capitolo 33

«Gliel’ho detto: non voglio violare il…».

«Il segreto professionale. Non può cambiare il disco, dottore? Questo qui è diventato decisamente noioso». Se la Steel si fosse allungata ancora un po’ sulla sedia, sarebbe sparita sotto il tavolo.

Dall’altra parte, inquadrato in pieno dalla telecamera montata sulla parete della sala interrogatori, il dottor Marks alzò il mento, con aria infastidita. Il livido che aveva sulla guancia stava diventando sempre più scuro e ormai tendeva al violetto, dando un minimo di vitalità ai suoi lineamenti da salsiccia. «Se non le piace la risposta, smetta di farmi le stesse domande».

Logan aprì il fascicolo di fotografie dell’ispettore Leith e posò sul tavolo un primo piano del cranio devastato dal fuoco di Roy Forman. Vi sistemò accanto un’altra foto. E poi una terza in cui la gomma stava ancora bruciando. «Agnes Garfield ha fatto questo».

Lo psicologo si rannicchiò sulla sedia, guardando ovunque tranne che in direzione delle foto. «Non capisco dove lei voglia arrivare. Pensa davvero che io possa dare un calcio alla mia etica professionale soltanto perché mi mostra certe foto? Crede sul serio che sia arrivato dove sono senza riconoscere un plateale tentativo di manipolazione, quando ne vedo uno?».

La Steel sbuffò leggermente, per poi puntargli contro un indice accusatore. «Di sicuro riconoscerà la punta del mio stivale, quando la vedrà. Sì, perché le spunterà dalla bocca dopo che gliel’avrò infilata nel culo».

Il dottor Marks si sfilò gli occhiali dalla montatura d’oro e serrò il setto nasale tra pollice e indice. «Davvero: se vuole ricorrere alle minacce, almeno cerchi di farlo in un modo che funzioni con la persona che sta minacciando. Finora, non ha fatto altro che rivelare una fissazione anale ai limiti del maniacale».

«Io non…».

«“Culo” di qua e “culo” di là. E sarei io quello che deve cambiare il disco? Poi ci sono tutte le minacce a base di “scroto”: lo userà come borsetta; lo riempirà di api infuriate per poi cucirmelo sull’ano; ci cucinerà dentro il brodo; me lo farà indossare come maschera…».

«Laz, fai vedere al nostro caro dottore le foto di Anthony Chung».

Logan aprì l’altro fascicolo.

Il dottor Marks si piegò in avanti, con una mano posata sul vago accenno di mento che si ritrovava sul viso. «Non è mai andata molto d’accordo con suo padre, vero, commissario? Le è sempre sembrato che nulla di quello che faceva fosse abbastanza per lui. Aveva forse dei problemi ad accettare la sua sessualità? È andata così, vero? Suo padre ha sempre sperato che fosse soltanto una fase che sarebbe passata, prima o poi».

La prima foto di Anthony Chung lo mostrava sdraiato sul pavimento della cucina, circondato dal cerchio magico tracciato da Agnes Garfield, con la pelle coperta di muffa e gli occhi ormai ridotti a due fessure vuote. Logan la posò sul tavolo. «Sarebbe morto dissanguato, ma lei gli ha passato una corda intorno al collo e l’ha girata fino a strangolarlo».

«Deve essere difficile mantenere questo ruolo: l’atteggiamento, le imprecazioni, quel continuo grattarsi… Lei sembra impersonare uno stereotipo maschile. Vuole dimostrare di essere più maschio dei maschi con cui deve lavorare. Immagino che si consideri lei stessa un po’ una cacciatrice di donne, vero? E cerca sempre di mettersi in competizione con…».

La Steel fulminò lo psicologo con lo sguardo. «Ti ci ficco uno scopino del cesso, nel culo, stronzetto senza mento».

Ah, be’, questo era sicuramente d’aiuto.

Logan posò la successiva foto di Anthony Chung accanto alla prima. «Dottor Marks, Agnes Garfield è probabilmente un pericolo per se stessa, ma di sicuro lo è per le altre persone».

Lo psicologo tornò a inforcare gli occhiali. «Suo padre voleva un figlio maschio, e lei ha pensato che questo era l’unico modo per ottenere la sua approvazione. Quindi ha costruito questo personaggio volgare intorno ai desideri egoistici di un uomo ormai defunto. Lui le ha mai…».

La Steel sbatté una mano sul pianale del tavolo. «lascia mio padre fuori dalla questione e rispondi alle fottute domande!».

L’uomo sospirò. «Non posso violare il segreto professionale. Neanche con un mandato. E perfino se cercheranno di trascinarmi davanti a un tribunale. Chi viene da me per farsi curare deve essere certo di potermi rivelare i propri più oscuri pensieri, desideri e segreti. Se non possono farlo, io non sarò in grado di aiutarli».

Logan posò la terza foto, un primo piano di Anthony Chung sul tavolo operatorio dell’obitorio, con il torace aperto e svuotato. «Dov’è Agnes Garfield?».

Il dottor Marks si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia, fissando la Steel da sopra gli occhiali, e mantenendo un tono di voce basso e pacato. Calmante. «Deve essere stato molto difficile per lei, dover essere sempre all’altezza di certe aspettative. Ma non è troppo tardi per essere la vera se stessa, invece di questa… proiezione di sé che è diventata. Sarei felice di aiutarla, davvero». L’ombra di un sorriso fece la sua comparsa su quel volto da salsiccia. «Le lascerei un mio biglietto da visita, ma me li hanno confiscati quando mi hanno fatto consegnare la cintura e i lacci delle scarpe. Tuttavia, voglio farle sapere che può stare meglio».

La Steel lo fissò dritto negli occhi. «E tu puoi farti fottere».

Il secondino scrisse il nome dr richard marks sulla targhetta accanto alla porta della cella numero otto. Poi aggrottò la fronte, sorrise, e la indicò. «Effettivamente, Richard “Dick” Marks... con un nome del genere non poteva non venire fuori un idiota…[3]».

«Assicurati soltanto che abbia dei vicini molto rumorosi, stanotte, okay? Qualcuno a cui piaccia cantare da una parte, e qualcun altro con la sindrome di Tourette dall’altra».

«Farò del mio meglio».

La Steel era appena all’esterno della porta sul retro, a fumare come una forsennata e a fissare cupamente la pioggia. Rimbalzava sui cofani sporchi delle macchine di pattuglia, scintillando contro le luci di sicurezza del parcheggio posteriore. «È già caduto dalle scale?»

«Ci sarà un’altra vittima».

«Piccolo bastardo. Da dove le prende tutte quelle stronzate psicologiche, poi? Ha sbagliato tutto, con me…». Prese un altro tiro profondo, facendo tremare la sigaretta tra le sue labbra. «È lui quello che ha problemi!».

«Stacey Gourdon. Anthony Chung andava a letto con lei, tradendo Agnes. Nessuno l’ha più vista da venerdì sera».

«Proprio quello di cui abbiamo bisogno. L’ufficio stampa sta già ricevendo telefonate riguardo a Chung e al suo cerchio magico. Qualche stronzo ha parlato con i giornalisti».

Fantastico. Come se non fosse tutto già abbastanza complicato. «Sanno che è lui?»

«Lo sapranno presto: il commissario capo terrà una conferenza stampa alle otto. E ospiterà i genitori di Anthony, in modo che possano dire al mondo quanto siano preoccupati per Agnes e quanto vorrebbero che tornasse a casa».

«Non è certo per lei che sono preoccupato».

Una coppia di agenti risalì la rampa posteriore, con la pioggia che gocciolava dai bordi dei berretti. Non aveva senso affrettarsi: probabilmente non potevano inzupparsi più di così.

Con un ultimo sbuffo di fumo, la Steel lanciò il mozzicone della sigaretta sotto l’acquazzone. Rimbalzò sulla Bentley del commissario capo, lanciando scintille contro la vernice. «E, per la cronaca: a me non frega un cazzo di niente di quello che pensava mio padre».

Qualcuno bussò alla porta dell’ufficio, poi la Chalmers si fece strada all’interno. «Capo?».

Logan firmò l’ultimo modulo e lo fece scivolare nel contenitore delle pratiche evase. Alleluia, dannazione. «Dove sei stata?»

«Ho seguito alcune piste del caso della Garfield». Si strinse nelle spalle, rivolgendogli un mezzo sorriso. «Nient’altro che vicoli ciechi, purtroppo. Ma volevo chiederle se…».

«Se non è terribilmente urgente: torna a casa». Si alzò, si fermò per un attimo e sciolse i muscoli del collo piegando la testa da un lato e poi dall’altro. Una vertebra cervicale schioccò e scricchiolò come una manciata di ghiaia.

«Vorrei offrirmi volontaria per quel lavoro alla mensa dei poveri».

«Non ha niente a che fare con me: il caso lo sta seguendo l’ispettore Bell». Tornò a sedersi. «A che punto siamo con il gsm

«Ancora niente. Mi sono messa in contatto con le loro compagnie telefoniche, ma nessuno dei due ha più usato il cellulare nell’ultima settimana. Niente chiamate in uscita né messaggi di testo».

Logan fece ondeggiare la sedia lateralmente, fissando il soffitto. «Quindi non hanno usato il cellulare per una settimana, eppure Agnes Garfield riesce comunque a mettersi in contatto con il suo terapista…».

«Probabilmente ha comprato una nuova sim ricaricabile. Scommetto che però il dottor Marks ha il suo numero». Si strinse nelle spalle. «Se solo riuscissimo a farlo parlare».

Dov’erano finiti i bei vecchi tempi, quando si potevano picchiare i sospetti sulle gambe con un manganello di gomma finché non confessavano? Comunque, con un po’ di fortuna Goulding aveva detto la verità e una notte in cella circondato da idioti ubriachi avrebbe spezzato la resistenza del dottor Marks come un biscotto stantio. «Torna a casa. Riposati un po’».

«Ma, capo, la mensa dei poveri è…».

«Non aprirà fino alle nove. Hai almeno un’ora e mezza. Di’ all’ispettore Bell che ti ho ordinato di aiutarlo fino a mezzanotte e non oltre. Voglio che arrivi puntuale, domattina. E, a proposito…». Prese dalla scrivania il libro delle accuse rubato da Agnes Garfield, e subito dopo il rapporto della Chalmers su quello che conteneva. «Porterò entrambi a casa per leggerli, stanotte. La prossima volta, assicurati di consegnarmi personalmente ciò che vuoi che legga».

«Sì, capo». La Chalmers sorrise, mostrando quei suoi piccoli denti appuntiti. «Grazie, capo».

«Oh, e per quel lavoro alla mensa dei poveri: non pensare neanche lontanamente di poter chiedere gli straordinari, okay?».

Nel corridoio, Logan chiuse a chiave la porta dell’ufficio. Poi chiuse gli occhi. Appoggiò la fronte contro la fredda superficie di legno. A casa… Le otto meno un quarto: aveva quarantacinque minuti per tornare alla roulotte e mettere le lasagne in forno.

Sentì il telefono ronzare in tasca: un messaggio di testo.

Vuoi che prenda del vino, o altro?

Logan digitò una rapida risposta, poi si bloccò.

Una voce alle sue spalle: «Capo?».

Fece scivolare di nuovo il telefono in tasca. «Rennie, a meno che non ti stia andando a fuoco la testa, non mi interessa».

«Ho una cosa per lei».

Probabilmente erano altre lamentele. Sfilò la chiave dalla serratura e se la mise in tasca. «Pensavo che fossi tornato al turno di giorno, no?»

«Ne sarà davvero contento…».

Logan si girò, appoggiandosi di spalle alla porta. «Giuro su Dio che se non è una cosa importante, ti manderò in orbita i testicoli con una ginocchiata. D’accordo?».

Rennie sogghignò. «Sa che la Chalmers stava cercando Stacey Gourdon? Be’, indovini un po’ chi ho trovato io?». Ammiccò come Braccio di Ferro. «Avanti, scommetto che non ci riuscirà mai…».

Le celle risuonavano di rumori che si sarebbero quasi potuti definire una canzone. Sempre che non si badasse troppo alle parole, alla melodia o alle note tutt’altro che intonate.

Il secondino Kathy aprì la strada verso il blocco in cui erano detenute le donne. «Non ho ancora trovato nessuno con la sindrome di Tourette, ma la notte è giovane».

Si fermò all’esterno della cella in fondo al corridoio. Poi aprì la finestrella sulla porta. «Stacey Gourdon: disturbo della quiete pubblica. Scendendo nei dettagli, girava ubriaca per Belmont Street alle tre del pomeriggio, con il vestito tirato su fino alle ascelle e senza mutande, urlando agli sconosciuti di “assaggiare l’arcobaleno ai gusti di frutta”[4], sue parole testuali. Quando sono arrivati degli agenti, ha cercato di pugnalarli con i tacchi a spillo».

Che classe.

Rennie accennò con il pollice alla porta della cella. «Visto? Che le avevo detto?».

Logan si fece avanti e lanciò un’occhiata all’interno.

Una giovane donna era seduta sul bordo del materasso di plastica blu, aggrappata alla branda e con lo sguardo fisso contro la parete di fronte, la bocca spalancata e le palpebre che sbattevano al rallentatore. Il corto vestito nero che indossava era tirato su da un lato, e le sue ginocchia erano sbucciate e coperte di croste. Sulla spalla nuda, dei lividi creavano un tatuaggio violaceo. I capelli corti e neri si drizzavano in ogni direzione, dandole l’aria di un folletto punk.

Non era morta, dunque.

Logan bussò sulla porta di metallo. «Stacey? Ce la fai a rispondere a un paio di domande?».

La sua voce sembrava provenire dal fondo di un pozzo. «Non sono stata io».

«A fare cosa?»

«Qualunque cosa di cui vogliate accusarmi. Ecco cos’è che non sono stata io a fare».

«Anthony Chung».

Lei si girò a guardare la finestrella. Il mascara e il rossetto erano sbavati a destra, come se la sua testa avesse qualche problema di sfocatura. «Quello sì, me lo sono fatto».

Stacey Gourdon era seduta con le ginocchia raccolte al petto, e tormentava con le unghie le croste delle sbucciature. «Tutte queste formalità sono così antiquate, non trova? Cosa è successo alla cara vecchia stanza piena di fumo, con una singola lampadina appesa al soffitto? A volte c’è un senso di sicurezza nei vecchi cliché, non pensa anche lei?».

L’impresa di manutenzione dell’edificio aveva imbiancato di recente le pareti della sala interrogatori numero due. Era stato un po’ come mettere un cerotto su un tumore.

Logan sospirò. «Per l’ultima volta: no, non puoi avere una sigaretta».

«Ma posso avere un avvocato».

«Sì, se ne vuoi uno. Ma non mi interessa affatto di te, io voglio sapere di Anthony Chung e Agnes Garfield».

«Ah…». La bocca di Stacey si spalancò, come se avesse appena inghiottito qualcosa di amaro. «Sono così complicati. Una bella coppia, ma così… totalmente…». Smise di grattarsi le croste e portò un indice alla tempia, girandolo un paio di volte.

«Sai che sono scomparsi?»

«Non mi sta facendo la domanda giusta».

Okay… «E quale sarebbe la domanda giusta?»

«So dove sono adesso?».

Logan si appoggiò allo schienale della sedia. «E lo sai?»

«No». La ragazza tornò a tormentarsi le ginocchia. «Prossima domanda».

«Li hai più sentiti?».

Un pezzetto di crosta marrone venne via, mostrando la pelle rosea e lucida al di sotto. Un puntino rosso affiorò in superficie. «Anthony ovviamente trattava la povera Agnes in un modo disgustoso. Lei era ossessionata da lui e lui la teneva in pugno. E sa cosa? Lei non era poi così innocente». Stacey si mise in bocca il pezzo di crosta appena venuto via dalla ferita e cominciò a masticare. «E ora, la sua prossima domanda sarà: “Agnes sapeva che io mi portavo a letto il suo amato Anthony?”, e la risposta è: certo che lo sapeva. È stato lui a dirglielo».

«Glielo ha detto lui?»

«Oh, e ha fatto più di questo: ha organizzato una cosa a tre. Io, lui e la feroce, piccola Agnes». Stacey sorrise a Logan, un lungo e lento sorriso. «Magari potrebbe non crederci ora che mi vede così, ma mi metto in tiro, di solito».

«E ad Agnes stava bene?»

«Be’, non che le piacesse molto fare sesso con un’altra ragazza, ma ha fatto del suo meglio. Per lui. E aveva davvero un corpicino favoloso…». Stacey sospirò, per poi ficcarsi un’altra crosta in bocca. «Ci siamo visti ogni due settimane, dopo quella volta, finché Anthony non ha perso interesse. Lui non fa che passare da una cosa all’altra, come una farfallina americana con il disturbo da deficit di attenzione».

Logan aggrottò la fronte. Okay, al momento Stacey sembrava aver dormito in una latrina e puzzava come il pavimento di un pub dopo una notte di bagordi, ma sotto a quell’odore di alcol stantio, al trucco sbavato, ai capelli arruffati e alle ginocchia sbucciate probabilmente era davvero una ragazza attraente.

«Agnes lo ha fatto per compiacere Anthony Chung, ma a te cosa ne veniva?».

Un sogghigno divertito le illuminò il volto. «Ma caro, lui ha l’erba più buona che io abbia mai fumato. E poi mio padre si incazzava a morte per il fatto che mi scopavo un cinese».

Okay, forse non così attraente.

«Be’, tuo padre può stare tranquillo: Anthony Chung è morto».

«Ah…». Il sorriso le svanì all’istante dal volto. «In quel caso, credo proprio che comunque chiamerò l’avvocato».

L’ispettore Bell si fermò in mezzo al corridoio. Serrò la presa sul fascicolo che teneva sotto al braccio e strinse gli occhi. «Che ci fai tu qui?»

«Ciao anche a te». Logan chiuse a chiave la porta dell’ufficio. Di nuovo. Magari la seconda volta era quella buona.

«Non c’è bisogno che mi controlli, sono perfettamente in grado di organizzare una semplice operazione in una mensa di beneficenza. Ero ispettore ben prima che tu…».

«Sto andando a casa, d’accordo? Ho dovuto rinchiudere una tipa che andava a letto con Anthony Chung. E con Agnes Garfield».

Din-Don si avvicinò, con la grossa mano pelosa che armeggiava con il nodo della cravatta «Perché?»

«Perché non appena ha sentito che Anthony era morto, si è chiusa a riccio e ha preteso di chiamare l’avvocato. Non ti pare sospetto?»

«E pensi che questa tipa e Agnes siano entrambe coinvolte negli omicidi? Che abbiano ucciso insieme Anthony Chung e Roy Forman?».

Logan infilò le chiavi in tasca. «Oppure ci sta prendendo in giro, perché la cosa la eccita. In ogni caso, io me ne vado a casa».

Din-Don arretrò di un passo, lanciando uno sguardo nel corridoio, in direzione della zona di detenzione. «Pensi che dovrei tentare di interrogarla?»

«Puoi farlo, se vuoi, ma è…». Logan aggrottò la fronte. Un momento… il completo dell’ispettore Bell era immacolato, come se fosse appena stato stirato, con la camicia linda e inamidata. Anche le scarpe erano lucide come bottoni nuovi. E cos’era quell’odore? Annusò meglio: dopobarba. E Din-Don non metteva mai il dopobarba. «Che hai in mente?»

«Non c’è niente di male nel fare gioco di squadra».

«Già, ma tu ti stai comportando in modo fin troppo possessivo con questa storia della mensa dei poveri… una pista che ho trovato io, per la cronaca… e ora vuoi interrogare Stacey Gourdon, e sei vestito come se dovessi andare a un colloquio di lavoro e profumi come il cassetto della biancheria intima di una sgualdrina… Cos’è che hai sentito?».

Le guance rasate di fresco di Bell arrossirono violentemente. «Non vedo cosa ci sia di male nel…».

«Fare una buona impressione? Si tratta della Steel, vero? Stai puntando a quel posto da commissario».

«Adesso stai davvero…».

«Cosa ti ha detto il commissario capo? Stanno cercando di liberarsi di lei, vero? Pensano che non sia all’altezza della situazione e tu vuoi prendere il suo posto».

Din-Don alzò il mento, facendo sporgere un ciuffo di peluria scura dal colletto della camicia. «Non ti degnerò neanche di una risposta».

Logan lo fissò per un paio di secondi. «Okay, molto bene. Come vuoi. Non ha niente a che fare con me: io ho un appuntamento e me ne vado».

«Bene». L’altro si girò e si allontanò a passi pesanti lungo il corridoio, con le ampie spalle che si sollevavano a ritmo sotto alla camicia troppo stretta.

«Guardati le spalle, Din-Don. Diventa feroce se le si pestano i piedi».

L’ispettore Bell si fermò con una mano sul pomolo della porta. «Me ne ricorderò». Poi si allontanò.

Il cellulare di Logan vibrò nella sua tasca. Un altro messaggio di testo:

Dove 6? Non era alle 8:30?

A proposito…

Lui digitò rapidamente una risposta sulla piccola tastiera del telefono:

Sto arrivando. Ci vediamo tra poco.

Dopotutto, non era carino far aspettare una signora. Soprattutto non una che poteva prenderlo a calci nel sedere da Grampian a Strathclyde.