capitolo 41
Il Ford Transit si allontanò rombando dal garage, cambiando marcia in una sinfonia di metallo stridente. Nell’abitacolo aleggiava un acre odore di grasso rancido e aglio, che copriva un sentore acuto e metallico e il profumo dolciastro della plastica nuova.
Logan si spostò sul sedile appiccicoso. «Come facevi a sapere dov’ero?»
«Non ti riguarda». Reuben alzò le spalle sotto alla tuta blu da meccanico. «E, tanto per la cronaca: io non taglio tubi freno. Quando verrò a prenderti, McRae, non mi vedrai scivolare sotto la tua macchina con un paio di tronchesi».
Probabilmente perché non ci sarebbe passato, grasso com’era.
«Quando verrai a prendermi?»
«Sai benissimo di cosa parlo. E mi vedrai arrivare».
Oh, che gioia.
«È per forza così che deve andare, vero?»
«Io, te e una sega elettrica».
«Sai cosa, Reuben? Puoi…». Logan si accigliò. Dal retro del furgone provenivano dei rumori. Una sorta di mugolio soffocato, a ritmo con il cigolio e le vibrazioni del vecchio Transit.
Si girò e lanciò un’occhiata verso il buio vano posteriore.
Le pareti e il pavimento erano coperti di fogli di plastica, tenuti fermi da spesse strisce di nastro adesivo. Una sagoma era raggomitolata nell’angolo più lontano, con la schiena contro gli sportelli posteriori del furgone, le ginocchia raccolte al petto, dei cavi legati intorno alle caviglie, le braccia dietro la schiena e una federa bianca sulla testa. Delle macchie scure si intravedevano sul tessuto.
«C’è qualcuno, sul retro del furgone».
Non ci fu risposta.
«Reuben: perché c’è una persona legata nel tuo furgone?».
Lui si strinse nelle spalle. «Tutti devono avere un hobby, no?».
Logan abbassò la voce a un sibilo basso. «Sono un agente di polizia, maledetto idiota… pensi davvero che…».
«Mr Fisher, là dietro, è stato molto, molto cattivo».
«Non me ne frega niente se ha mostrato le chiappe alla regina e se l’è scopata alla pecorina, non puoi…».
«Vedi, Mr Mowat dice che non posso ucciderti, né mutilarti, né tagliarti le palle e costringerti a ingoiarle. Però non ha detto niente sul fatto che potresti cadere e romperti qualcosa». Reuben gli mostrò il suo sorriso sfigurato, con gli occhi scuri e socchiusi. «Ora, vuoi chiudere quella cazzo di bocca, o devo accostare?»
«Sai cosa? Sono stufo marcio dei tuoi…». Il suo cellulare proruppe con la sinistra suoneria della Steel. Lo prese dalla tasca. «Dannazione, che c’è, adesso?»
«Dove diavolo sei finito, si può sapere? Dovresti già essere lì a farti fare il culo a strisce da quelli degli Standard di Comportamento Professionale, non in giro a…».
Come se non ci fossero cose più gravi di cui preoccuparsi. Nel dubbio: menti. «No, non dovrei».
«Sì che dovresti. Ho detto chiaramente a Rennie di dirtelo, e lui…».
«No, deve essergli passato di mente. Che lei ci creda o no, siamo stati un tantino occupati a cercare di arrestare un’assassina, oggi, quindi…».
«Non direi proprio, visto che tu sei il primo che se l’è fatta scappare. E ora riporta subito qui le chiappe, quelli degli Standard di Comportamento Professionale te le devono fare a strisce!».
«Non posso. Sono occupato».
«Laz, ti avverto…».
«Devo andare». Chiuse e spense il telefono.
La Steel avrebbe potuto urlargli contro più tardi. Sempre che fosse sopravvissuto a quello che stava per succedere.
Rowan torna nell’ombra della cucina mobile, il profumo delle salsicce e delle cipolle fritte denso e scuro nell’aria. La zona industriale si estende cupa ai confini di Dyce, un triste ammasso di capannoni di metallo ondulato dai nomi impronunciabili e dal logo sgraziato, circondati da recinzioni di rete metallica. Molti non sono neanche aperti: gusci vuoti con cartelli affittasi o vendesi inchiodati sui cancelli.
La scritta panini con salsiccia è dipinta a grandi lettere nere sul retro del furgone, anche se nessuno può vederla. È parcheggiato in uno spiazzo che alle spalle ha soltanto erba e alberi.
Lo Stregone attraversa la strada, con le mani affondate nelle tasche, un paio di cuffie voluminose in testa e le labbra arricciate a fischiettare. Fa rumore tanto per farlo, portandosi dietro un’aura frastagliata, rossa e arancione. Si ferma di fronte al cartello con il menu del furgone e si frega le mani, sorridendo. Poi spinge indietro le cuffie in modo da sistemarsele intorno al collo e si avvicina al bancone. Il suo accento è mezzo americano e mezzo scozzese, la pelle del colore dei giornali vecchi. «Posso avere un panino con bacon e uova, e una porzione di patate fritte?».
L’ultimo pasto di un condannato a morte dovrebbe essere qualcosa di più speciale di così, giusto?
Chiunque sia dietro al bancone del furgone non è in vista, ma la voce è femminile, e bassa e rauca come il brontolio di un tuono distante. «Ci vuoi insieme del tè, un succo di frutta o qualcos’altro?»
«Irn-Bru».
Avrebbe dovuto scegliere un filetto di manzo e una bottiglia di champagne.
«Arriva tutto».
Il piano è semplice: seguirlo fin là da dove è partito, interrogarlo e dargli la possibilità di purificare la propria anima, prima di renderla a Dio. Facile.
Due minuti più tardi, una piccola Peugeot rossa si ferma sullo spiazzo, con il motore diesel che borbotta prima di spegnersi. Un uomo grosso, dai capelli radi e grigi intorno alla pallida fronte, si gira a dire qualcosa ai due bambini sui sedili posteriori, poi esce nel caldo del pomeriggio, lasciandosi dietro una scia nera e verde. Vortica e danza intorno al suo lungo cappotto nero, affondando nel terreno sotto ai suoi piedi.
Rowan si schiaccia contro la parete del furgone. Un Raptor… questo non era previsto nel piano. No, niente affatto.
L’uomo si ferma davanti al bancone e sorride. «Ciao, Betty. Come sta andando la giornata?»
«Non mi lamento, Ian. Il solito?»
«Sì, un paio di porzioni di patatine per i bambini». Si gira e agita una mano verso la Peugeot. I piccoli ricambiano il saluto. Un ragazzino e una bambina, con i capelli biondi che incorniciano un visetto angelico.
«Oh, sono adorabili».
«È questo il bello di avere dei nipoti: si possono viziare senza preoccuparsi delle conseguenze». Infila una mano nella tasca del cappotto, tirandone fuori un vecchio modello di iPod, e ne scorre il menu con il pollice. «Ti piacciono gli Steppenwolf, Betty?»
«A dire il vero, sono più per Bruce Springsteen, io».
L’uomo si infila gli auricolari e ripone l’iPod nella tasca del lungo soprabito nero. Come le ali di un corvo. «Born to be Wild è imbattibile. Ha un gran bel ritmo». Sorride allo Stregone. «E tu?».
Lui si stringe nelle spalle. «Non conosco la vecchia musica». Allunga una mano a prendere una lattina dal bancone. Poi la apre e inghiotte un lungo sorso di Irn-Bru.
Ian prende un paio di guanti di pelle nera e li indossa. «È quello che dico anch’io, di solito». Si gira, salutando di nuovo i due bambini in macchina. Poi si copre il viso con le mani e le scosta di colpo. «Cucù!».
I bambini ridono e imitano il gesto.
Betty si muove all’interno del furgone, facendone cigolare le sospensioni. «Ecco a te, sandwich con bacon e uova e patatine fritte. Scusami per l’attesa. Lì ci sono le salse, se ne vuoi».
Lo Stregone si fa avanti, prendendo il suo cibo con un sorriso sulle labbra.
Un altro giro di “cucù”, solo che questa volta i bambini non si tolgono le mani dal viso e tengono gli occhi coperti, mentre Ian tira fuori un martello dal lungo cappotto nero e colpisce lo Stregone alla nuca.
Lo Stregone barcolla, con un grido soffocato in gola, mentre la lattina di Irn-Bru esplode in una fontana arancione, piombando al suolo. Il giovane crolla sulle ginocchia, aggrappandosi con una mano al bancone.
Ian canticchia a mezza voce le prime parole di Born to be Wild e cala il martello sul polso dello Stregone.
Uno strillo e finisce a terra, raggomitolandosi su se stesso mentre Ian gli centra la schiena con un calcio. Poi lo afferra per i capelli con una mano inguantata e lo trascina dietro al furgone.
«Cosa ti era stato detto?».
Rowan sbircia da dietro l’angolo del furgone, usando come schermo le grandi bombole di gas.
Lo Stregone arretra nella polvere, con il polso fratturato stretto al petto e l’altra mano sollevata a indicare Ian. Mostra i denti. «Ti avverto, Nonno, non sai con chi hai a che…».
Ian lo colpisce con un calcio in faccia. «Mr Falconer, per te, idiota».
Lui rotola sulla schiena, sputando una boccata di sangue di un rosso vivido. «Unngh…».
«E so esattamente con chi ho a che fare: Jake Ran Yingnu. E tu dovevi fare qualcosa, Mr Ran». Un altro calcio. «Pensavi davvero che un carico di cannabis da ventimila sterline potesse sparire dalla tua fabbrica senza che nessuno battesse ciglio?». Ian si toglie le cuffie e lo fissa dall’alto, piegando la testa di lato, un rapace che guarda un coniglio ferito. «Allora?».
Lo Stregone si risolleva… e poi crolla nuovamente in avanti, con la fronte appoggiata al terreno sporco di sangue e il posteriore sollevato, come se stesse pregando verso la Mecca. «Non sono stato io a rubarla! Non sono stato io!».
«E pensi che ai fratelli McLeod importi qualcosa? L’erba era sotto la tua responsabilità, dovevi occupartene tu. E hai lasciato che qualcuno entrasse e la portasse via nel cuore della notte?». Si fa indietro di un paio di passi, poi prende la rincorsa e pianta uno stivale nelle costole dello Stregone, abbastanza forte da farlo rigirare. «Come hanno trovato il posto? Come sono riusciti a superare i sistemi di allarme? Chi glielo ha detto?»
«aaaaaaagh…». Lo Stregone tossisce. Ansima. Stringe il braccio sano intorno al busto, con i denti che sembrano lapidi insanguinate dentro alla bocca scarlatta. «Non sono stato io, lo giuro, non sono stato…».
«Quel luogo doveva essere sicuro. I McLeod si fidavano di te».
Le lacrime scorrono lungo le guance dello Stregone, disegnando strisce chiare nella polvere che le ricopre. «Non l’ho detto a nessuno! Ho fatto quello che si doveva fare. non sono stato io!».
Ian si accoscia accanto a lui, con la testa metallica del martello appoggiata nella polvere. «Sai cosa? Ti credo. Non è stata colpa tua. Saresti dovuto essere un pazzo fottuto, per fare una cosa del genere ai McLeod, giusto? E se lo avessi fatto davvero, non te ne andresti tranquillamente in giro come stavi facendo: saresti già salito sul primo aereo, per allontanarti il più possibile da qui prima che ti venissero a cercare».
Le spalle dello Stregone sussultano, scosse dai singhiozzi che gli sfuggono dalle labbra insanguinate. «Io non… non sono stato io… non farei… mai…».
«Ma non importa molto quello che penso io, giusto? Se Simon e Colin te la lasceranno passare liscia, tutti inizieranno a pensare che si sono rammolliti. E non vogliamo che accada, vero?»
«Ti prego…».
«Certo che non vogliamo». Ian torna a infilarsi le cuffie e si acciglia. «Pfff… mi sono perso il pezzo più bello». Recupera l’iPod e armeggia con il piccolo schermo.
«Ti prego, io… tutto… tutto quello che vuoi, è… è tuo…». Lo Stregone si ritrae strisciando lungo il terreno sporco. «Non ho fatto niente di male!».
«Ecco fatto». Ian ripone l’iPod. Chiude gli occhi per un attimo, muovendo leggermente il capo a ritmo con la musica. Poi solleva il martello sopra la testa e lo cala con forza contro il lato del ginocchio dello Stregone. Nell’aria risuona uno schiocco secco. Un urlo. Poi il gesto viene ripetuto ancora. E ancora. Ian afferra lo Stregone per la cintura, in modo da tenerlo fermo. E continua a colpirlo con il martello mentre canticchia tra sé.
Un metronomo di sangue e terrore.
Born to be Wild.
Rowan osserva la scena finché delle ginocchia dello Stregone non resta nulla, se non una massa sanguinolenta e schegge di ossa, poi si allontana in silenzio.
Reuben si fermò nel parcheggio di fronte a un edificio scintillante di arenaria gialla e vetro verde smeraldo. I manifesti sulla vetrina incoraggiavano la gente a scommettere sul minuto del primo goal contro il Celtic nella finale della Scottish Cup che si sarebbe tenuta sabato ad Hampden Park, o su chi sarebbe stato espulso, o su chi si sarebbe infortunato, con foto di attori sorridenti che sfoggiavano mazzette di banconote e calici di champagne. A quanto sembrava, la cosa migliore che fosse accaduta al Turf and Track nel corso degli anni era l’incendio che l’aveva raso al suolo.
Reuben tirò il cigolante freno a mano e si voltò verso il poveraccio sul retro. «Tu stattene buono lì, Mr Fisher. Il mio amico Terry sarà subito qui a tenerti d’occhio. Non parla molto, ma se la cava molto bene con i coltelli a serramanico». Poi uscì dal furgone, nel pomeriggio coperto, e lanciò uno sguardo a Logan. «Tu: fuori».
Non che avesse chissà quali opzioni…
Seguì l’ampia schiena di Reuben verso l’ingresso principale del Turf and Track. «Terry?»
«Se quello stronzetto pensa di essere solo, là dietro, diventerà irrequieto. Potrebbe fare casino, sbattere contro la parete del furgone e cercare di ottenere un minimo di aiuto. Terry gli farà compagnia e si assicurerà che continui a comportarsi bene».
La porta del locale si aprì con un cicalio, annunciando la loro entrata in un’ampia sala scintillante, con una parete completamente ricoperta di tv a schermo piatto. Su un’altra erano state appese delle pagine del «Racing Post», con tutti gli elenchi delle corse, dei cavalli e dei fantini. In fondo alla stanza, dietro a un lungo bancone c’erano tre attraenti giovani bionde in divisa verde e gialla che metteva in mostra un accenno di scollatura. Tutte abbastanza truccate da riempire il reparto del make-up di una profumeria intera.
Tre uomini in giacca e cravatta se ne stavano seduti a un altro bancone in mezzo alla stanza, intenti a guardare le corse, mentre divoravano panini e sorseggiavano Corona con spicchi di lime infilati nelle bottiglie.
Il posto era migliorato molto, rispetto al passato.
Logan annusò l’aria: l’agenzia di scommesse profumava di deodorante per ambienti al limone, invece che di fumo di sigaretta, e il soffitto non aveva il colore dei polmoni di un fumatore accanito. «Mi piaceva di più quando il pavimento era tutto appiccicoso».
Reuben raggiunse il bancone e sbatté con forza una mano di fronte alla cassiera numero tre.
La giovane donna sobbalzò, ritraendosi sulla sedia, per poi inspirare profondamente e stamparsi un sorriso sul volto. «Benvenuto al Turf and Track, la migliore agenzia di Aberdeen per…».
«Di’ al Viscido che ha visite».
Il sorriso si smorzò leggermente. «Viscido…?»
«Colin McLeod. Oppure suo fratello, lo zoppo, non mi interessa. Ma fallo venire qui prima che cominci a sbattere i vostri scommettitori contro quelle belle tv, capito?».
La ragazza aprì e richiuse la bocca un paio di volte. Poi si piegò lievemente di lato, tentando di far sembrare tutto normale mentre premeva qualcosa sotto al bancone. «La prego, signore, non c’è bisogno di…».
«Pensi che non ti abbia visto premere il pulsante d’allarme?».
Le guance della giovane donna avvamparono al punto da mostrare il rossore sotto al pesante strato di trucco. «È il mio primo giorno di lavoro. Non sapevo… la prego, non mi faccia del male».
La porta dietro al bancone con la scritta riservato si aprì, e un uomo entrò nella stanza: aveva le spalle larghe e il volto butterato, gli mancava mezzo orecchio e portava un paio di occhiali da sole avvolgenti a nascondergli lo guardo. Alzò il mento. «Problemi, Naomi?»
«Non è colpa mia, Mr McLeod, quest’uomo è entrato e sta minacciando i clienti, è il mio primo giorno qui e non sapevo…».
«D’accordo. Vai a prenderti una tazza di tè. Qui ci penso io».
Reuben si scostò di un passo, piegando la testa di lato e facendo schioccare le vertebre del collo. «Bene, bene, bene… guarda un po’ cosa hanno riportato i cani».
Simon McLeod si sciolse le spalle, mentre apriva e chiudeva i pugni. «Reuben. Chi ti ha tolto il guinzaglio?»
«Io e te abbiamo un problema».
Naomi oltrepassò goffamente il suo datore di lavoro e uscì dalla porta sul retro.
Simon McLeod sorrise. «Pensi che me ne freghi un…».
«Oh, sarà meglio, perché se non è così…».
«A dire il vero», intervenne Logan, avanzando verso il bancone, «dovremmo parlare di certe… attività agricole».
Gli occhiali da sole puntarono verso di lui. Le narici di Simon McLeod fremettero, mentre annusava l’aria. «E quello chi è?»
«Se vuoi ti mostro il distintivo, ma non avrebbe molto senso, giusto?».
Un sorriso si arrampicò lentamente lungo quel viso butterato. «Jessica, Fiona, fate passare questi due signori e dite ai clienti che chiuderemo per un’ora, per delle esercitazioni antincendio. Poi potete andare: ho degli affari da sistemare».
L’ufficio di Simon McLeod era enorme: la scrivania, il tavolino e un paio di divani di pelle erano estremamente distanti, come se non volessero avere nulla a che fare l’uno con l’altro. C’era parecchio spazio per muoversi tra la mobilia senza rischiare di urtarvi contro.
Le pareti color magnolia erano nude, tranne che per una testa di Rottweiler montata su una placca di legno dietro alla scrivania, con il pelo rado e bruciacchiato. Gli mancava un orecchio, un po’ come al proprietario dell’ufficio. Sulla placca c’era un nome in lettere di ottone: killer.
Simon McLeod si sedette dietro la scrivania e incrociò le braccia sul petto. «Allora… che succede? Ti presenti qui con uno dei tuoi poliziotti corrotti sperando di spaventarmi?».
Reuben si fece schioccare le nocche. «Se avessi anche solo mezzo cervello, saresti terrorizzato».
«Ah, davvero?». Simon si tolse gli occhiali da sole. Non c’era niente, al di sotto, soltanto due fessure color carne al posto degli occhi. Perfino le palpebre erano svanite in una rete di cicatrici contorte. «Pensi che qualsiasi cosa tu possa fare riesca a spaventarmi?».
Silenzio.
E ora?
Logan si sedette sul divano più vicino alla parete. Cigolò e scricchiolò sotto di lui: probabilmente era un modo che permetteva a Simon di sapere esattamente dove si trovavano i suoi interlocutori.
Dannatissimo Wee Hamish Mowat: ho fiducia in te, Logan. È per un bene superiore, Logan. Non vuoi che si scateni una guerra, vero, Logan?
Come diavolo avrebbe fatto a negoziare la pace tra due cartelli della droga rivali? Avrebbe offerto loro tè e biscotti, raccomandandosi che giocassero pulito? Si schiarì la gola. «Questa non è una perquisizione, io non sono un poliziotto corrotto e se possiamo raggiungere un accordo, la cosa non andrà oltre». Sì, quello era decisamente un picco della sua carriera.
Un sorriso si fece strada sul volto di Simon McLeod. «Oh, certo, perché di sicuro mi lascerò sfuggire chissà quante dichiarazioni compromettenti, mentre tu sei qui. C’è qualcosa in particolare che vuoi che confessi? Di aver rapito Shergar? O di aver ucciso Lord Lucan? Non avete ancora arrestato Bibbia John, forse ero io? Certo, avevo due anni, al tempo, ma in fondo sono sempre stato precoce».
Logan si alzò, e il divano scricchiolò di nuovo. Scosse la testa verso Reuben. «Te l’avevo detto che sarebbe stata una perdita di tempo. Torna a casa e di’ a Wee Hamish che a Simon McLeod non interessa di risolvere pacificamente la faccenda».
Simon sollevò un sopracciglio, tirando le cicatrici intorno agli occhi vuoti. «Wee Hamish? Mi stai dicendo che non è soltanto Reuben che fa il coglione e cerca di fare la voce grossa in giro?»
«Chi credi di chiamare coglione, sacco di merda senza occhi?»
«Ehi!». Logan sollevò una mano. «Dovresti essere qui per aiutarmi, non per peggiorare le cose».
Reuben aprì le spalle mentre si faceva avanti, stringendo i pugni. Poi si fermò, inspirò profondamente e tornò ad appoggiarsi alla parete.
Meglio.
Logan accennò a Simon, anche se lui non poteva vederlo. «Proviamo a ipotizzare, soltanto a ipotizzare, che ve ne siate andati in giro a prendere a martellate dei signori orientali. Tuo fratello Colin se la cava bene con il martello, vero?».
Certo che sì. E le ginocchia erano la sua specialità. Ne aveva gambizzati tanti.
Simon sorrise. «Quei giorni ce li siamo lasciati alle spalle, agente. Dei gentiluomini come noi non si farebbero mai coinvolgere in qualcosa del genere».
«E ora supponiamo che questi siano stati gli atti iniziali di una guerra della droga. A Wee Hamish non piacerebbe. Penserebbe che sia un male per Aberdeen. Lui sicuramente vi consiglierebbe di raggiungere un accordo con i vostri rivali, in modo da non aumentare il numero di feriti e morti».
«E se non lo facessimo? Sempre ipoteticamente».
La voce di Reuben era un basso ruggito. «Finirete i vostri giorni come mucchietti di merda di maiale».
Il sorriso scivolò via dal volto di Simon. «Bene, potete dire a Wee Hamish che non possiamo farci niente: nessuno sa chi sono gli altri. È per questo che stiamo… È per questo che un imprenditore locale potrebbe star tentando di interrogare i vostri signori orientali».
«Non sapete chi sono i nuovi arrivati?»
«Pensi che mi starebbero ancora rubando roba, se lo sapessi?». Un’alzata di spalle. «Supponendo che avessi qualcosa che questa gente volesse rubarmi. Ipoteticamente».
Reuben incrociò le braccia sul petto. «È una fortuna, allora, che io sia qui, non trovi? Ho qualcuno, qua fuori, che a quanto pare lo sa».