capitolo 3

I moscerini giravano e ronzavano intorno a uno dei fari della Scientifica, scintillando come minuscoli diamanti assetati di sangue. In lontananza, Tom Jones aveva lasciato il posto a Dancing Queen degli abba. Logan si premette due dita contro l’orecchio e si allontanò di un paio di passi dai rumorosi generatori diesel. «Cosa? Non ho sentito».

All’altro capo della linea, il commissario Steel alzò leggermente la voce. «Ho detto, cosa ti fa pensare che si tratti di un caso legato alla droga?»

«Potrebbe anche non esserlo, ma sembra un’esecuzione. Ne sapremo di più non appena il cadavere sarà identificato: scommetto che verrà fuori che si trattava di un piccolo spacciatore di Manchester o Birmingham».

«Dannazione, proprio quello che mi serviva: un bastardo su di giri che elimina gli spacciatori rivali facendone una forma d’arte contemporanea». Silenzio. Poi un respiro profondo. «Non mi farò invischiare in questa storia. Neanche per sogno».

«Pensavo che fosse questo il compito di chi è a capo del cid».

«A volte la merda scorre verso l’alto, Laz, e su questo caso c’è scritto a chiare lettere con il pennarello nero indelebile “primo dirigente”. Lascia che di lui si occupino i membri della stampa».

Il tecnico che l’aveva portato a vedere il cadavere gli passò davanti, mentre sosteneva un’estremità di quella che sembrava una cassa avvolta in chilometri di spessa plastica blu. Era grande abbastanza da contenere un uomo inginocchiato e incatenato a un palo di metallo. Gli rivolse una smorfia contratta. «Muoviamoci, eh? È dannatamente pesante…».

«E per “membri” intendo…».

«Devo andare, il procuratore generale vuole vedermi». Non era vero, se n’era andata quasi mezz’ora prima.

«Oh, no, neanche per idea, non andrai da nessuna parte finché non mi dirai a che punto siamo con quella dannata rapina alla gioielleria. Speri di poter scaricare a qualcun altro tutti gli altri casi che ti competono solo perché ora hai per le mani una succosa guerra tra gang?»

«Le indagini procedono e…».

«Hai fatto già tutto quanto cazzo potevi, vero?»

«Sono stato su una maledetta scena di un crimine!».

I tecnici della Scientifica trasportavano i loro contenitori di plastica blu attraverso il cimitero di veicoli bruciati, imprecando e borbottando per tutto il tragitto, mentre i loro piedi sollevavano una nuvola di polvere bianca dal terreno arido.

«E di chi è la colpa? Sei un ispettore, ora: comportati come tale! Parcheggia il culo dietro alla scrivania e organizza le cose: manda qualche altro stronzo a giocare al tuo posto sulla scena».

Brutta, fetida, rugosa, bastarda… «È lei che mi hai ordinato di venire qui! Non ero neanche in servizio, stavo cenando!». Staccò il cellulare dall’orecchio e lo fissò con rabbia. Concentrati abbastanza e la sua testa esploderà come un bubbone maturo dall’altra parte della linea. bang! Materia cerebrale e schegge di cranio dappertutto.

«Ehm… capo?». Il sergente Chalmers gli toccò cautamente una spalla, con un’espressione accigliata che le stampava una smorfia su metà del viso. «Tutto bene? È diventato viola in faccia…».

Logan digrignò i denti, riportando il cellulare all’orecchio. «Io e lei riparleremo di questa faccenda domani».

«Ci puoi scommettere il culo che lo faremo. Non sono…».

Chiuse. Guardò torvamente il telefono per qualche istante, poi premette con forza il pulsante di spegnimento. Se l’avesse lasciato acceso, lei avrebbe richiamato, ancora e ancora, fino a fargli perdere del tutto la ragione e a fargli commettere un omicidio.

Trasse un profondo respiro e lo esalò sibilando dal naso. «Giuro su Dio…».

La Chalmers sollevò il proprio taccuino come fosse uno scudo. «Abbiamo il numero di telaio di tutti i veicoli, e indovini un po’? Ho trovato la mia Range Rover». Una pausa. «Sa, la Range Rover che si vede nella registrazione della telecamera a circuito chiuso? Quella che è entrata nella vetrina del negozio di alcolici?»

«E per la Golf?»

«Ne è stato denunciato il furto alle dieci e trenta di questa mattina. Secondo la Centrale, il proprietario dice di essere andato in macchina alla friggitoria di Kintore per cena venerdì sera, poi è tornato indietro e ha parcheggiato fuori dalla casa di sua madre. Quando si è svegliato, era sparita». Controllò gli altri appunti che aveva preso. «La macchina, non la casa della madre».

«Vai a parlarci. Digli tutto, dannazione. Scuotilo un po’ e vediamo che ne viene fuori».

«Sì, signore». La Chalmers scribacchiò ancora qualcosa sul taccuino, per poi tornare a infilarlo in una tasca della giacca. «A proposito, avevo ragione riguardo a quella storia del cartello colombiano. Avevo un ragazzo che scaricava i video di quei poveracci appesi sul cavalcavia, in fiamme come se fossero delle… delle orribili decorazioni natalizie. E si eccitava anche un sacco, dopo che li guardava». Si ripulì le mani sul davanti della giacca, per poi sfregarsi i polpastrelli tra loro, come se fossero sporchi. «L’ho mollato: troppo inquietante».

Logan la fissò senza parlare.

«Ah… Troppe informazioni dall’ultima arrivata. D’accordo». La Chalmers arretrò di un paio di passi. «Andrò a cercare quel… sì». E se ne andò.

«Lo so, lo so, mi dispiace». Logan passò il cellulare da un orecchio all’altro, bloccandolo contro la spalla, mentre faceva affrontare all’ammaccata fiat Punto la rotatoria di Clinterty, tornando indietro lungo la strada a due corsie che portava ad Aberdeen. «Sai come è fatta».

Samantha sospirò. «Logan McRae, non dovresti più permetterle di calpestarti in questo modo. Lo sai. Ne abbiamo già parlato».

Lui cambiò marcia e premette il piede sull’acceleratore. Il motore diesel della Punto tossì e vibrò, faticando a portare il veicolo su per la collina. «Farò un po’ tardi».

«Pfff… per questa volta ti perdono».

«Bene. Farò…».

«A una condizione, però: i piatti li lavi tu».

«Perché è sempre il mio turno di lavare i piatti?»

«Perché sei così tirchio che non ti sei mai preso la briga di comprare una lavastoviglie». Ci fu una pausa. «O una macchina decente».

Una Toyota iQ lo superò sulla corsia esterna. Un motore che non arrivava a mille di cilindrata, eppure era comunque più veloce della sua dannata Punto.

«Non sono tirchio. Sono soltanto…».

«“Cauto” è un sinonimo di “tirchio”. Non lo so davvero perché continuo a starti dietro». Ma in quelle parole sembrava nascondersi un sorriso. «Non fare troppo tardi. E la prossima volta non farti mettere i piedi in testa!».

«Promesso». Logan chiuse la telefonata e armeggiò con i pulsanti, finché le parole “sergente rennie” non comparvero sullo schermo.

Uno squillo… un altro… un altro ancora… E poi: «Mmmph, nnnng…». Uno sbadiglio. Un mugugno. «Che ora è?».

Logan controllò. «Sono appena passate le dieci».

«Urgh…». Si udirono dei rumori indefiniti. «Il mio turno comincia a mezzanotte».

«Sì, be’, io avrei dovuto staccare alle cinque, quindi credo di essere io il vincitore del gioco “Chi può lamentarsi della giornata”, non credi? Dimmi della rapina alla gioielleria».

«Aspetti…». Un tonfo, seguito da un rumore che sembrava quello di qualcuno che stesse versando una bottiglia di limonata in una vasca mezza piena. «Unnnng…».

Santo cielo.

Logan fece una smorfia. «Non mi dire che sei in bagno!».

Una lunga pausa decisamente sospetta. Poi: «Non sono in bagno, sono… in cucina… mi sto facendo una tazza di tè».

Disgustoso, piccolo bastardo.

«Voglio una lista di sospetti per quel furto, prima che stacchi dal turno, ci siamo intesi? Vai a investigare nei banchi di pegni, dai ricettatori e da qualunque altra canaglia che abbiamo sbattuto dentro per riciclaggio».

«Ma è notte fon…».

«Non me ne frega niente se dovrai trascinarli giù dal letto: fammi avere quella lista. O, ancora meglio, direttamente un arresto!».

«Ma sono…».

«E, a proposito, che sta succedendo con tutti quei crimini a sfondo razzista?»

«Ma non… io…». La sua voce si spezzò e divenne un lamento a tutti gli effetti. «Ma cosa posso fare? Ho il turno di notte!».

«Rennie, sei…». Logan tacque. Sprofondò un poco nel sedile, mentre finalmente la Punto superava l’interminabile salita. Non era giusto, in effetti: prendersela con qualcun altro, solo perché la Steel gli aveva fatto passare un brutto quarto d’ora. «Scusami. Lo so. È solo che… avanti, dimmi soltanto a che punto siamo».

«Non parla nessuno. Tutte le vittime dicono che sono cadute dalle scale, e roba simile. Perfino il tizio con entrambe le caviglie rotte non ha fatto un fiato».

«E sono tutti cinesi?»

«L’ultimo è coreano. Con lui fanno quattro maschi orientali nell’ultimo mese e mezzo».

«Bene… fai quello che puoi».

«Sta tornando all’ovile?»

«Vado a parlare con un tizio riguardo a una possibile guerra interna nel narcotraffico».

«Capito». Un altro sbadiglio. Poi un inequivocabile gorgoglio. «Oops. Ho… cioè, Emma deve aver appena… ehm… scaricato la lavatrice?».

La giovane donna in camice da infermiera lo guardò torvamente, con una mano sul pomolo della porta. «Non mi piace affatto. È tardi. Non dovrebbe essere qui». Aveva le sopracciglia unite al centro, che disegnavano una spessa riga scura su quel viso da porridge coagulato, e sembravano enfatizzare ulteriormente la frangia dritta dei suoi capelli biondi ossigenati. Era bassa, ma decisamente robusta, con bicipiti che facevano pensare a un Braccio di Ferro sotto steroidi. Forte. Le spalle che sfioravano la graziosa carta da parati a righe del corridoio.

Logan si strinse nelle spalle. «Lui ha detto che andava bene, no?»

«A me questa faccenda non piace». Aprì del tutto la porta, scostandosi, il viso corrucciato intorno a due grandi occhi verdi. Agitò l’indice davanti al naso dell’ispettore. «La avverto: se darà fastidio a Mr Mowat…».

Una voce sottile e tremante si fece sentire dall’interno: un misto dell’aristocratico inglese insegnato nelle scuole private e del tipico accento di Aberdeen, scricchiolante come ghiaia. «Chloe, è Logan?».

L’indice ammonitore picchiettò l’ispettore sul petto, mentre la voce della donna si abbassava a un ringhio cupo: «Io l’ho avvertita». Poi si sforzò di sorridere. Sarebbe stato carino affermare che quel sorriso era in grado di trasformarle il viso, ma purtroppo non era così. «È appena arrivato, Mr Mowat».

«Be’, non startene lì impalata, fallo entrare».

La stanza doveva misurare almeno nove metri di lunghezza. Una vetrata che prendeva un’intera parete dava su un giardino immerso nell’oscurità, con qualche cespuglio o albero illuminato da fari colorati. Wee Hamish Mowat premette in avanti la leva sul bracciolo della propria sedia a rotelle e si spostò sull’enorme tappeto indiano che copriva il pavimento. La sua pelle cerea era punteggiata di macchie senili, e sembrava troppa per la sua struttura scheletrica, mentre i capelli erano così sottili da rivelare per intero la pelle del cranio al di sotto delle rade ciocche grigie. Una flebo era agganciata alla sedia, e il sottile tubicino di plastica spariva dietro il polso. Ondeggiò, quando l’uomo tese una mano tremante.

Logan la strinse con attenzione. Era molto calda, come se qualcosa gli bruciasse violentemente sotto la pelle. «Hamish, come stai?»

«Come un cane fottuto. E tu?»

«Sono sulla buona strada per raggiungerti».

Il vecchio annuì, facendo tremare le pieghe di pelle che gli pendevano sotto il mento. Poi prese un fazzoletto da una tasca del cardigan grigio che indossava e si asciugò gli angoli della bocca. «Sei in servizio, o accetti un bicchierino?». Accennò a una grande vetrina piena di bottiglie. «Chloe, sii gentile e prendi quella bottiglia di Dalmore… no, l’altra: l’Astrum. Sì, quella».

L’infermiera la posò senza molta grazia sul tavolino e lanciò un altro sguardo torvo a Logan. «È tardi, e dovrebbe già essere a letto, Mr Mowat».

Wee Hamish le sorrise. «Vai pure, cara, ti chiamerò se ne avrò bisogno».

«Ma Mr Mowat, io…».

«Chloe». Un’ombra dell’acciaio di un tempo gli indurì il tono. «Ho detto che puoi andare».

Lei annuì. Sbuffò vagamente verso Logan, poi si girò e uscì dalla stanza, sbattendo quasi la porta alle proprie spalle.

Wee Hamish scosse il capo. «La figlia piccola di mio cugino Tam. Be’, io la chiamo “piccola”… Comunque, è una persona di cuore».

Logan prese due tumbler di cristallo dalla vetrinetta. «Non starai parlando di Tam “Grand’uomo” Slessor, vero?»

«Gli ho promesso che mi sarei preso cura di lei, quando è stato beccato per quel container di sigarette contraffatte». Wee Hamish armeggiò con il tappo della bottiglia di whisky. «Se vuoi dell’acqua, ce n’è una bottiglia in frigorifero».

«Allora, come se la sta cavando Tam Grand’uomo, di questi tempi?»

«Non troppo bene: l’abbiamo seppellito un mese fa». Sospirò. «Senti, puoi svitare questo tappo? Le mie dita…».

Logan lo accontentò. «Sai nulla del cadavere che abbiamo trovato nei pressi di Thainstone, oggi?». Versò un bel po’ di liquido ambrato in un bicchiere, e appena due dita nell’altro, una dose che non avrebbe dato problemi per guidare, in seguito. E passò il bicchiere più pieno a Wee Hamish.

«Grazie». L’uomo sollevò il tumbler, mentre il whisky all’interno tremolava come la sua mano. «Alla nostra».

Logan fece tintinnare il proprio bicchiere contro quello del vecchio. «Chi è uguale a noi?», replicò, secondo un vecchio brindisi scozzese.

La risposta fu seguita da un sospiro. «Ben pochi… e sono tutti morti», concluse Wee Hamish, come voleva la formula tradizionale. Prese un sorso. «Maschio non identificato, incatenato a un palo e… credo che il termine giusto sia “incravattato”».

«Pensiamo che sia un’esecuzione legata al traffico di droga».

«Hmm… Che ne pensi del whisky? Invecchiato quarant’anni, quasi millecinquecento sterline a bottiglia». Un lieve sorriso sollevò gli angoli delle sue pallide labbra. «Non te la puoi portare dietro».

Logan ne prese un sorso. Lo fece circolare in bocca fino a far intorpidire le gengive e a sentire soltanto sapore di chiodi di garofano, noce moscata e caramello bruciato. «Sta per scoppiare un’altra guerra tra gang?»

«Ci ho pensato su parecchio. Be’, del resto è normale, no? Quando arriverà il mio momento? Quale sarà l’eredità che lascerò? Cosa mi lascerò alle spalle, dopo la morte?»

«Dobbiamo fare in modo di fermarla, prima che peggiori».

«Non mi fraintendere, Logan: non mi vergogno di ciò che ho fatto, o di quello che ho fatto fare ad altri, ma… voglio… qualcosa. Ho fatto istituire ai miei avvocati delle borse di studio all’Aberdeen University e all’rgu, ho aiutato tanti ragazzi a diventare medici e infermieri, ho sponsorizzato programmi di vaccinazione nel Terzo Mondo, pagato per la costruzione di pozzi e per l’installazione di zanzariere negli orfanotrofi… ma non mi sento diverso».

Sorseggiò cautamente il whisky. Poi aggrottò la fronte, alzando lo sguardo verso il soffitto. «Forse dovrei tentare con dei grandi lavori pubblici? Per esempio il progetto di Ian Wood per gli Union Terrace Gardens, oppure quel Trump e i suoi campi da golf? Potrei lasciare alla città qualcosa per cui essere ricordato…». Sogghignò. «A parte le storie dell’orrore che si raccontano i tuoi colleghi».

«Sai chi è stato? Puoi scoprirlo? Perché non appena i media fiuteranno l’opportunità, questa storia sarà su tutti i notiziari e i giornali».

Wee Hamish lanciò uno sguardo all’ampio giardino. O forse stava fissando il proprio riflesso nella vetrata. Difficile a dirsi. «A dire il vero, Logan, preferirei non concentrarmi su quel lato degli affari. Una volta conoscevo quel genere di operazioni dall’interno, ma… be’, mi stanco molto più di un tempo, ormai». Si strinse nelle spalle, che si sollevarono, ossute, al di sotto del cardigan. «È Reuben che si occupa del nostro ramo farmaceutico, al momento. Come se si occupasse di chissà quante cose…».

Silenzio.

«Logan, tu lo sai che per me Reuben è come un figlio, che Dio benedica quella violenta testa calda, ma è soltanto un soldatino, un esecutore. Non sarà mai un capo». Prese un altro sorso tremante di whisky. «Se lo lascerò al comando, scoppierà una guerra».

«Non sarò io a prendere il suo posto». Logan posò il bicchiere sul tavolino.

«Lo so, lo so. Ma se non posso lasciare gli affari in mano a Reuben, che altro dovrei fare? Tu non ne vuoi sapere, Reuben non è all’altezza; dovrò forse vendere tutto a Malcolm McLennan?»

«Malk la Scure è già abbastanza pericoloso senza donargli anche Aberdeen su un piatto d’argento. Ha già il controllo di tutti i territori a sud di Dundee».

La sedia a rotelle emise dei flebili pigolii, poi arretrò di qualche metro, prima di ruotare su se stessa per mettersi davanti a Logan. Wee Hamish non sorrideva più, e un cipiglio severo aveva scavato colline e vallate sulla pallida pelle della sua fronte. «Mi impegnerò a scoprire chi è il responsabile di quell’esecuzione sommaria. E non preoccuparti, se è stato uno dei miei uomini, mi assicurerò che riceva… una sanzione disciplinare. Non è questa l’eredità che voglio lasciare».

All’esterno, la Punto di quinta mano di Logan era illuminata da una lampada di sicurezza. Un uomo enorme era appoggiato al cofano, con le braccia simili a tronchi conserte sull’ampio petto. Il tre pezzi che indossava sembrava nuovo di zecca, con il gilet teso sul suo vasto addome. Le scarpe erano nere e scintillanti. Il volto mostrava un mosaico di cicatrici e grasso, uniti da una barba brizzolata. Il naso era così massacrato e schiacciato da far ritenere un miracolo che fosse ancora lì.

Logan gli rivolse un cenno del capo. «Reuben».

Non ci fu risposta.

Okay… l’ispettore pescò le chiavi da una tasca. «Pensavo fossi più un tipo da tuta e stivali con la punta di metallo, a dire il vero».

Reuben si limitò a fissarlo. Poi, lentamente, si scostò dal cofano.

Le sospensioni della Punto si sollevarono di quasi dieci centimetri.

Logan aprì le spalle e sollevò il mento.

«Avanti, sputa il rospo».

Ma l’uomo si voltò e si allontanò nel buio, facendo scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe. Non disse una sola parola.

L’ispettore restò immobile finché non lo vide sparire, poi scivolò al posto di guida. Il mondo era pieno di matti fottuti.

Le finestre della roulotte accanto brillavano di una chiara luce giallastra nell’oscurità, e Logan scese dalla Punto, mentre il motore ancora borbottava, spezzando il silenzio. Dall’altra parte del fiume Don, le luci del grosso supermercato Tesco scintillavano attraverso gli alberi.

Un rumore, alle sue spalle…

Si voltò di scatto, con le mani già chiuse a pugno.

Niente.

Il cimitero di Grove era una massa di sagome scure, che risalivano lungo la collina fino alla ferrovia e alla strada a due corsie sulla sua sommità. Le prime tre file di lapidi si vedevano appena, alla luce arancione dei lampioni. Subito dopo, c’erano soltanto il buio e il silenzio. Si sentiva unicamente il brusio soffocato del traffico notturno intorno alla rotonda di Haudagain.

«C’è nessuno?».

Resta immobile, trattieni il respiro, ascolta…

Niente, era assolutamente solo. Il che era un bene: nessuno l’aveva visto comportarsi come il protagonista di un film dell’orrore di infima categoria.

Idiota.

Logan trovò le chiavi di casa e… si fermò. Un altro mucchietto d’ossa era appeso alla maniglia della porta. Altri ossicini di pollo, legati a un nastro su cui spiccavano macchie grigio-verdastre sotto la fredda luce al neon.

«Molto divertente». Sfilò il nastro dalla maniglia e lo gettò tra i cespugli che separavano il minuscolo parcheggio delle roulotte dall’argine del fiume. «Piccoli bastardi».

Solo perché lo stabilimento della Grampian Country Chickens si trovava dall’altra parte della strada, non significava per forza che qualcuno dovesse approfittarne per fare dei macabri scherzi.