capo».

«Guida e basta».

Il rumore dei passi riecheggiava lungo le pareti color menta. Dipinti e fotografie artistiche erano appesi nel corridoio. Pazienti in vestaglia si facevano da parte, afferrandosi alle ringhiere laterali e guardandoli procedere a passo di carica.

Salirono le scale.

La Chalmers si affrettò avanti, mentre uno degli agenti di sicurezza in uniforme dell’Aberdeen Royal Infirmary la seguiva, vestito completamente di nero.

L’altro restò accanto a Logan, più indietro, entrambi a corto di fiato mentre salivano. «Ma non avremmo potuto… non si poteva prendere… il… maledetto ascensore?».

E lasciare che Miss Ambizione arrivasse per prima? No, grazie.

Arrivarono al piano di sopra.

La Chalmers stava osservando le indicazioni del reparto appese al soffitto. Si girò lentamente su se stessa, prima di stringersi nelle spalle e picchiettare sulla spalla dell’uomo in uniforme nera.

«Allora?»

«Deve essere il piano successivo».

Idiota.

Logan tornò alle scale, recuperando il cellulare mentre saliva i gradini e cercando il contatto della Steel nella rubrica. Lasciò squillare il telefono, e nel frattempo si ritrovarono in un altro corridoio verde pallido che puzzava di calzini bolliti e cavolfiore rancido.

Il commissario si decise finalmente a rispondere. «Oh, sei tu, eh? Dove diavolo sono i miei fascicoli? Ti ho detto che li volevo sulla mia scrivania entro l’ora di pranzo, non il prossimo fottuto…».

«Sappiamo chi ha ucciso l’uomo incravattato».

Una pausa. «Davvero?».

Uno degli agenti in uniforme controllò le indicazioni e si avviò verso sinistra. La Chalmers lo seguì in tutta fretta, mentre Logan e Mr Mangio Troppo chiudevano la fila.

«Guy Ferguson. Ha partecipato alla rapina della gioielleria. La vittima è probabilmente un altro della gang. L’assassino è ricoverato all’Aberdeen Royal Infirmary, al momento: stiamo per raggiungerlo».

«Per la miseria… solo un giorno e mezzo, e ho già risolto il caso. Continua a far sapere in giro che sono un genio».

«Lei ha risolto il caso?». Logan attraversò una serie di doppie porte, per ritrovarsi nell’ennesimo corridoio verde pallido. «È come la fottuta Chalmers».

«È sotto la mia intrepida guida che il caso è stato risolto. Non sto dicendo che tu non abbia fatto la tua piccola parte…».

«Mi toccherà qualche rimasuglio di merito, almeno?».

Poco più avanti, la Chalmers e l’altro agente di sicurezza si stavano facendo strada in un reparto.

«Laz, sei abbastanza grande e brutto da sapere come funzionano queste cose: il merito, come un bel palloncino colorato, sale sempre verso l’alto. Gli errori, invece, sono come la merda: cadono sempre verso il basso». Si sentì un fruscio, dall’altra parte della linea. «Ora fai il bravo e tieni d’occhio il mio bel palloncino, mentre vengo di corsa a prendermelo».

Sì, certo.

Logan allontanò il cellulare dall’orecchio ed emise un rauco e lungo sibilo. «…Non sento… segnale… pronto? Pronto?»

«Non ci provare, Logan McRae, o ti giuro che ti ficco uno stivale talmente su per il…».

«Non… Pronto?». Poi attaccò.

La suoneria di Darth Fener si fece sentire a tutto volume, mentre il nome steel lampeggiava sullo schermo del cellulare. Lui lo spense e se lo rimise in tasca. Se lo meritava, quella stronza. Fece un cenno di assenso all’agente grasso accanto a lui. «Okay, ora…».

La porta del reparto si aprì di scatto, e tre ragazzi ne uscirono di corsa, con le scarpe da ginnastica bianche che stridevano sulle piastrelle spaccate del pavimento. Non indossavano tute esattamente identiche, ma ci andavano vicino, tutti e tre con il cappuccio della felpa tirato sopra a un berretto da baseball. Uno di loro sbatté contro la parete, roteò su se stesso un paio di volte e poi scattò dritto verso Logan.

Le sue scarpe stridettero ancora, mentre si bloccava di colpo, con gli occhi spalancati che fissavano la grossa guardia in uniforme. «Merda!», strillò, prima di scattare di nuovo, schizzando nella direzione opposta e seguendo i suoi compagni.

L’agente grasso si mise a inseguirli, a passo pesante.

Logan spalancò le porte del reparto. L’altro agente era appoggiato alla parete, con una mano premuta contro l’inguine e il volto pallido inondato di sudore.

La Chalmers comparve dietro di lui, con il davanti del tailleur macchiato di marrone.

Logan puntò l’indice verso l’agente. «Tu: torna là dentro e arresta quello ricoverato». Poi fulminò la Chalmers. «Non startene lì impalata, inseguili!».

La scia di distruzione non era così difficile da seguire: carrelli rovesciati, vecchietti che agitavano il bastone e urlavano oscenità, vecchiette che urlavano oscenità ancora peggiori.

In lontananza, i battenti di una doppia porta sbatterono forte contro le pareti. Altre imprecazioni.

Il sergente Chalmers allargò i gomiti e abbassò la testa, scattando dietro di loro.

Logan si fermò, per poi voltarsi di scatto e tornare verso le scale, scendendo i gradini due o tre alla volta prima di arrivare di corsa al piano terra. Lì era ancora tutto tranquillo e silenzioso.

C’erano soltanto due modi per uscire dall’Aberdeen Royal Infirmary, da lì: tornare indietro verso l’uscita che dava sulla strada laterale di fronte all’auditorium, oppure andare avanti e oltrepassare il reparto di Medicina Nucleare. Sempre che non prendessero un’uscita d’emergenza…

Ma era troppo tardi per preoccuparsene, ormai.

Scattò lungo il corridoio deserto, oltrepassando letti e sedie a rotelle vuoti. E un porta pranzo abbandonato.

Un medico si schiacciò contro la parete, stringendosi al petto una grande busta marrone di quelle per le lastre, mentre Logan passava oltre di corsa.

Salì le scale in fondo, mentre il cuore gli martellava nelle orecchie. Poi oltrepassò le porte in cima e… donna incinta, donna incinta!

Le scarpe dell’ispettore stridettero sul mosaico di piastrelle e nastro isolante che componeva il pavimento, facendolo fermare a pochi centimetri da una sedia a rotelle su cui si trovava una povera donna rossa in viso e con i denti serrati, con una gamba ingessata fino all’anca. L’uomo che spingeva la sedia si girò mentre Logan riprendeva a correre, e i lucenti palloncini con la scritta congratulazioni! venivano agitati dallo spostamento d’aria, rimbalzando l’uno sull’altro.

«Guarda dove vai, idiota!».

E poi boom! La porta che dava sui reparti principali si spalancò di colpo e uno dei ragazzi in tuta e berretto da baseball ne sbucò fuori, ginocchia e braccia che mulinavano disperatamente mentre cercava di evitare un infermiere che spingeva un carrello pieno di vassoi e scodelle di metallo. Non ci riuscì. Il fuggitivo gli piombò direttamente addosso, ed entrambi finirono sul pavimento, in un violento agitarsi di arti, mentre il contenuto del carrello si spargeva sulle piastrelle rovinate con un riecheggiante frastuono metallico.

Poi il ragazzo scattò di nuovo in piedi e si gettò verso l’uscita.

Solo che Logan ci arrivò prima di lui.

Piombò sul tipo incappucciato, finendo entrambi contro le porte automatiche prima che potessero aprirsi. Atterrarono sul tappeto di gomma in un groviglio di braccia e gambe.

«Lasciami! Mollami!».

Le porte automatiche si aprirono con un sibilo.

«Polizia!». Logan lo afferrò per il cappuccio e lo strattonò con forza. «Fermo, pezzo di merda…».

«Aaaagh, mollami!»

Qualcosa colpì Logan al fianco. Poi il ragazzo abbassò la testa e gli tirò un altro pugno.

Dritto nell’ascella. Dannazione, faceva male.

Logan lasciò il cappuccio e lo afferrò per l’altro braccio, annaspando fino a trovare il polso, e piegandoglielo con violenza, forzando il palmo contro l’avambraccio e tenendolo bloccato così.

«aaaaaaaaagh! mollami!».

Un altro tonfo violento, e la porta tornò a spalancarsi: un altro fuggitivo incappucciato. Saltò oltre il carrello rovesciato, superandolo di una buona sessantina di centimetri, e continuò a correre come se avesse dei mastini infernali alle calcagna.

Il sergente Chalmers oltrepassò le porte, facendole sbattere di nuovo, e recuperando terreno su di lui. Aveva la bocca spalancata e quei piccoli denti aguzzi ferocemente snudati. «torna qui!».

Il primo incappucciato tirò un altro pugno. «Lasciami!».

Logan gli torse ulteriormente il polso… e qualcosa all’interno schioccò.

Un attimo di totale immobilità, poi il ragazzo esplose, urlando e scalciando forsennatamente.

Il suo compare si slanciò sopra di loro e uscì all’aperto. La Chalmers non fu altrettanto fortunata. Un calcio del giovane urlante la colse in pieno mentre saltava, facendola piombare a terra faccia avanti. Il secondo fuggitivo non si guardò alle spalle né rallentò minimamente. Continuò a correre a tutta velocità.

Il sergente restò immobile dov’era, mugolando rocamente.

«Mollami, mollami, mollami». Quel piccolo bastardo stava perdendo le energie, finalmente. La reiterata parola era inframmezzata da rauchi singhiozzi.

Logan prese le manette dalla tasca e ne chiuse un’estremità sul polso slogato del giovane. Ne ricavò un gemito acuto. Fece lo stesso con l’altro polso, bloccandogli le mani dietro la schiena.

Poi si rialzò faticosamente in piedi e si piegò ad aiutare la Chalmers a fare lo stesso. «Bel volo d’angelo».

Lei lo fissò torvamente. «L’avrei preso, se non mi avesse fatto lo sgambetto!». Aveva il mento sbucciato e sanguinante.

Logan tirò in piedi il ragazzo urlante. «Abbiamo un colpevole, qui».

La Chalmers si girò e sputò sul tappeto di gomma una boccata di sangue e saliva. «Mi sono morsa la lingua…».

Il sergente Chalmers entrò zoppicando, premendosi una borsa del ghiaccio sul mento. «Come ha fatto ad arrivare prima di noi, comunque?».

Il reparto era composto di stanze da quattro letti ciascuna. Dei pesanti schermi appesi a strutture flessibili se ne stavano sopra le testiere, promettendo un mondo di divertimenti ai pazienti disposti a pagare per attivarli.

Guy Ferguson era nel letto più vicino alla finestra, appoggiato a una montagna di cuscini e intento a sbattere lentamente le palpebre alla luce del sole che entrava nella stanza. Le sue braccia terminavano in quelle che sembravano scatole da scarpe coperte di garze. Degli scintillanti palloncini dai riflessi metallici con la scritta buona guarigione erano legati alla ringhiera ai piedi del letto, e brillavano nel sole, con le loro code di nastri che li facevano somigliare a meduse velenose. Grappoli d’uva, riviste maschili e bottiglie di limonata affollavano il pianale del comodino.

L’acne era sparita, dai tempi della foto segnaletica, lasciandogli le guance e la fronte butterate. Le sopracciglia erano ancora più folte, ma i baffetti radi non erano migliorati affatto.

Logan si appoggiò allo schienale della poltroncina e indicò alla Chalmers la sedia di plastica vuota dall’altra parte del letto. «Uno dei benefici del tanto tempo trascorso in ospedale: si finiscono per conoscere tutte le scorciatoie».

«Oh». Lei si lasciò cadere sulla sedia, fece una smorfia e si afflosciò leggermente. «Ho inviato una segnalazione per il nostro fuggitivo; gli altri due sono già diretti alla Centrale».

Delle manette bloccavano una caviglia di Guy alla ringhiera del letto, accanto ai palloncini. Come se anche lui potesse fluttuare via chissà dove. Il che, considerata la dose di morfina che sembrava essergli stata somministrata, poteva anche non essere così lontano dal vero.

«Dunque», esordì Logan, prendendo un acino d’uva, «vuoi uscirne pulito ed evitare a tutti un sacco di guai?»

«Guai?». Il giovane strizzò un occhio e poi l’altro, come se Logan gli risultasse sfocato. Aveva entrambi gli occhi gonfi e iniettati di sangue, con le pupille dilatate e umidi. Ridacchiò. «Guai…».

Sembrava strafatto, al momento.

«I tuoi amici, quelli con il cappuccio: chi sono?»

«Guai. Sono loro i guai… Mia madre non fa che ripeterlo…».

«E l’uomo che hai ucciso, anche lui portava guai? Ha cercato di fregarti quando avete diviso il bottino della gioielleria, vero? Cos’era, una talpa?»

«I dottori sono venuti a parlarmi…». Guy sollevò quelle specie di scatole che gli nascondevano le mani. «Mi amputeranno le dita… tutte… tutte quelle della sinistra e… e due della destra… le dita…».

La Chalmers infilò un dito tra le lenzuola. «Ecco cosa succede a incravattare qualcuno. Te lo meriti».

«Sono completamente bruciate… non possono salvarle». Un profondo respiro. Poi serrò con forza le palpebre e si morse il labbro inferiore. «Me le amputano oggi…». Le lacrime gli rigarono le guance, brillando alla luce del sole. Come se quella scena potesse far provare loro un minimo di pietà per quel piccolo bastardo assassino.

Si era ustionato le dita a tal punto da doverne amputare più della metà: forse Isobel aveva ragione? Forse Guy Ferguson era così stupido da cercare di strangolare un uomo avvolto dalle fiamme? «Sei stato tu, vero?»

«Io… non posso…».

«L’hai ucciso tu. L’hai incatenato a quel palo, gli hai incastrato una gomma sopra la testa e l’hai incendiata».

«Non è stato…».

«Venti minuti, ecco quanto ci vuole perché qualcuno muoia bruciato in quel modo. Venti minuti».

La bocca di Guy si spalancò, mentre il labbro inferiore tremava e le lacrime continuavano a scorrergli sulle guance. «Io… io non…».

«Guy Ferguson, sei in arresto per il presunto omicidio di un uomo non ancora identificato, avvenuto ieri pomeriggio. Hai il diritto di non rispondere…».

«Sono stato io…». Tirò su con il naso, per poi sbattere nuovamente le palpebre al rallentatore. «L’ho ucciso io…». Si asciugò gli occhi contro un avambraccio, lasciando tracce scure sulle bende candide. «Che altro potevo fare? Urlava e bruciava e non riuscivo a togliergli quella dannata gomma di dosso, e quella roba mi ha coperto le mani, e hanno preso fuoco, ed era orribile, faceva male e avevo… avevo un coltello». Prese un profondo, tremulo respiro. «Quindi l’ho colpito. Ancora e ancora, e sentivo le mani che bruciavano, e faceva così male… ma non potevo lasciarlo così!».

Ah… Logan si appoggiò allo schienale della poltrona. «Quindi non faceva parte del gruppo della rapina?»

«La sua faccia… avreste dovuto vedere la sua faccia… e urlava».

«Stava già bruciando, quando siete arrivati?».

Annuì. «Abbiamo… abbandonato la macchina, e ci siamo divisi gli orologi, gli anelli e le collane e tutto il resto, e… e lui era lì». Guy sollevò le scatole di garza che aveva al posto delle mani. «Mi taglieranno via le dita, perché ho cercato di aiutare qualcuno…».