capitolo 40
«Come è possibile che non sia ancora arrivata?». Logan guardò fuori dal finestrino e fissò con rabbia gli sgraziati edifici a tre piani di Sandilands, mentre li oltrepassavano a bassa velocità. La facciata di quelli più vicini alla strada era stata recentemente ridipinta, ma non serviva a molto.
Rennie fece avanzare l’autopattuglia dietro a un autobus numero 17, suonando di tanto in tanto il clacson. «Perché è speciale e intelligente e non ha bisogno di venire al lavoro come tutti gli altri?»
«Oh, ma è…». Prese il cellulare, trovò il contatto nella rubrica e premette il pulsante di chiamata. Poi attese che squillasse.
«Quando questa faccenda sarà conclusa, credo che porterò Emma a Parigi per un weekend».
Logan aggrottò la fronte. «L’agente Sim?»
«No, non quella Emma, la mia. Perché mai dovrei portare a Parigi la Sim?»
«Perché sei un…».
Uno scatto, e la voce della Chalmers rispose alla chiamata. «Questa è la segreteria telefonica di Lorna Chalmers. Non posso rispondere in questo momento, ma potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico».
«Sono l’ispettore McRae. Quando mi hai detto che volevi partecipare al controllo della mensa dei poveri, non ricordo di averti concesso una mattinata libera! Porta subito le chiappe in ufficio, sergente». E attaccò.
Rennie fischiò tra i denti. «Oooh, qualcuno è nei guai».
«Non fare l’idiota».
Ma in cambio ottenne soltanto un sogghigno soddisfatto.
Il 17 si fermò sbuffando, con la freccia che lampeggiava mentre due signore di mezza età vestite come adolescenti ninfomani salivano a bordo.
Un nasale accento delle Highlands si fece sentire dalla radio dell’autopattuglia. «Charlie-6, qui Centrale, passo».
Rennie rispose alla chiamata. «Buongiorno, Jimmy».
«Ehi, amico, c’è l’ispettore McRae lì con te?».
Lui lanciò uno sguardo a Logan e domandò in labiale: “Posso dirgli che è qui?”.
Che idiota.
Logan infilò il cellulare in tasca. «Cosa vuoi, Jimmy?»
«Una persona ha chiamato e ha detto di aver identificato la sua testa d’argilla».
Lui prese il taccuino. «Hai un indirizzo da darmi?».
Rennie tirò su con il naso, arricciandolo, e poi si girò lentamente su se stesso. «È come se qualcuno stesse bruciando vecchi pannolini sporchi».
La casa era in fondo a una fila di tre cottage a schiera, serrati insieme sul limitare di un tratto di bosco su Kemnay Road. Bennachie si vedeva appena dietro ai fitti rami di pino, che proiettavano ombre scure e dense. Ci mancava soltanto una casetta di marzapane per far avere gli incubi ad Hansel e Gretel.
I due primi cottage mostravano una parabola satellitare e una copertura di ghiaia dove sarebbe dovuto essere il giardino, ma il terzo sfoggiava un arcobaleno di colori: fiori, cespugli e piante tracciavano disegni intricati intorno a un vialetto tortuoso, coperto di frammenti di corteccia.
Logan aprì il pesante cancello di legno e si fece strada sul sentiero costeggiato da piante dalle lunghe foglie appuntite, schiacciando sotto alle scarpe il crepitante tappeto di schegge marroni. Avrebbe dovuto portare delle molliche di pane da spargere alle sue spalle…
Rennie infilò le mani in tasca e lo seguì, fermandosi ad annusare i fiori lungo il cammino.
Il campanello risuonò all’interno della casa, un soffocato diiiiiiing-donnnnnnng, appena udibile attraverso la spessa porta di legno dell’ingresso.
Un’ape danzò da un fiore di digitale al successivo. Un piccione si mise a tubare. Rennie ondeggiò sui tacchi.
Logan provò a suonare di nuovo. «Sei sicuro che sapevano del nostro arrivo?»
«Sì».
Due minuti più tardi, la porta si socchiuse con un cigolio e un volto magro e pallido li fissò, con gli occhi ridotti a due sottilissime fessure. L’anziana donna non poteva essere più alta di un metro e trentacinque centimetri; i capelli grigi erano raccolti in uno chignon storto sulla testa, e il collo sembrava un deforme calzino imbottito. Sorrise, mostrando una dentatura perfetta e bianca. Il suo accento delle Highlands era così marcato e solido che ci si poteva andare a sbattere contro: «Posso aiutarvi?».
Logan controllò il taccuino. «Miss Mary Gray?».
Gli occhi della vecchia signora si strinsero ancora di più. «Siete del Municipio?»
«Polizia. Ha chiamato perché ha riconosciuto una nostra ricostruzione facciale».
«Oh, la testa! Sì, sì, certo, entrate pure, sono un po’ sorda quando non ho gli occhiali».
Logan sentiva il sudore gocciolargli lungo la nuca. Una malevola stufa elettrica brillava nel camino, trasformando la piccola stanza in una fornace. Il sole entrava dalla finestra del soggiorno, e due grossi gatti tigrati erano acquattati sul davanzale, con le orecchie dritte e puntate verso di lui.
Altri tre gatti se ne stavano pigramente di fronte alla stufa; due siamesi sul divano e uno sopra a una libreria piena di vecchi volumi rilegati in pelle, con i titoli a lettere dorate ormai sbiadite o del tutto cancellate. Un’urna di bronzo scintillava sulla cappa del camino, tra varie fotografie in bianco e nero di donne dal volto serio, racchiuse in pesanti cornici nere.
Dai rumori che venivano dalla porta aperta, la padrona di casa stava preparando un tè.
Un’altra anziana vecchietta russava beatamente in una poltrona accanto alla stufa, con la bocca aperta come una rosea e umida caverna e una coperta a scacchi a coprirle le gambe. Un gatto dal pelo rosso tigrato se ne stava raggomitolato sulle sue ginocchia; quando ebbe finito di leccarsi il didietro, fissò Logan con due scintillanti e sospettosi occhi di smeraldo.
Mary Gray tornò nella stanza. Rennie era dietro di lei, e portava un vassoio d’argento con tazze e piattini, un piatto pieno di dolci e una grossa teiera di porcellana. Si fermò al centro del soggiorno e si guardò intorno. «Ehm… dove…?».
Mary agitò una mano verso un gatto dal mantello tartarugato nero e marrone che se ne stava acquattato al centro di un tavolino. «Shipman! Avanti, gattaccio dispettoso, scendi da lì e fai posto a questo gentile giovanotto». Lo scacciò, e Rennie posò il vassoio dove fino a un attimo prima c’era il gatto.
«Miss Gray, ha detto che…».
«Vi prego, accomodatevi pure». L’anziana donna fece un largo sorriso. «Non fate caso a Sutcliffe e Chikatilo, la loro è tutta scena».
Logan spinse via uno dei siamesi e si sedette sul divano. Il gatto drizzò la coda e saltò giù per nascondersi sotto al tavolino. Rennie si accomodò all’altra estremità del divano, sistemandosi sul bordo per non disturbare il secondo gatto.
«Ha detto che aveva riconosciuto la nostra ricostruzione».
«Oh, sì». Spinse leggermente la spalla della donna addormentata. «Effie? Effie, vuoi una tazza di tè e una fetta di torta?».
La vecchietta smise di russare. «Eh? Che c’è?». La sua voce era lenta e impastata, la pronuncia indistinta per qualche dente mancante.
«Vuoi il tè e la torta, Effie?»
«Oh… è giovedì?».
Logan prese il manifesto dell’ufficio stampa e lo tese alla padrona di casa. «Non li abbiamo ancora appesi in giro».
Mary riempì cinque tazze di tè con la precisione di un neurochirurgo. «Fate voi per lo zucchero e il latte, prego». Poi si girò, inspirò profondamente e lanciò un urlo che avrebbe potuto sgretolare il cemento. «ina! ina, il tè è pronto!». Si voltò, prese il piatto di dolci e lo osservò con gli occhi socchiusi. Poi lo tese a Logan, prendendo in cambio il manifesto.
Torta Battenberg, focaccine e biscotti al burro. Aveva sempre avuto un debole per i biscotti al burro fatti in casa.
Ne prese uno, e le briciole gli si sparsero sulla camicia quando lo morse. «La riconosce?».
Gli occhi di Mary si strinsero al punto da far pensare che la sua faccia sarebbe implosa da un momento all’altro. «Non vedo niente, senza occhiali». Prese un nuovo respiro profondo. «ina!».
Un grosso gatto grigio a macchie nere saltò in braccio a Logan, lo fissò e gli si accomodò sulle ginocchia. Poi cominciò a fare le fusa, basse e profonde, facendo vibrare tutto il corpo.
Mary si illuminò. «Oh, ma guarda: a Lopez di solito non piacciono gli uomini, le sta facendo un vero onore».
«Ah, bene…». Il grosso corpo peloso del gatto gli trasmetteva altro calore attraverso i pantaloni, come una pelosa borsa dell’acqua calda.
«Non gli tocchi la pancia, però, o la graffierà». Tornò a riempirsi i polmoni d’aria. «ina! santo cielo!».
Una terza vecchietta entrò nella stanza, sistemandosi un cardigan azzurro chiaro sulle spalle. Doveva essere almeno dieci anni più anziana della sorella, con il cuoio capelluto pieno di macchie senili che si intravedeva chiaramente al di sotto dei capelli ormai radi. Aveva sul naso un paio di occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, legati intorno al collo da una catenina d’oro. «Sì, ho sentito, non sono mica sorda».
«Vuoi del tè?».
La nuova arrivata lanciò uno sguardo a Logan attraverso gli occhiali: le rendevano gli occhi enormi. «Non mi sembra affatto un agente di polizia».
Lui le offrì il distintivo, e l’anziana donna lo prese in una mano tremante, rattrappita e contorta dall’artrite.
«Ah. Quindi siete qui per quella storia della testa d’argilla».
Finalmente. «Sa chi è?»
«Oh, sì». Si tolse gli occhiali e li tese a Mary. «Vedi?».
La sorella li inforcò e sbatté le palpebre, osservando il manifesto che aveva in mano. «Oh, va molto meglio. Ora ci sento benissimo». Poi passò gli occhiali e la foto della ricostruzione facciale fatta dalla dottoressa Graham alla vecchia signora seduta nella poltrona nell’angolo. «Guarda, Effie, non ti sembra incredibile?»
«Ho avuto un’altra visione». Oltre la lente che lo ingrandiva, l’occhio sinistro di Effie era un mare rossastro, con l’iride chiara e acquosa.
«Mettiti la dentiera, Effie, nessuno capisce una parola di quello che dici».
Ina si avvicinò zoppicando alla libreria e ne trasse un album fotografico. Lo aprì, sorrise e passò una mano sulla pagina. «Mi servono gli occhiali».
Le furono restituiti dalla sorella. «Ecco…». Tornò indietro di un paio di pagine e poi posò l’album sul tavolino, accanto al vassoio del tè. «Prego».
Sulla pagina c’era la foto di una donna che li guardava, con una pettinatura anni Settanta e un paio di occhiali in stile anni Sessanta, i colori ormai sbiaditi e ridotti a pallide tonalità di giallo, arancio e marrone. Era identica alla ricostruzione di argilla. La dottoressa Graham era dannatamente brava.
Sotto a quel volto severo e solcato di rughe erano scritte le parole: una piacevole vacanza a lossiemouth, giugno 1978.
E ora la somiglianza era chiara: Ina, Effie e Mary erano sorelle.
«Era vostra madre».
«Oh, sì, Agnes Gray: la pecora nera della parrocchia. Era una vera agitatrice».
Agnes. Lo stesso nome della ragazza scappata di casa.
Effie posò la tazza sul piattino. «Qualcuno vuole sentire della mia visione oppure no?».
Ina si sistemò sul divano accanto a Logan. «Le visioni di Effie sono incredibilmente accurate».
«Come facevate a sapere che si trattava di lei? Questa foto non è stata ancora divulgata con i notiziari…».
«Oh, Mary ne ha sentito parlare alla radio e io ho dato un’occhiata su Internet. Facciamo quasi tutto online, ormai».
Effie si schiarì la gola. «Camminavo attraverso un campo dorato, verso un enorme cane che aveva dei coltelli al posto dei denti. Ho contato cinque foglie nella luce che riverberava, e cinque porte. Ho combattuto contro un fantasma per salvarmi l’anima, ma mi ha battuto. Mi ha legato e mi ha affogato nelle profondità bianche».
Un silenzio di tomba calò sulla stanza caldissima.
Che razza di idiozie…
Logan finì il suo biscotto. «Sapete dirmi dove era sepolta vostra madre?».
Ina gli batté una pacca leggera su un ginocchio. «Era una strega molto influente, sa? Agnes Gray era una potenza, in questa zona».
Mary annuì. «La gente veniva fin da Rhynie e Oldmeldrum per chiederle aiuto».
«Certo, ora le cose sono diverse». Ina staccò un pezzetto di marzapane dalla sua fetta di torta. «Internet è una risorsa meravigliosa: facciamo incantesimi per gente in Australia, in California e a Mosca».
Logan posò la tazza di tè. «Incantesimi…?».
Mary sollevò una mano, mentre l’altra sorella, Effie, tornava a scivolare nel sonno. «Non si preoccupi, noi usiamo i nostri poteri soltanto per fare del bene. E malediciamo soltanto la gente che se lo merita, non è così, Ina?»
«Oh, certo, siamo molto attente e responsabili. Saddam Hussein, per esempio, è stato maledetto da Effie».
Matte come cavalli.
«Ricordate dove era sepolta vostra madre?».
La striscia di marzapane fu arrotolata in una palla e inghiottita intera. «Ha riesumato nostra madre, vero? Quella ragazza, la Garfield».
«La conoscete?».
Ina rise, facendo fremere la pelle floscia sotto al mento. «Oh, la nostra piccola Agnes se la cava bene, non è così?».
Mary sospirò. «Un talento così grande per una persona tanto giovane. Ha letto tutto su nostra madre in biblioteca. Be’, da quando quell’orribile libro, Witchfire, è stato pubblicato, tutti vogliono sapere della nostra famiglia… Agnes era convinta che lei e nostra madre fossero spiritualmente collegate, perché avevano lo stesso nome. Quindi l’abbiamo presa sotto la nostra ala protettrice».
«Le abbiamo insegnato l’importanza delle erbe, i segreti del suolo consacrato e i poteri delle ossa».
«Vede, è per questo che non l’avete trovata. Quando una strega disseppelisce le ossa da un cimitero, queste possiedono un forte potere. E se le ossa di una persona normale sono già potenti, immagini quanto possono esserlo quelle di una strega».
«E nostra madre era una strega molto potente».
Pazze come cavalli pazzi.
Ma almeno questo spiegava perché Agnes Garfield avesse riesumato anche Nicholas Balfour. Se non si trovavano le ossa di una strega, uno spiritista vittoriano probabilmente era meglio di niente.
«Sapete dove si trova Agnes adesso?».
Ina smontò la sua fetta di torta in quattro quadrati colorati. «E poi ha imparato così in fretta. Le ossa, la terra, le erbe, capiva tutto. Ed è sempre stata così brava a fare dei lavoretti in casa e a prendere… le medicine per il glaucoma di Effie».
Santo cielo… Logan posò il piatto sul tavolino. «Sapete? È tutto molto interessante, ma quella ragazza ha accoltellato un mio amico, oggi, quindi, se non vi dispiace, rispondete a questa maledetta domanda. Dov’è adesso?».
Ina posò di nuovo una mano sul ginocchio di Logan e lo strinse leggermente. «Ci dispiace per il suo amico. Ma sono mesi che non vediamo Agnes Garfield. Non da quando abbiamo incontrato quel suo orribile ragazzo».
Mary sollevò il mento. «Abbiamo cercato di avvertirla. Effie ha avuto una visione in cui lui le faceva del male e la costringeva a fare cose terribili, mentre lei è una brava ragazza. Ma Agnes non ci ha ascoltato».
Un sospiro, poi gli occhi di Ina si spostarono verso l’urna sulla cappa del caminetto. «Al cuore non si comanda. E quando abbiamo cercato di farle capire quanto la influenzava negativamente, ci ha lasciato».
«E ora dobbiamo accontentarci delle ossa dei nostri piccoli». Mary prese in braccio un gatto grigio tigrato dal tappeto e lo strinse al petto. «Non è vero, Lopez?». Poi alzò lo sguardo su Rennie. «Oh, non si preoccupi, muoiono tutti per cause naturali. Non faremmo mai del male ai nostri piccoli amici pelosi, non è così, Lopez? No, certo che no».
Ina si alzò e si avvicinò all’urna sopra il focolare. La accarezzò con un dito contorto. «Come riusciremo a ottenere altro suolo consacrato, ora? I tassisti ti guardano sempre così male quando entri in macchina con una pala e gli dici: “Mi porti al più vicino cimitero”…».
Okay, era ora di andarsene da quel manicomio. «Dove era sepolta vostra madre?».
Mary riprese l’album fotografico e lo chiuse. «Nella tomba di famiglia, vicino a Kemnay. La chiesa è ormai abbandonata, probabilmente le erbacce hanno coperto tutto. Non usciamo spesso quanto dovremmo».
Ina si leccò le labbra, con la lingua che serpeggiava come se stesse assaggiando l’aria. «E ci riporterete le ossa di nostra madre, vero? In modo che possa tornare con noi, nel luogo a cui appartiene?».
Sì, certo… E dove sarebbe finita probabilmente in polvere, per essere venduta a idioti creduloni su Internet.
«Ho trovato la fossa!». Rennie era immerso fino alla vita tra le ortiche, con i gomiti all’altezza delle spalle e le mani protette da spessi guanti. «C’è una bara in fondo e tutto il resto. Sembra una roba uscita da una puntata di Buffy l’Ammazzavampiri».
Il cimitero era completamente coperto di erbacce: le lapidi erano state inghiottite da intrecci di rovi e foglie di felce, miste a ortiche e cespugli di oleandro. Piccoli paracaduti di tela di ragno vagavano nell’aria fredda, scintillando contro il cielo plumbeo.
Logan avanzò nell’erba alta, cercando di spazzolare via con le mani i peli di gatto attaccati ai pantaloni mentre camminava, seguendo il sentiero aperto da Rennie poco prima. «Ci sono segni di presenza recente?»
«No. L’erba sta cominciando a ricrescere sul terreno che Agnes aveva scavato. Se recupera ancora terriccio magico, lo sta facendo da un’altra parte». Prese un rametto di romice dalla giungla di erbacce intorno a loro e lo usò per toccare la buca. «Se è una così brava ragazza, come mai va in giro a uccidere le persone?»
«Brava ragazza?»
«Insomma, riforniva le care vecchiette di terriccio dei cimiteri, ossa e cannabis… La maggior parte dei ragazzi di oggi non lo farebbe».
Cannabis? E come…
Ma certo: le “medicine” per il glaucoma. Quindi Agnes spacciava davvero, dopotutto. E considerato lo stato di Nichole Fyfe e Morgan Mitchell, probabilmente stava aiutando anche loro.
Molto altruista. Non lo stupiva che Zander continuasse a offrirle una seconda possibilità.
Logan si girò e guardò verso i resti in rovina della chiesa. Tre pareti in piedi, niente tetto, qualche sacco nero della spazzatura, un vecchio frigorifero e un materasso ammuffito. Nessun luogo per accamparsi. E anche se Agnes avesse piantato una tenda da qualche parte nei dintorni, ci sarebbero rimasti dei sentieri in mezzo all’erba alta fino alla vita.
Non era lì.
Tanti saluti a quell’idea.
Tutti quei discorsi riguardo al terreno consacrato e alla magia delle ossa…
Mai ascoltare le vecchie signore sorde, per quanto deliziosi possano essere i loro biscotti.
Logan tornò verso l’autopattuglia, lasciando Rennie a districarsi dalle erbacce. «Chiama il Municipio. Quella tomba deve essere richiusa prima che qualche idiota ci finisca dentro e si rompa l’osso del collo».
Ci fu un breve grido, un fruscio e poi un tonfo sordo.
Logan si girò, ma non c’era traccia di Rennie. «Oh, per la miseria! Non dirmi che l’hai fatto».
«Ah… aiuto! Mi ha preso! Aaaaaaargh! Corra! Si salvi!». Poi Rennie sbucò fuori da un cespuglio di epilobio con un ghigno stampato su quello stupido viso e ciuffi bianchi su tutto il completo. «Ci ha creduto…».
Non era strano che la Steel lo perseguitasse.
Rennie accostò al lato della strada, ignorando le strisce pedonali. Causeway End era molto più affollata ora che quella mattina poco prima delle sette, con il traffico intenso che si muoveva lento intorno alla grossa rotatoria di Mounthooly come un lungo serpente di acciaio e vetro.
Logan si slacciò la cintura di sicurezza. «Di’ alla Chalmers che la voglio nel mio ufficio non appena torno all’ovile».
Rennie si staccò un altro ciuffo di epilobio dalla giacca e lo gettò sotto al sedile. Dove si attaccò prontamente ai suoi pantaloni. «Questa dannata roba è come il velcro».
«E poi dovresti dare un’occhiata a come se la sta cavando Guthrie con la fedina penale di Anthony Chung a San Francisco».
Un altro bioccolo bianco seguì gli altri. «Ma ha davvero importanza? Insomma, è morto e…».
«Lo dico io, quindi ha importanza, sì». Uscì dalla macchina e tornò a fare capolino all’interno, subito dopo. «Voglio i nomi di tutti quelli a cui era in qualche modo collegato, e se uno di loro ha messo piede in Scozia negli ultimi sei mesi».
L’espressione corrucciata di Rennie si trasformò in un sorriso. «Ah: alla fine quindi pensa che non sia stata Agnes a ucciderlo, ma uno dei suoi vecchi compagni di gang venuto a regolare i conti».
«Non essere idiota: è ovvio che è stata Agnes a ucciderlo. Voglio scoprire chi è stato a istigarla. Se il profilo di Goulding è giusto, lei ha bisogno di una personalità dominante che le dica cosa fare».
«Ah… ed è improbabile che qualcuno dei suoi amici avesse il fegato di mettersi contro Anthony Chung. Perfino Dan Fisher, con la sua cotta per lei, non avrebbe osato farlo. E l’ultima volta che ci ha provato, lei lo ha preso a ginocchiate nelle palle». Rennie si soffiò sulle unghie e le lucidò contro il risvolto della giacca pieno di ciuffi di epilobio. «Oh, sì: leggo i fascicoli dei casi, sa. È…».
Un clacson suonò infuriato dietro di loro: un grosso autoarticolato polveroso si fermò sibilando a un metro dall’autopattuglia, con il conducente che li salutava con il dito medio alzato.
Logan chiuse di scatto lo sportello e si spostò sul marciapiede.
Rennie tornò a immettersi nel traffico e l’autoarticolato lo seguì rombando.
Inseguire i vecchi soci di Anthony Chung era probabilmente una perdita di tempo, ma per lo meno non sarebbero stati con le mani in mano.
Logan si affrettò a raggiungere le strisce pedonali, poi attraversò la strada raggiungendo il garage Kwik Fit all’angolo che dava sulla Mounthooly.
Oltrepassò il basso muretto, passò tra due macchine parcheggiate nella sezione del rinnovo del tagliando… e si bloccò.
Un Transit sporco di fango era fermo sul piazzale, proprio davanti all’entrata. Una serie di ammaccature e graffi arrugginiti costellavano la vernice un tempo bianca. Era il furgone di Reuben.
Era il momento di girarsi e…
Un basso ringhio alle sue spalle lo fermò: «Entra nel furgone».
Merda…
«No. Non penso proprio».
Una grossa mano pelosa comparve alla sua sinistra, reggendo un cellulare. Sullo schermo c’era una piccola foto del volto incavato di Wee Hamish Mowat, sotto alle parole in linea.
Okay… prese il telefono. «Hamish?»
«Ah, Logan, sono lieto di sapere che stai bene, dopo la brutta storia di stamattina. Hai un minuto?».
In realtà, non lo aveva. Fece un passo avanti, poi si girò a fissare la montagna di muscoli e cicatrici che se ne stava lì in piedi nella sua spiegazzata tuta blu da meccanico, con un volto che somigliava a una roccia piena di crepe. «Qualcuno mi ha tagliato i tubi dei freni».
Una pausa. «Capisco. Questo è certamente uno sviluppo spiacevole, già. Molto spiacevole davvero. Ma ho bisogno che lo dimentichi per un attimo e vada con Reuben».
«Neanche per sogno».
«Logan, ricordi quando ti ho parlato delle piantagioni di cannabis e della violenza e dell’incertezza e della preoccupazione che stanno causando? Ecco, temo che questa piccola rivalità sia andata troppo oltre. E apprezzerei molto se tu potessi aiutare Reuben a sistemare le cose».
«Devi essere…».
«Ti do la mia parola che Reuben è lì soltanto per agevolarti nel tuo ruolo di rappresentante della legge, niente di più. Vogliamo tutti che questa insensata violenza abbia fine, giusto?»
«Agevolarmi».
Reuben gli rivolse un ghigno che tese le cicatrici che aveva sulle guance.
«Ho forse scelta?»
«Naturalmente sì, Logan. Tutti hanno sempre una scelta».
Reuben si fece avanti, riducendo la distanza finché non gli premette addosso il barile gonfio del suo stomaco. «Che ne dici?».
Logan entrò nel furgone.