LIV
So che le hanno raccontato di come è successo.
Di com’è nato questo luogo. Di quello strano, avventuroso viaggio. So che le hanno detto di questa assurda amicizia, di questo legame. E capisco anche quanto sia difficile compenetrarsi, e comprendere i motivi per cui tutto è accaduto. A costo di ripetere cose che lei già conosce, devo dirle che dipese dall’apertura della mente; da quanto lui fu capace di spalancarsi alla conoscenza, liberandosi da ogni pregiudizio.
Ora forse sarebbe facile, vero? O almeno più facile. La gente guarda storie e legge fatti, è sempre più raro restare sorpresi da qualcosa, e quando succede si passa subito oltre, c’è una voracità di notizie curiose e di leggende. Più si conosce, più si sa, più c’è il bisogno di un confine. Di qualcosa di sconosciuto da indagare.
Allora non era così, e mi creda se le dico che in seguito, in tutto questo tempo, ho avuto modo di entrare nella mente di uomini straordinari, in positivo e in negativo, il che stranamente non fa troppa differenza; ma quell’individuo che incontrai quasi morto, in un luogo che non aveva mai visto alcun vivente, sopra e sotto le nuvole, è stato il più eccezionale. E nessuno conoscerà mai il suo nome. Curioso, vero? Sì, curioso. E anche molto triste.
Nei giorni che passammo, aspettando che si rimettesse, parlammo sempre. Era felice, quanto un essere umano può essere felice. Aveva trovato quello che cercava, e quello che cercava ero io. Non mi chieda come e non mi chieda perché, ma sapeva chi ero. Certo gli mancavano i particolari, i dettagli di una storia che era impossibile da comprendere in tutta la sua smisurata entità, ma sapeva. Quello che non sapeva, e in quel momento non lo sapevo nemmeno io, era che anche lui era quello che cercavo. La scoperta più importante del mondo era lui.
Io sono quello che vede. Uno scherzo, un assurdo del destino, se esistesse il destino. Qualcosa che non dovrebbe esistere, e che infatti non esiste. Eppure sono qui, a discutere con lei come vecchi amici, in un posto che nemmeno dovrebbe esistere e infatti non esiste, sottoterra e lontano dal mondo. Ma lei invece esiste. E la sua esistenza è fondamentale. Per tutti.
Provo a spiegarle, e dovrò essere sintetico. Ogni parola peserà, e la prego di tener conto di questo. So che non le sembrerà una menzogna, o una favola senza senso. Non a lei. Purtroppo non c’è tempo, e l’unica speranza che abbiamo, che ho, è convincerla. Solo convincerla.
Pensi alle spore. Vede fuori? Neve, vento. Freddo. Condizioni impossibili. Eppure i funghi, il muschio, continuano a mandare in giro la sopravvivenza della loro specie. Ora io le chiedo di andare indietro nel tempo in modo quasi impensabile. Ere ed ere, continenti diversi, mari diversi. Animali i cui fossili non sono stati mai nemmeno intuiti, perché popolavano terre che ora si trovano centinaia e centinaia di metri sotto la superficie dell’acqua. Ci riesce?
Adesso immagini una specie morente, in un altro luogo. Lontana molto più di quanto sia concepibile, oltre qualsiasi distanza percorribile da un essere vivente, anche in possesso di tecnologie che neanche potrei spiegarle. Immagini che questa specie mandi in giro spore. Un unico individuo in animazione sospesa, in una minuscola nave-laboratorio corredata dal solo modo di sopravvivere possibile: elementi genetici da impiantare in una specie ospite.
Immagini l’arrivo di questa spora in un mondo estraneo e selvaggio, fatto di belve ottuse e ostili. Immagini la lotta di quest’essere fragilissimo e immortale, vulnerabile anche ai raggi del sole ma non al tempo. Immagini una sopravvivenza complessa e disperata, da portare avanti per secoli tentando nel contempo di compiere la propria missione: immettere la propria specie in un’altra, perché generazione dopo generazione i geni nuovi divorino i vecchi, fino a quando l’antica, raffinata, debole gente ripopoli un pianeta altrui, secondo un processo inarrestabile.
Quasi inarrestabile.
Gli esperimenti sulle specie di allora sono stati centinaia. Il fallimento era costante, la materia prima si andava esaurendo. Il timore di quell’essere rianimato era immenso: quello di rimanere ucciso per caso o di esaurire la scorta di geni prima di trovare l’ospite giusto.
Perché, vede, il problema era la sterilità.
Quando il nuovo essere sopravviveva, ed era raro perché gli organismi reagivano con violenza alla cosa aliena che cercava di possederli, restava invariabilmente sterile; e non poteva trasmettere il proprio messaggio in bottiglia attraverso le epoche e fino al futuro. Prima che l’essere comprendesse che le quantità di tentativi di riprodursi dovevano essere ridotte, e il tempo per vedere realizzarsi il progetto dovesse di conseguenza allungarsi indefinitamente, i tentativi furono un’infinità e su ognuna delle specie presenti nel continente ormai sommerso dove la spora era scesa. C’era però di buono che alcuni degli esperimenti falliti, chiamiamoli così, sviluppavano insieme alla sterilità l’attitudine alla conoscenza, la capacità di azione e la resistenza al tempo della specie originaria, pur non perdendo l’aspetto che la natura e l’ambiente in cui erano nati gli avevano imposto.
Attorno al debole e immortale essere, perciò, si unirono i migliori tra gli esperimenti falliti. Con la dolorosa piena consapevolezza della propria inutilità, ma con la subalterna gratitudine a quella conoscenza e all’immortalità che dal cielo erano arrivate a sollevarli dalla serena ma ottusa bestialità.
I tentativi si prolungarono per molto, molto tempo. L’area di intervento si restrinse un po’ alla volta: gli esseri marini furono scartati perché soggetti in maniera eccessiva alle variazioni del clima, i vegetali perché non potevano migrare e perché l’assenza di un cerebro avrebbe comportato un’evoluzione troppo lenta.
Lo so a cosa sta pensando. Lo so perché conosco il profilo della sua istruzione e quello che ha studiato. Lei sta pensando alle leggende comuni a così tante religioni e alle mitologie. Il continente che affonda, l’acqua che sommerge tutto, l’arca con gli animali, gli dèi con parti di bestie e parti umane. Ha ragione. Tutto vero. Ma anche tutto falso, ovviamente.
Alla base degli esperimenti c’erano due princìpi, che si mostrarono in contrasto ineludibile: primo, l’Essere Figlio, il soggetto che avrebbe preso il testimone e condotto la propria specie verso l’omologazione alla specie madre che era arrivata in forma di spora dal cielo profondo, doveva essere in grado di procreare, perché solo attraverso il processo generativo avrebbe potuto raffinarsi.
E poi c’era l’altra cosa.
Vede, l’Essere Madre, il soggetto dal quale tutto si generava, aveva una genetica predisposizione. Credo che la cosa derivi dalla rarità e dalla necessaria protezione della vita nel luogo d’origine, ma non ne ho la certezza. Sta di fatto che né l’Essere né gli esperimenti, nessuno escluso, potevano terminare le esistenze. Nessuno di loro poteva uccidere volontariamente.
Le caratteristiche parevano incompatibili in questo mondo. Assassini, ma generatori. Rispettosi della vita, ma sterili. Da questo atroce dilemma, tentativo dopo tentativo, non si riusciva a venire fuori. Le scorte di geni si andavano esaurendo, e all’Essere Madre, che gli esperimenti falliti si abituarono a chiamare Seminatore, si pose una fondamentale questione: se rassegnarsi ad annullare la propria missione, nell’assoluta inconsapevolezza che qualcuna delle altre spore sarebbe andata a buon fine, e quindi dovendosi assumere la responsabilità dell’estinzione della specie, oppure tollerare per il processo di costruzione una violenta tendenza alla terminazione altrui. Fu necessario, rilevando il rigetto delle specie erbivore del gene e invece la ricettività dei carnivori.
Alla fine, ma solo alla fine, dopo migliaia di fallimenti, una specie si mostrò pronta. E cominciò il cammino.
Quella specie è la sua.