capitolo 2

«Sto arrivando. Di’ a tutti di…». Sentì scricchiolare qualcosa sotto al piede. Logan si bloccò sulla soglia, con il cellulare incastrato contro l’orecchio. Spostò di lato la scarpa e arricciò il labbro superiore. «Non di nuovo».

Tre ossicini erano abbandonati sul marciapiede di cemento, uniti da un lacero pezzo di nastro rosso.

Un sibilo basso venne dall’altro capo del telefono. «Sul serio, capo, Pete il Vomitone non la smette più di vomitare, qui, e…».

«Ho detto che sto arrivando».

Logan si schiacciò il cellulare contro il petto e lanciò uno sguardo intorno a sé, nel parcheggio di roulotte ormai quasi avvolto dall’oscurità crescente. Era pieno di grosse roulotte ferme, delle dimensioni di container da trasporti, tutte dipinte di un uniforme verde istituzionale. Una macchina di pattuglia era parcheggiata sul tratto asfaltato che fungeva da rotatoria, con i lampeggianti accesi nell’aria tiepida della tarda serata. L’uomo al posto di guida si piegò in avanti, guardando verso Logan attraverso il parabrezza, mentre faceva scorrere le mani sul volante come se stesse cercando di sentirne la consistenza.

Non c’era traccia dei piccoli bastardi.

Logan fece finire gli ossicini giù dal gradino con un calcio, gettandoli nell’edera stentata che cresceva sul lato della sua casa. Poi prese un profondo respiro e urlò: «so dove vivete, stronzetti!».

A quel punto, tornò al telefono.

«Insomma, non è la prima volta che succede, ma mai così. Sta…».

«Se sta inquinando la scena del crimine, arrestalo. Se non è così, tienigli quella cazzo di mano finché non arrivo». Si avvicinò alla volante a lunghi passi pesanti, e si accomodò sul sedile del passeggero. Allacciò la cintura. «Muoviti».

L’agente premette l’acceleratore.

Il sole era una macchia scarlatta lungo l’orizzonte, che riempiva di sangue e ombre il tratto di terreno brullo. Degli alberi si allungavano intorno al suo perimetro, e dai loro rami proveniva il gracchiare rauco e insistente dei corvi che si sistemavano per la notte.

Carcasse grigie e nere affollavano lo spiazzo: macchine bruciate, la vernice venuta via, i sedili ridotti a cadenti intrecci di fil di ferro arrugginito, le gomme trasformate in ammassi vetrificati e informi.

Un nastro azzurro e bianco con la scritta polizia era teso tra i veicoli, creando una terra di nessuno di circa sei metri di diametro intorno al cordone interno giallo e nero della Scientifica, con la scritta scena del crimine. Tre tecnici erano inginocchiati nella polvere, intenti a esaminare qualcosa, le loro tute in Tyvek bianco che sembravano rosa nella luce del tramonto.

Logan arricciò il naso. Il fetore rancido del vomito si mescolava a quello oleoso della carne bruciata e del grasso fuso. Come un barbecue di cibo avariato. «Dov’è il patologo?».

Uno dei tecnici, una piccoletta con gli occhiali protettivi oscurati, finì di raccogliere dentro una busta di plastica qualcosa di scuro e appiccicoso, per poi puntare l’indice infilato nel guanto di gomma verso il lato opposto del nastro giallo e nero. C’era un altro tecnico in uniforme da Puffo, piegato su un secchio, intento a emettere rantoli inconfondibili, le spalle scosse dai conati che gli rivoltavano lo stomaco.

La tipa bassa abbassò la mascherina, rivelando un ovale di pelle chiara e sudata e una bocca dalle labbra sottili. «Poveraccio. Non posso biasimarlo, davvero. Io stessa ho rischiato di vomitare la cena». Sbuffò gonfiando le guance, tirando con le dita l’elastico intorno al cappuccio della tuta. «Cristo, si crepa di caldo, qui dentro…».

«Avete chiamato i rinforzi?».

La donna annuì. «La Regina delle Nevi sta arrivando». Poi riposizionò la mascherina sul viso. «Vuole dare un’occhiata? Abbiamo fatto tutto il possibile, e stanno per rimuovere il cadavere».

«Quanto è brutto?».

Lei si sfilò i guanti e ne indossò un nuovo paio. «Non voglio certo rovinarle la sorpresa di scoprirlo da solo». Poi si avviò su una passerella sopraelevata, fatta di gradini metallici, simili a vassoi rovesciati sostenuti da piccoli supporti, per evitare che i loro stivali di plastica blu contaminassero la scena. La passerella procedeva in mezzo a un paio di auto bruciate e spariva dietro alla carcassa annerita di una Renault Clio. Un filo di fumo nero si arricciava nell’aria, salendo verso il cielo, dalla parte opposta.

Logan si sistemò sul viso gli occhiali protettivi, chiuse del tutto la tuta e seguì la donna zigzagando lungo la passerella, che risuonava sotto i suoi passi. L’odore di barbecue rancido peggiorò. E poi arrivarono a destinazione.

Cristo…

Gli sembrò che il suo stomaco si spostasse di un paio di passi verso destra, per poi piombare di nuovo al suo posto. Deglutì a vuoto. Sbatté le palpebre. Si schiarì la gola. «Cosa sappiamo?»

«Non molto: la vittima è un maschio, o almeno è ciò che riteniamo». Un’altra alzata di spalle. «È stato incatenato a quella che sembra una sezione delle tubature metalliche modulari usate per le impalcature… sa, quelle che si usano nei garage, per esempio? È stata piantata al suolo come un palo».

La vittima era inginocchiata sul terreno compatto, con le gambe raccolte sotto i glutei. La tuta arancione che indossava era macchiata sulle gambe e sul busto, annerita sul petto e sparsa di piccole lacrime lucenti di gomma vetrificata. Qualcuno gli aveva fatto passare uno pneumatico sulla testa e intorno a un braccio, come se fosse una fascia a tracolla, per poi dargli fuoco. Stava ancora bruciando: piccole lingue di fiamma oleosa scivolavano lungo il lato della gomma.

La donna mugolò. «Dannazione…». Raccolse un estintore da un contenitore di plastica blu, ne direzionò l’erogatore e premette la leva. Uno spruzzo di vapore bianco coprì per un attimo il volto del poveraccio, ma quando l’anidride carbonica si disperse, tornò a mostrarsi in tutta la sua contorta gloria.

La pelle era gonfia e coperta di vesciche, di un violento, bruciante scarlatto; gli occhi velati di bianco opaco; i denti snudati, ingialliti e spaccati. Non aveva più capelli, e attraverso la carne bruciata si intravedevano le ossa nude del cranio e degli zigomi…

Non vomitare. Non vomitare.

Logan tornò a schiarirsi la gola. Spostò lo sguardo sul cimitero di macchine bruciate. Lunghi, profondi respiri. Il lungo tetto di metallo ondulato del Thainstone Mart si intravedeva appena dietro agli alberi, in lontananza, e quelle che sembravano le note di It’s Not Unusual di Tom Jones provenivano da una discoteca o da una qualche festa aziendale, che sarebbe andata avanti tra balli e bevute fino alle ore piccole. E, una volta finita, un poveraccio sarebbe dovuto rimanere sveglio per il resto della notte a raccogliere rifiuti e bottiglie vuote prima della successiva vendita di bestiame.

Il tecnico della Scientifica ripose l’estintore nella cassa con un tonfo sordo. «È la gomma dello pneumatico: una volta che raggiunge la temperatura giusta, è quasi impossibile evitare che riprenda fuoco di continuo».

«Glielo tolga di dosso, allora».

«Lo pneumatico?». La donna buttò fuori una debole, gorgogliante risata. «Prima che sia arrivata la Regina delle Nevi?»

«Il dottor Forsyth…».

«Pete il Vomitone non riuscirà neanche a dare un’occhiata da lontano a questo povero stronzo». Abbassò lievemente le spalle. «Un vero peccato. Era bello avere un patologo con cui si poteva effettivamente parlare…».

Ora che la gomma non bruciava più, altri odori raggiunsero le narici di Logan, oltre la mascherina che indossava: escrementi, urina. Fece un passo indietro.

Il tecnico annuì. «Puzza, vero? Non so lei, ma se fosse capitato a me… se qualcuno mi avesse fatto questo… be’, me la sarei fatta sotto anch’io. Doveva essere terrorizzato».

Una voce si levò nell’aria immobile della sera: uno di quegli accenti melodiosi tipici delle Highlands e delle isole. «Ispettore McRae? Mi sente?».

Logan si girò.

C’era una donna in piedi dietro al cordone esterno bianco e azzurro con la scritta polizia, con il tailleur di lino grigio più grinzoso dello scroto di un elefante. «Ispettore?». Sventolava una mano verso di lui, come se stesse per partire in treno verso qualche piacevole destinazione, invece di starsene in piedi su una piccola passerella di metallo accanto a un uomo che era stato bruciato vivo.

Logan tornò indietro lungo il percorso di vassoi rovesciati fino a ritrovarsi nella zona circondata dal nastro della polizia. Si fece scivolare sulle spalle il cappuccio della tuta, si sfilò gli occhiali protettivi, si tolse la mascherina e se la ficcò in tasca.

La donna socchiuse gli occhi guardandolo, per poi prendere un paio di occhiali da una grossa borsa di pelle e indossarli, spostando dietro le orecchie una massa di ricci castani. «Ispettore McRae?»

«Mi scusi, signorina, ma non saranno rilasciate interviste alla stampa per il momento, quindi…».

«Sono il supervisore della scena del crimine». Gli tese la mano. «Sergente Lorna Chalmers». Un sorriso. «Sono stata appena trasferita dal Nord. Ha presente? Sto investigando su quella rapina di ieri nel negozio di alcolici a Inverurie, e sono alla ricerca della Land Rover che hanno fatto schiantare contro la vetrina. Ricorda?».

No, non ne aveva la minima idea. Ma per lo meno spiegava il suo accento. Logan si sfilò i guanti di nitrile viola. «Sei stata tu a organizzare il cordone?»

«E a far venire il medico legale di turno, il seb – o comunque lo chiamino questa settimana – e anche il patologo: sia quello ufficiale che il rimpiazzo».

Arrogante.

Logan si sfilò la parte superiore della tuta, per poi appoggiarsi contro i resti di una Polo Volkswagen. Il cofano a contatto con le sue natiche non era semplicemente caldo. Era quasi bollente.

Il sergente Chalmers prese il taccuino da detective e lo aprì. «La chiamata è arrivata alle otto e trenta, anonima… be’, veniva da un cellulare, ma si trattava di una scheda prepagata. Un uomo non identificato ha detto che c’era un “tizio in fiamme con una gomma intorno al collo” nelle vicinanze del Thainstone Mart».

Logan aggrottò la fronte. «Come mai non è stata la stazione locale a prendere la chiamata?».

Lei sogghignò, mostrando due file di piccoli denti lievemente appuntiti. «Chi dorme non piglia pesci».

Arrogante e anche ambiziosa. Be’, se era così che voleva giocarsela, l’avrebbe accontentata. Accennò con un ampio movimento del braccio alla serie di veicoli bruciati nei dintorni. «Fai identificare tutte queste macchine. Voglio targhe, indirizzi e fedine penali dei proprietari sulla mia scrivania entro domani mattina».

Lei gli rivolse un sorriso rigido e un cenno del capo. Sono determinata, niente mi fermerà. «Subito, capo».

«Molto bene». Logan si scostò con un colpo di reni dalla Polo. «Puoi cominciare da questa. Oppure non ti eri accorta che è ancora calda?».

Il sorriso della donna si smorzò. «Davvero? Ah, è…».

«Stava bruciando, quando siete arrivati?»

«Io non…».

«Dettagli, sergente. Sono importanti».

«Ma stavo… ho pensato che il cadavere… stavo organizzando tutto e…». Un violento rossore le salì alle guance. «Mi scusi, signore».

«Fai fare un ulteriore controllo ai tecnici, prima che vadano. Probabilmente non troveranno nulla, ma vale la pena di fare un tentativo». Si sfilò anche la parte inferiore della tuta, poi imprecò quando una versione metallica e un po’ distorta della Marcia Imperiale di Star Wars si fece sentire dal suo cellulare. Non ebbe neanche bisogno di controllare il nome sullo schermo per sapere di chi si trattava.

Premette il pulsante per accettare la chiamata. «Cosa c’è adesso?».

Ci fu una pausa, poi la voce rauca del commissario Steel gli vibrò nell’orecchio. «Hai ancora la suoneria di quel fottuto Darth Fener collegata al mio numero? Perché non è affatto divertente!».

Logan premette il pulsante per silenziare la conversazione. «Sergente, mi pareva di averti chiesto di recuperare le targhe di questi veicoli».

La Chalmers mantenne lo sguardo sulla punta delle sue scarpe. «Sì, signore».

Lui sorrise. Be’, non l’avrebbe sicuramente ucciso darle un contentino, a quel punto. «Hai fatto un buon lavoro, con questa scena: continua così». Tornò a premere il pulsante. «E ora fuori dai piedi».

Un ringhio rabbioso si udì dal ricevitore. «Non osare dirmi di levarmi dai piedi! Sono a capo del maledetto cid, non un cazzo di…».

«Non dicevo a lei, ma al sergente Chalmers». La scacciò con un cenno, poi spostò il cellulare sull’altro orecchio, tenendolo fermo con la spalla mentre si liberava della tuta bianca. «Cosa vuole?»

«Oh…». Un colpo di tosse. «Bene. Dov’è quel dannato fascicolo?»

«Nel compartimento dei documenti da evadere. Si prende mai la briga di guardarci dentro, ogni tanto? O ha soltanto…».

«Non sto parlando della tabella degli straordinari, idiota, ma dell’analisi del budget».

«Oh, pensavo che stesse parlando del mio lavoro. Sa, quello che in teoria sarei tenuto a fare, al contrario del suo lavoro».

«Mi basta avere tutta questa merda da sistemare senza che ti ci metta anche tu a fare una tirata ogni volta che ti viene chiesto di fare qualcosa di semplice e…».

«Senta, sono sulla scena di un crimine, quindi possiamo saltare i convenevoli e venire al vero motivo della telefonata? Era soltanto per urlarmi contro? Perché se è così, può…».

«E che mi dici di quella dannatissima coppia di adolescenti scomparsi? Quando pensi di ritrovarli, eh? O forse sei troppo impegnato a pavoneggiarti con…».

«Quale parte di “sono sulla scena di un crimine” non le è chiara?»

«…quei poveri genitori spaventati a morte!».

«Per l’amor del cielo, hanno entrambi diciotto anni, non sono ragazzini, ma adulti». Si tolse a fatica gli stivali di gomma blu. «Sicuramente adesso si saranno chiusi in qualche edificio abusivo di Edimburgo. Scommetto quello che vuole che ci stanno dando dentro come ricci su un qualche lurido sacco a pelo».

«Non è una scusa per battere la fiacca! La dannata madre della ragazza ha chiamato di nuovo. Ti sembra che non abbia di meglio da fare che stare dietro al tuo culo impallinato tutto il giorno?». La sentì tirare su rumorosamente con il naso dall’altra parte del telefono. «Datti una mossa, dannazione: non hai fatto nulla per quella rapina alla gioielleria di ieri sera, c’è un numero incredibile di crimini a sfondo razzista… e già che ci siamo: la tua maledettissima madre!».

«Ah, ecco: ci risiamo. Era questo il vero motivo della chiamata». Logan accartocciò il materiale protettivo e lo gettò nel contenitore dei rifiuti attaccato ai resti di un’Audi. «Non sono il suo responsabile, d’accordo?»

«Di’ a quella stronza che…».

«Le avevo detto di non invitarla al saggio di danza di Jasmine, ma mi ha dato ascolto, per caso? Nooo».

«…quel dannato vestito tagliato da Attila l’Unno! E un’altra cosa…».

Un’enorme Porsche Cayenne 4×4 schizzata di fango si fermò con uno stridio e un ringhio del motore sul sentiero accidentato, dietro al furgone Transit del seb. Con uno scatto secco, i fari si spensero, lasciando vedere la persona al posto di guida illuminata dalle luci del cruscotto. Aveva le labbra tese in una linea severa, le narici dilatate e gli occhi a fessura. Fantastico, sarebbe stata una di quelle serate.

«…nell’orecchio con uno stecco!».

Logan sollevò una mano in un cenno di saluto verso la Porsche. «Devo andare, è arrivato il patologo numero due».

«Laz, ti avverto, o fai…».

McRae attaccò.

La dottoressa Isobel McAllister si premette entrambe le mani contro le reni e sbuffò. La sua tuta bianca era rigonfia sul davanti, come se ci avesse nascosto un cuscino. Tirò indietro il cappuccio dal bordo elastico, mostrando un volto paffuto e roseo, incorniciato da un taglio corto e scalato che sembrava più pratico che alla moda. «Mi sta davvero chiedendo l’ora del decesso?».

Il sergente Chalmers annuì, con la biro sospesa sopra un foglio bianco del suo taccuino.

Isobel si rivolse a Logan. «È nuova, vero?»

«Appena trasferita dal Nord».

«Che Dio ci salvi dalla Brigata dei Berretti di Tartan». Isobel si aprì il davanti della tuta. «A quanto pare, il cadavere è stato incravattato: gli hanno piazzato uno pneumatico sopra la testa e un braccio, in modo che non potesse liberarsene, poi la superficie esterna della gomma è stata cosparsa di paraffina e incendiata. La morte è causata solitamente dal calore e dall’inalazione del fumo, che conducono allo shock e all’arresto cardiaco. Ci possono volere fino a venti minuti». Si passò una mano sulla fronte sudata. «È un metodo di esecuzione piuttosto diffuso in alcuni paesi africani».

Il sergente Chalmers scribacchiò qualcosa sul taccuino. Poi alzò lo sguardo. «Anche in Colombia. Ho visto un documentario in cui i membri di un cartello appendevano con una catena un tizio sopra un cavalcavia, riempivano la gomma di benzina e le davano fuoco. Così tutti quelli che passavano là sotto vedevano la vittima appesa che bruciava, e sapevano cosa sarebbe successo se avessero pestato i piedi al…». Si schiarì la gola. «Perché mi state guardando tutti?».

Isobel scosse la testa. «Comunque, ho…».

Un clacson risuonò nello spiazzo.

La donna alzò lo sguardo al cielo per qualche istante. Digrignò i denti. Ci riprovò: «Come stavo dicendo, ho…».

Breeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeep!

«Oh, per la miseria, non ce li posso proprio avere cinque minuti di tregua, vero? Neanche cinque minuti!». Puntò l’indice in direzione della sua Porsche 4×4, prese un profondo, tremulo respiro e sbottò: «sean joshua miller-mcallister, piantala subito!».

Silenzio.

Un visetto fece capolino dal cruscotto, occhi enormi sotto a una massa di sporchi capelli biondi. Poi il lampo di un sogghigno sornione.

Breeeep! Breep! Breeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeep!

Isobel si sfilò rabbiosamente i guanti e li gettò a terra. «Visto cosa succede? Visto? E pensate che Ulrika sarà arrestata per questo? Ma certo che no: sarà già tanto se le molleranno uno schiaffetto sulla mano». La dottoressa si avviò a passi rapidi verso la macchina. «sei nei guai, giovanotto!», esclamò, mentre si liberava degli strati protettivi.

Il sergente Chalmers spostò il peso da un piede all’altro. «E quello era…?»

«Hanno scoperto che la baby-sitter rubava in casa». Logan prese il cellulare. «E considerati fortunata: l’ultima persona che le ha chiesto l’ora di un decesso è stata costretta ad aiutarla a prendere la temperatura della vittima. E il termometro non viene infilato in bocca, in questi casi».