V

Gianluigi Fusco, direttore del dipartimento di Scienze antropologiche ed etnologiche dell’università, accademico e saggista rinomato, consulente di ministeri e tribunali, abile politico e attento stratega, era veramente un uomo da poco.

La bassa stima e la misera considerazione che Brazo Moscati e Marco Di Giacomo avevano di lui era stata evidente fin dallo sguardo che si erano scambiati quando Augusta, l’inserviente-bidella-usciera del dipartimento, era andata a convocarli. Tipico dell’individuo mandare qualcuno, invece di chiamare lui stesso al telefono interno; quella sarebbe stata una cosa tra pari grado. Lui invece, come non mancava di ricordare a ogni pie’ sospinto, era il direttore. Anzi: il Direttore. Un uomo capace di far sentire le maiuscole anche a voce.

Brazo bussò alla porta e cominciò a contare sulle dita. Fusco non rispondeva mai prima del cinque. Stavolta lo fece arrivare a sette. «Avanti!»

Aprirono e lo trovarono come sempre, immerso in un raggio di luce che pioveva dalla finestra come un segno della benedizione divina, gli occhiali cerchiati d’oro sul naso, i radi capelli bianchi perfettamente pettinati, il fermacravatte che gli brillava sul petto, il piano della scrivania di noce luccicante, una penna d’argento nella mano su un unico documento davanti, immortalato nell’atto della firma di chissà quale ordine di servizio determinante per il destino dell’umanità. Un monumento a se
stesso.

Marco si chiese livoroso quanto ci impiegasse ogni volta a mettersi in posa.

«Uè, Di Gia’, entra, entra! E vieni pure tu, Moscati. Accomodatevi.»

Il tono fintamente cordiale mise subito i due sul chi va là. Fusco non aveva mai fatto mistero di ritenere la loro cattedra un dispendio di risorse di cui sarebbe stato possibile, e anzi vantaggioso, fare a meno. Addirittura fingeva di dimenticarsi di loro ogni volta che convocava l’intero corpo docente, peraltro con piena letizia di Di Giacomo stesso, che quelle riunioni non le sopportava proprio.

«Ci ha fatto chiamare, direttore?» chiese Brazo.

«Sì, sì. Moscati, come stanno mamma e papà? Non li ho visti all’ultimo incontro al circolo… una cosa interessante, c’era un violoncellista con un poeta, mo non mi ricordo il nome ma erano bravi.»

Il riferimento alla opulenta famiglia di Brazo era più che voluto. Significava: ti sopporto giusto perché sei figlio di una coppia di rilevanza sociale, sia chiaro, ma sei pur sempre un figlio adottivo, quindi non tirare la corda.

Brazo sospirò e come sempre provò a tenere la conversazione: «Sì, direttore, mia madre è stata poco bene, un po’ d’influenza. Riferirò del suo interessamento, grazie, grazie».

Nel frattempo gli occhi porcini di Fusco erano stati attratti dallo spago legato alla vita di Marco. Lo sguardo andò dai calzoni alla cravatta, poi di nuovo ai calzoni. «Di Giacomo, ma che è, lanciamo nuove mode? O abbiamo deciso di aderire a qualche corrente artistica? Dopo gli scapigliati, i malvestiti? Ma è questo il modo di presentarsi a me?»

Marco ricambiò spavaldo lo sguardo. «Cerchiamo di rinnovarci, Fusco. Minimalismo, diciamo: si evitano i fronzoli, ci si concentra sulle cose serie.»

Il direttore annuì, come se stesse soppesando le parole del suo sottoposto. Poi disse in tono serio: «Non è tanto lo spago. È la cravatta che fa proprio schifo».

Marco si accigliò. «Ma che avete tutti contro ’sta cravatta, si può sapere? È quella del mio circolo quand’ero matricola, e…»

«… e sarebbe ora di buttarla, evidentemente. Ma non è per discutere di eleganza che vi ho fatto chiamare, anche se a pensarci bene un corso accelerato dovrei ordinartelo, Di Gia’. Dunque, ho bisogno di te. Anzi, di voi.»

Velenoso, Marco mormorò: «Allora la cosa è grave».

Fusco sorrise con le labbra.

«No, no. Tutt’altro. Diciamo che ti sto per offrire una bella opportunità di metterti in mostra e nel contempo di prendere una boccata d’aria, di riprenderti un po’, di vestirti meglio e fare nuove conoscenze».

Di Giacomo aggrottò la fronte e mormorò: «Non so perché, ma l’unica aria che mi pare di sentire è aria di fregatura».

Il direttore sembrò non averlo sentito. «Allora, le cose stanno così. Mi ha chiamato Schroeder, il collega che dirige il nostro omologo dipartimento a Francoforte. Abbiamo fatto qualche congresso insieme, è una personalità molto influente in ambito europeo, è un onore che si sia ricordato proprio di Me.»

Marco sbuffò. «Congratulazioni. E io che c’entro?»

A Fusco si appannò il sorriso. «Gradirei non essere interrotto. Mi ha chiamato per dirmi che è in arrivo a Napoli una giornalista di “Kultur Zeitung”, un’importantissima rivista di divulgazione scientifica.»

«Ripeto: e io che c’entro?»

Fusco scattò: «Non lo decidi tu se c’entri, Di Gia’! Lo decido Io! Questa giornalista si tratterrà alcuni giorni, deve visitare dei siti e dev’essere accompagnata. Ce la porterai tu, e Moscati ti sostituirà nella gestione degli studenti, se sarà necessario. Questo è quanto».

«Lo sapevo che era una fregatura…»

Fusco si accigliò.

«Ascoltami bene, Di Giacomo: io non frego nessuno. Io do ordini. Impartisco istruzioni, capisci? Ogni mia decisione, desiderio o pensiero devono essere messi in pratica da te. Perché Io sono il Direttore e tu sei un docente qualsiasi. È chiaro?»

«Senti, Fusco, io ho delle ricerche in corso, maledizione! Non posso perdere il mio tempo a fare da balia a una giornalista deficiente, e…»

Fusco si alzò in piedi, e siccome era alto un metro e sessanta, l’effetto fu meno impressionante di quanto avrebbe desiderato.

«No, Di Giacomo! Senti tu: io ho tollerato abbastanza la tua presenza qui, e se l’ho fatto è solo perché ci sarebbero più moduli da compilare per cacciarti che per tenerti, e perché perderei personale che chissà quando e come mi sarebbe rimpiazzato. Con le tue ricerche strampalate, che non so come hai avuto l’ardire di pubblicare, ci hai fatto prendere per i fondelli da mezzo mondo accademico.»

Di Giacomo protestò: «Le mie ricerche non sono affatto strampalate, accidenti! Gli elementi che sto raccogliendo saranno…».

Fusco strillò: «Gli argomenti che stai cercando non esistono, cazzarola! Lo vuoi capire o no che stai lavorando a una tesi assurda e campata in aria? Che tutti i colleghi, qui e fuori di qui, quando sentono il tuo nome cominciano a ridere e non si fermano più? Che dicono che per te non ci vorrebbe uno psichiatra ma un esorcista?».

Brazo provò a intromettersi: «Direttore, le assicuro che il professor Di Giacomo non sta continuando nelle ricer…».

«Stai zitto, Moscati, se no ci vai di mezzo pure tu! Guarda che il sistema di consultazione dei volumi in biblioteca è informatizzato, e io so benissimo a cosa stanno lavorando tutti i miei docenti, e quindi anche Di Giacomo.»

Marco balbettò, rosso in viso: «Ma… ma questa è una palese violazione di… Io sono libero di consultare quello che…».

Fusco batté la mano sulla scrivania. «No che non sei libero! Tu dovresti occuparti della docenza, che invece lasci nelle mani del tuo assistente che, per inciso, la prossima volta che viene a mentire qui nel mio ufficio lo sbatto fuori a calci, è chiaro?»

Brazo fece un passo indietro, come per ripararsi. Marco cercò di ripiegare su una tattica alternativa.

«Ma se io sono così inaffidabile e scadente, malvestito e ridicolo come dici, allora perché l’affibbi proprio a me ’sta tedesca, si può sapere? Scegli uno dei tuoi cocchi, tipo Basile, e manda lui. Così tu fai bella figura, Basile che è un leccaculo si mette in mostra, e io posso continuare a occuparmi delle cose mie. Non è meglio per tutti?»

Fusco si risedette, continuando a fissarlo bellicoso. «Lo avrei fatto, se avessi potuto. Credi che sia pazzo? Non ti chiamerei neanche per rappresentare un condominio, figuriamoci il dipartimento. E sono preoccupatissimo dei danni d’immagine che sei in grado di creare, soprattutto con una giornalista. Ma la richiesta, non domandarmi perché, è stata fatta sul tuo nome. Anzi, sembrerebbe che questa Ingrid Schultz sia interessata proprio alle faccende tue: culti antichi, luoghi sacri, sciamani e fesserie del genere.»

«Senti, Fusco, io non starò qui a sentirmi insultare! Luoghi sacri, sciamani, culti antichi come fossero sciocchezze… Io dimostrerò che c’è una stretta relazione tra…»

«Sì, sì, va bene, come vuoi tu…» Fusco agitò la mano in aria. «Tanto è questione di tempo e trovo un modo per sbatterti fuori, lo sai tu e lo so io. Nel frattempo fa’ quello che dico e vai a prendere ’sta tedesca all’aeroporto, portala in visita dove vuole, offrile pranzi e cene con nota spese, e sii anche gentile perché non voglio fare brutta figura. Anzi, sai che c’è? Invece di delegare le attività di cattedra a Moscati, te lo porti dietro. È una persona educata e ammortizzerà i tuoi comportamenti inqualificabili. Agli studenti penserà Basile, che ha ben altro trasporto verso l’insegnamento.»

Marco rispose, pronto: «Basile non capisce niente».

Fusco sorrise. «È vero. Ma farà carriera, contrariamente a te che finirai con le pezze al sedere. E ora togliti dai piedi, che sei in ritardo. La tizia atterra a Capodichino tra tre quarti d’ora, e ti devi far trovare agli arrivi internazionali con un mazzo di fiori, una cintura e soprattutto un’altra cravatta. E pure sorridente, sia chiaro. Perché se ricevo una lamentela qualsiasi, una qualsiasi, prima ti inibisco l’accesso alle biblioteche universitarie e poi ti sbatto fuori. Anzi, viceversa: così non devo nemmeno perdere tempo ad avvertire i bibliotecari che non puoi entrare. Aria, adesso: ho perso pure troppo tempo, a parlare con voi due.»