capitolo 12
«…unnngh…». Logan si girò sulla schiena e restò disteso con un braccio sugli occhi. «Vattene…».
Il “ding-dong” del campanello continuava a risuonare nella roulotte.
Si sedette sul letto, lanciando uno sguardo all’orologio. Le sei del mattino… quindici minuti prima della sua sveglia. Dannazione, ma perché mai tutti…
Un momento: l’ultima volta che qualcuno aveva suonato il campanello di prima mattina, ci aveva guadagnato un pugno in faccia. Forse era uno dei “soci” di Reuben che veniva ad assicurarsi che lui non fosse nelle condizioni per denunciare nessuno, visto che stava sistemando un patio di cemento, da qualche parte a Elgin.
Uscì da sotto le coperte e posò i piedi sul ruvido tappeto, con una mano che si infilava nello spazio sotto al letto. Calzini sporchi. Una scatola da scarpe. Un secchio di plastica. E poi le sue dita si chiusero intorno al manico di legno di un’accetta.
Quella avrebbe dissuaso chiunque dal fare sciocchezze.
Sempre che quel qualcuno non avesse con sé un fucile…
Si infilò un paio di pantaloni, senza preoccuparsi di indossare le mutande o una camicia, e puntò verso la porta della casa mobile.
Si fermò di lato, appiattendosi contro la carta da parati a righe e premendo un orecchio contro la parete. Si mise ad ascoltare.
Niente.
Serrò le dita sul manico dell’accetta.
Okay.
Non era difficile immaginare qualcuno là fuori, intento a fissare lo spioncino, in attesa che si oscurasse mentre lui ci si fermava davanti e poi boom, una fucilata, la rosa di colpi che oltrepassava il legno e poi il suo petto. Un’altra alla testa, e tutto sarebbe finito. Quel qualcuno sarebbe sparito, confondendosi nel traffico del primo mattino.
La luce entrava dalla buca delle lettere. Quindi l’interno della roulotte era più buio rispetto all’esterno. Questo significava che non sarebbero passate ombre sullo spioncino.
Logan si avvicinò cautamente e diede un’occhiata fuori.
Non c’era nessuno sulla soglia. E neanche all’esterno. C’era solo la rotonda ancora mezza in ombra, mentre il sole cominciava a salire in un cielo di un azzurro chiarissimo. Qualche zanzara mattutina, sopraggiunta per un ritrovo amichevole prima della caccia, scintillava nel sole come una pagliuzza d’oro. Una gazza solitaria saltellava sul tetto della sua vecchia fiat Punto.
Prese un profondo respiro.
Girò la chiave nella toppa e aprì di scatto la porta, saltando fuori, brandendo l’accetta e digrignando i denti…
Nessuno.
La gazza si fermò sul cofano della Punto, con la testa piegata da un lato a fissarlo. Poi aprì le ali e volò verso l’albero più vicino, gracchiando come se stesse ridendo di lui.
Una piccola scatola di cartone era appoggiata sulla soglia, avvolta come una piccola mummia in nastro adesivo marrone.
Logan la spinse leggermente con il manico dell’accetta, ma non esplose né cominciò a ticchettare, così la recuperò e tornò dentro. La gazza restò dov’era, continuando a sghignazzare a modo suo.
Sbatté la porta per spaventarla, posò il pacchetto sul pianale della cucina e mise a bollire l’acqua per un tè. Le sei del mattino. Che razza di figlio di puttana suonava alla porta della gente e scappava alle sei del mattino?
Non c’era alcun indirizzo sul pacchetto, nessun dettaglio riguardo al mittente. Prese un coltello dallo scolapiatti e tagliò il nastro adesivo. All’interno, la scatola era piena di ritagli di giornale, il «Press & Journal», a quanto sembrava, e sopra ai ritagli, proprio al centro, c’era un altro mucchietto di ossa di pollo. Questa volta erano legate da quello che sembrava un mazzo di erbe aromatiche ormai avvizzite, morte e grigiastre.
Prese il mazzo dalla scatola e lo controllò, ma non c’era traccia di messaggi. Erano semplici erbe per preparare il brodo. Soppesò gli ossicini in mano. Dannati ragazzini. Pensavano che fosse divertente?
Dalla camera da letto, la sveglia cominciò a suonare, facendo riecheggiare fino a lui una vecchia e melensa canzone pop degli anni Ottanta.
Tazza di tè, doccia e poi via, verso una nuova fantastica giornata di lavoro. Dio, quanto era fortunato, eh? L’unica cosa che poteva migliorare la situazione era…
Il suo cellulare si aggiunse alle Bananarama in sottofondo. If I Only Had a Brain: Rennie.
Logan prese il telefono dal comodino e premette il pulsante di risposta. «Che c’è?»
«’Giorno, capo. Abbiamo arrestato l’altro amico del suo buon samaritano, quello che era riuscito a scappare dall’ospedale, ricorda? Nega tutto riguardo alla rapina alla gioielleria, ma la sua storia è perfettamente coerente con la versione degli altri, riguardo al tizio incravattato».
Il bagno era in uno stato pietoso: asciugamani sul pavimento, diversi rotoli di carta igienica finiti che cominciavano ad accumularsi intorno al water, un odore di muffa che proveniva dalla tendina della doccia, le piastrelle e lo specchio sopra al lavandino coperti di macchie di sapone e dentifricio. Una macchia di umidità che somigliava vagamente a un volto. Avrebbe dovuto davvero dare una pulita…
«Dannazione».
«Mi dispiace, capo, ma pensavo che lo sapessimo comunque, no?»
«Non stavo parlando con te…». Logan si piegò sul lavandino e osservò il volto devastato riflesso dallo specchio. Entrambi gli occhi erano infossati in occhiaie di un viola feroce. Fantastico.
«Comunque, ho pensato che volesse saperlo: Din-Don interrogherà Reuben, stamattina, non appena arriverà il suo avvocato. E non immaginerà mai chi viene a difenderlo».
Logan picchiettò lievemente con un dito la pelle gonfia e livida. Non faceva male, aveva semplicemente un aspetto orribile.
«Non sono in vena».
«Sid Sibilo».
Meraviglioso. Colpì con la fronte lo specchio sporco. «Quando?»
«Non lo so. L’agente di guardia alla cella ha detto che si è svegliato verso le cinque e ha inondato il pavimento di vomito; al momento ha un dopo sbronza epico, quindi dubito che Mr Moir-Farquharson si farà vedere in tutta la sua viscida presenza prima delle dieci».
Evviva il lunedì mattina.
In alto, il sole brucia come una fornace, scottando le persone lì sotto mentre portano avanti le loro miserabili vite. Ignare del fatto che delle cose camminino tra loro.
Una coppia ride in mezzo all’area pedonale sotto di lei, i due stretti tra loro come una pianta d’edera intorno al tronco di un albero. Ignorano chiunque li oltrepassi, e le luci scintillanti, il grigio e l’oscurità.
Laggiù: una donna con un bambino nel passeggino. Nessuno sa che è un angelo, perché non possono vederla. Pensano che sia la solita cicciona in tuta, che fuma una sigaretta e spinge il suo marmocchio urlante nel passeggino per andare a ritirare il sussidio sociale.
E laggiù: l’uomo in completo blu scuro con gli occhiali da sole, che infila una busta di Markies nella borsa di cuoio. Un’aura azzurra gli turbina intorno, mentre cerca di decidere chi divorerà oggi.
Nessuno la vede, tranne lei.
Entra nel reparto di intimo femminile. Manichini di plastica in mutande e reggiseno, bloccati in posa per le masse che li guardano. Alcuni prenderanno vita di notte, e andranno a caccia di topi e ratti, cuocendoli sulle tubature bollenti del riscaldamento prima di inghiottirli in un solo boccone.
Una donna anziana la oltrepassa, trascinandosi dietro sottili strisce di nebbia nerastra che sibila e crepita.
Rowan distoglie lo sguardo, prima di potersi voltare. Non è sicuro, qui. Per niente.
Giù per le scale mobili nelle viscere del negozio, dove le bestie pascolano nel reparto alimentare, piegate sui carrelli. Come torturatori addosso alle loro vittime.
Non deve guardarli negli occhi. Possono fiutare la paura, ma finché non ti guardano negli occhi, non possono sapere a chi appartiene.
Fa per prendere un sandwich… poi si ferma. Ne conta tre verso sinistra. Poi uno verso il basso, perché è lunedì. Sangue, filo e sego. Può andare.
Una delle bestie si ferma alle sue spalle, il respiro pesante contro il suo collo mentre sfiora con la zampa pelosa i sandwich che lei ha già toccato. Annusa l’aria. È affamata.
Lei si stringe il panino contro il petto e si abbassa sulle ginocchia, scivolando di lato e allontanandosi. Si guarda alle spalle in fondo al reparto dei surgelati, e la vede annusare le offerte sacrificali.
A destra, oltre le piccole foreste nei piccoli vasi. E poi altre statue di plastica, che indossano vestiti e cardigan.
Uscita. Uscita. uscita.
Una mano le si posa sulla spalla, facendola strillare.
Si gira di scatto, e un volto confuso la fissa di rimando: pelle come la notte, capelli come lana nera e riccia.
«Mi scusi, signorina, ma temo che abbia dimenticato di pagarlo».
Rowan abbassa lo sguardo sul sandwich. La busta di carta è schiacciata contro il suo petto, le strisce di maiale morto che sporgono fuori dal pane come lame. Poi torna a fissare quel volto gentile con gli occhi bellissimi, e la sua aura dorata. «Qualcuno mi sta inseguendo».
L’angelo che indossa l’uniforme della sicurezza si guarda alle spalle. «Che aspetto ha?»
«È un uomo in jeans e giacca di pelle, e ha i capelli lunghi…». Indica verso il reparto alimentare. È una menzogna, ma la verità gli farebbe soltanto del male: le bestie sono troppo forti. Rowan si fruga in tasca e ne tira fuori una crepitante banconota da cinque sterline, premendola nel palmo dell’angelo. «La prego, non gli faccia sapere che ero qui».
L’angelo annuisce, poi si volta verso le casse. «Le faccio avere il resto».
E non appena lui si allontana di un paio di passi, lei è già fuori, di corsa.
Logan oltrepassò la doppia porta della sala delle autopsie. I piccoli altoparlanti collegati al minuscolo stereo diffondevano la voce stonata di Jim Morrison che chiedeva a una bimba di dargli fuoco. Non molto appropriato.
La dottoressa Graham era appollaiata su uno sgabello e piegata sul tavolo operatorio in fondo alla stanza, mentre armeggiava con qualcosa che sembrava una scatola piena di pezzi di gomma blu. Un teschio era appoggiato su un vassoio di plastica bianca accanto a lei, insieme a un mucchio di libri aperti a mostrare fitte serie di grafici, numeri e tabelle.
Logan abbassò il volume dello stereo. «Tutta sola?».
La Graham alzò lo sguardo su di lui. «Miss Dalrymple mi ha fatto entrare. Va bene per lei, vero? Volevo procedere rapidamente con il lavoro».
Prese un taglierino da un angolo della scatola e tolse il cartoncino come la buccia di un’arancia, esponendo la “carne” di gomma blu al di sotto. «Il momento della verità…». Poi affondò le dita nel materiale e tirò, staccandolo da quello che si rivelò come un cranio giallo-biancastro. Lo sollevò, ripulendolo con il palmo della mano. «Perfetto».
«È la nostra vittima?».
L’antropologa posò il cranio ripulito su un piccolo piedistallo, inserendolo in un bastoncino che sporgeva dalla base. «Stampo di resina. La dottoressa McAllister non mi avrebbe mai permesso di usare quello vero per la ricostruzione facciale. Ha significato un po’ di lavoro in più, ma il lato positivo sta nel fatto che questi non sono più resti umani, quindi possiamo dimenticare tutta quella storia della supervisione da parte di un “medico iscritto all’albo con cinque anni di esperienza”… Come se mi divertissi ad aprire un cranio umano con un apriscatole, o ci volessi giocare a calcio, poi».
Logan si appoggiò alla fredda superficie di acciaio inossidabile. «Allora, qual è la diagnosi?»
«Be’, è sicuramente morto», sogghignò lei. Poi si schiarì la gola. «Mi scusi. Ho mappato la profondità dei tessuti e stabilito i marcatori, quindi non devo fare altro che applicarli, e potrò cominciare con il vero lavoro…». Una piccola ruga le comparve tra le sopracciglia. «Non ci ha messo sopra del ghiaccio, alla fine, vero?»
«Non ne avevo. E i bastoncini di pesce surgelato non hanno funzionato».
«No, be’, immagino». La Graham si avvicinò un piccolo vassoio di metallo su cui erano disposti dei dischetti di gomma chiara, come se avesse tagliato via le estremità posteriori di diverse matite; su ognuno c’era un numero in inchiostro nero. «Sa, dalle ossa possiamo capire quasi tutto di una persona: cosa mangiava, dove viveva, dove viveva ancora prima, la statura, il peso, il sesso, l’etnia…». Fece cadere una goccia di colla sul lato inferiore di uno dei dischi e lo posizionò esattamente al centro della fronte del teschio di resina.
«Cosa è successo al dottor Dempsey?»
«Si è molto risentito. E ha minacciato di denunciarmi».
«È stata lei a colpire per prima?».
La dottoressa si strinse nelle spalle. Il marcatore con il numero uno fu seguito dal numero due e dal numero tre. «Lui mi ha spinto».
Logan accennò alla scintillante sfera nera attaccata al soffitto sopra al tavolo operatorio centrale, simile alla telecamera di sicurezza di un negozio. «Gli dica che è tutto registrato».
«La sua vittima era un maschio bianco». I marcatori quattro, cinque e sei furono posizionati sull’arcata sopraorbitaria. «A dire il vero, cercava lo scontro da anni, da quando mi hanno mandato in Iraq al suo posto. Ha detto che doveva essere lui a tirare fuori i cadaveri dalle fosse comuni, non io…». Tornò a sedersi e piegò la testa di lato. «Azzurri, marroni o verdi?».
Un’alzata di spalle. «Azzurri?»
«Il marrone è più neutro». La dottoressa Graham prese dalla sua gigantesca borsa una scatola di legno, non più grande di un astuccio per matite. Quando la aprì, Logan si ritrovò a fissare tre paia di occhi di vetro. Lei recuperò quelli marroni, poi cominciò ad armeggiare con bastoncini di gomma e colla finché non furono attaccati al teschio. «Ecco, molto meglio».
Davvero? Sembrava uscito da un film horror di infima categoria.
«Non potete farlo al computer?»
«Come fanno in televisione?». I marcatori da sette a dieci erano leggermente più lunghi, e furono posizionati lungo le mandibole. «La ricostruzione facciale è insieme scienza e arte. Bisogna conoscere davvero le ossa. Un computer non ne sarebbe mai realmente in grado».
«Allora proceda». Logan pescò dalla tasca della giacca il mazzetto di erbe aromatiche che gli era stato lasciato sulla porta quella mattina e lo posò sul tavolo operatorio. Gli ossicini tintinnarono contro l’acciaio inossidabile. «Cosa può capire da un mucchietto di ossicini di pollo e da un mazzo di erba secca?».
Lei lanciò un’occhiata, poi posizionò altri due marcatori sul cranio. «Non sono ossa di pollo, sono falangi. Ossa delle dita. Sono umane». Un sorriso. «Ho superato l’esame?»
«Falangi?».
Un sospiro. «D’accordo, faremo tutto secondo il manuale…». Prese un blocco A4 a righe da sotto uno dei libri, scelse una pagina bianca e vi posizionò la mano sinistra, di piatto, disegnandone il contorno con una matita. Poi sciolse il mazzetto. «Questa…», sollevò uno degli ossicini, «è una falange prossimale del medio». Lo sistemò al posto giusto sulla sagoma incerta della mano che aveva disegnato. «Questa è intermedia… potrebbe essere quella dell’indice… a giudicare dalla crescita della superficie articolare distale… ma è impossibile dirlo con certezza senza poter fare un confronto con tutte le altre ossa». Anche quell’ossicino fu posizionato sulla mano. «E il fortunato numero tre è una falange prossimale del pollice».
«Sono ossa umane?»
«Già». Sistemò anche l’ultimo al suo posto. Poi lo riprese. «Non so chi glieli ha puliti, ma gli servirebbe un corso di aggiornamento. Bollire le ossa ne danneggia le giunture, vede?». Gli mostrò l’estremità dell’osso. «Vede come è cavo e poroso?».
Sembrava una pallida barretta di Crunchie a cui qualcuno avesse succhiato via tutto il cioccolato. La dottoressa scosse la testa. «Un lavoro da dilettanti, davvero».
Oddio. «Sono state bollite?»
«Sì… ci sono modi molto più efficaci e meno dannosi per pulire i resti scheletrici: la bollitura elimina l’osso corticale, per questo può vedere la materia porosa sottostante. Se non ha dei coleotteri dermestidi per ripulire i resti, bisogna procedere con una bollitura a fuoco lento, molto lunga: come quando fa lo stufato». Posò nuovamente l’ossicino. «Non so chi è il suo collaboratore, ma dovrebbe vergognarsi del suo lavoro». Un altro marcatore finì sul teschio.
«Bolliti…». Un brivido gelido scivolò lungo la spina dorsale di Logan.
La dottoressa prese l’ultimo marcatore, poi aggrottò la fronte e lo guardò. «Si sente bene? È impallidito improvvisamente».
«Quando? Quando sono stati bolliti?».
La Graham arretrò di un passo. «Senta, io li ho identificati, va bene? Non può dire semplicemente ai suoi capi che non sto fingendo? Sono davvero competente nella mia materia…». Strinse gli occhi. «È stato Dempsey a darglieli? È lui l’idiota che li ha rovinati?»
«Qualcuno li ha mangiati?»
«Perché se è stato lui, dovrebbe tenersi decisamente alla larga da quel cialtrone. È un vecchio bastardo invidioso, e io sto svolgendo il mio lavoro alla perfezione, qui!».
Il tavolo operatorio gli sembrò freddo, sotto il pugno. «Qualcuno ha mangiato la carne intorno a quelle maledette dita oppure no?».
Lei ritrasse leggermente il mento. Poi recuperò l’ossicino di poco prima, lo portò al naso e inspirò. «Lo sente questo odore? È candeggina. È per questo che è così poroso e fragile. E chi mangerebbe qualcosa che è stato bollito nella candeggina?».
Oh, grazie a Dio…
La dottoressa Graham raccolse tutti gli ossicini e glieli tese sul palmo della mano. «Non era un esame?». Fecero un suono secco, di carta vetrata, mentre li muoveva leggermente. «Ma veramente?»
«Qualcuno continua a lasciarli sulla porta di casa mia ».
«Delle falangi?». Tornò a posarli sulla mano disegnata. «Il mio life coach mi aveva detto che Aberdeen è strana…». Si schiarì la gola, poi recuperò un righello tra i libri e misurò le falangi una dopo l’altra. «Si possono stimare l’altezza e il sesso del proprietario, dalle falangi, ma non è un dato affidabile. Non è affatto affidabile. Non lo metterei mai in un rapporto».
Logan si umettò le labbra. «Io pensavo che fossero ossa di pollo».
«Deve promettermi di non attribuirmi quanto sto per dirle, ma la mia ipotesi è questa: appartengono a una donna alta tra i centocinquantasette e i centosessantadue centimetri, qualcosa del genere. C’è un po’ di artrosi, quindi potrebbe essere sulla cinquantina o la sessantina d’anni. Sono stati bolliti, quindi addio all’analisi del dna, ma potrebbe tentare con l’analisi degli isotopi stabili…».
«Dita umane».
«C’è un professore di Dundee che conosco bene e lavora pro bono per la polizia. Potrei chiamarlo, se vuole».
«E io le ho buttate nei cespugli…».
Rowan si sposta lateralmente sulla panchina di legno, lasciando abbastanza spazio alla donna con le buste della spesa perché possa sedersi accanto a lei sbuffando. È incinta. Cerca sollievo per le caviglie gonfie. Una stretta spirale verde e azzurra si innalza vorticando dal suo ventre, formando un punto interrogativo nell’aria che sembra fremere di aspettativa.
Il cimitero di St Nicholas Kirk è avvolto nella luce del tiepido mattino, antiche lapidi di granito mostrano al sole le loro superfici rovinate e coperte di licheni. L’edificio della chiesa morde il cielo con aguzzi denti grigio scuro, le finestre sporche come occhi fissano cupamente i morti e i vivi allo stesso tempo.
Un luogo confortante.
La Kirk è mia madre e mio padre. Il mio bastone e il mio appoggio. Il mio scudo e la mia spada. Ciò che faccio al suo servizio accende un fuoco nel nome di Dio.
Rowan si costringe a ingoiare un altro morso di sandwich al sangue, filo e sego, seduta sulla panchina con le caviglie incrociate davanti a sé, raggomitolata intorno al panino, con le spalle curve in avanti. I capelli tinti da poco le coprono il viso, nascondendole gli occhi.
Nessuno può riconoscerla per la rossa che è.
La madre dell’abominio si sbottona leggermente la camicia e ne fa sventolare il colletto, cercando di far arrivare un po’ d’aria ai seni gonfi. «Ungh… questo caldo!». Poi prende un giornale spiegazzato da una delle buste e lo usa come ventaglio improvvisato. «Ahh, così va meglio».
Non ha idea di ciò che le sta crescendo dentro…
Un altro boccone. Si costringe a inghiottirlo. Avrebbe dovuto comprare una bottiglia d’acqua.
«Sa, Steve dice sempre che mi lamento quando fa freddo, ma santo cielo, non vedo l’ora che piova».
Rowan si limita ad annuire.
La madre dell’abominio lascia cadere il giornale sulla panchina, tra loro, per poi recuperare da una busta una bottiglietta di succo di mela. Apre il tappo a vite e ne prende un lungo sorso. Ha il profumo dei raggi di sole. «Pffffff… non riesco a credere che faccia così caldo. Siamo andati in viaggio di nozze in Kenya e non era così caldo».
Tra loro, un titolo grida in nere lettere cubitali: Non potevo lasciarlo lì a soffrire - Il ragazzo coraggioso racconta l’orrore della vittima incravattata, e poco sotto si vede la foto di un giovane decisamente brutto, disteso su un letto d’ospedale.
La donna sospira. «Orribile, vero? Come si può fare qualcosa di così… orribile?».
Rowan si stringe nelle spalle, poi si massaggia le cicatrici che ha sul polso sinistro. Come vermi scintillanti e sottili che le strisciano sotto le dita. «Forse se lo meritava?»
«Nessuno può meritarsi una fine del genere». Le spirali azzurre e verdi tremano appena. «Oooh… ha ricominciato a muoversi. Sa cosa? Mi sembra di essere quel tipo strano di Alien. Solo che lui era fortunato: non aveva il piede di un piccolo mostro premuto contro la vescica».
Se solo sapesse.
La madre dell’abominio guarda verso il mare di lapidi. «Ero qui, quando ci sono stati i funerali di Alison e Jenny McGregor, lei li ha visti? Ho avuto l’autografo di Robbie Williams…».
Un uomo oltrepassa l’entrata sulla facciata ornata di colonne che nasconde il cimitero alla vista di Union Street. È qui. Tiene un cellulare premuto contro l’orecchio e stringe una busta di Primark nell’altra mano. La sua aura è come quella di una casa in fiamme: lingue di fumo nero, arancione e rosso lo seguono arricciandosi e accarezzando le tombe.
«Naturalmente, è successo prima che conoscessi Steve. E mi guardi ora».
L’ampio sentiero che porta dalla strada principale alla chiesa è coperto di lastroni e antiche lapidi, ormai quasi del tutto cancellate da generazioni di piedi di passaggio. I vivi camminano sui morti. Può quasi sentirli gemere, mentre quell’uomo procede verso la chiesa.
«Dicono che mettere al mondo un bambino è la cosa più bella che possa accadere a una donna, ma è quello che si deve passare prima che è la vera fregatura, dico io… Oh, sta andando via?».
Rowan procede dietro di lui, mantenendo una distanza tale da non essere sfiorata dal suo odore marcio: quelle linee crepitanti sono come sangue in fiamme. Le bestie sono troppo potenti, così come lo era la donna con l’aura nera, ma una strega… È qualcosa di diverso.
La Kirk è mia madre e mio padre. Il mio bastone e il mio appoggio. Il mio scudo e la mia spada. Ciò che faccio al suo servizio accende un fuoco nel nome di Dio.