XXIII
Stavolta nessuno ebbe dubbi su dove si stava avviando Lisi, all’uscita dalla Questura. Pur col suo irritante modo di portare avanti la conversazione e nelle sue continue divagazioni, Andreoli una notizia importante l’aveva data: c’era un posto dove Stojanović, il vagabondo trovato morto, si ritirava per la notte. Ma c’era anche un’altra notizia, forse secondaria ma interessante: la polizia riteneva quella morte accidentale o comunque priva di elementi da approfondire.
L’atmosfera in città era ormai decisamente natalizia. Andava scemando la fase della ricerca composta dell’oggetto più giusto da regalare o del prezzo migliore, e la folla si trasferiva desiderosa dalle vetrine all’interno dei negozi. La fila in alcuni casi si formava all’esterno, signore infreddolite e anziani con cappelli e sciarpe, a intralciare ulteriormente il fiume di turisti affamati di colore locale, di bancarelle e di pizze fritte da consumare all’impiedi in ogni ora del giorno. L’area antistante la chiesa della Pietrasanta, che si trovava proprio nel ventre oscuro della città, sospeso tra vicoli bui e mercati a cielo aperto, non faceva eccezione: per cui ci misero un po’ a farsi strada, senza potersi scambiare nemmeno una parola in quella terribile confusione.
Lisi camminava decisa, la fronte aggrottata, gli occhi fissi davanti a sé, le mani immerse nelle tasche di un soprabito troppo leggero per il freddo umido e il vento che a folate gelava le orecchie. Dietro di lei, Brazo, che ogni tanto le lanciava occhiate preoccupate, un vago senso di colpa dipinto sul viso. Ingrid rifletté di sfuggita sull’evidente, inespresso sentimento di tenerezza che il giovane provava per Lisi, di cui probabilmente la ragazza nemmeno si era accorta o che aveva deciso di non ricambiare neppure con un minimo di attenzione; l’assistente del professore cercava di proteggerla, ma si capiva che non condivideva le sue teorie.
Quanto a Marco, che le camminava di fianco a testa bassa, succhiandosi pensoso i baffi, a parere di Ingrid stava piano piano cambiando atteggiamento. Da un chiaro disinteresse, condito da fastidio e disagio, adesso era passato a un’evidente apprensione. Non aveva mai creduto nell’indagine che Lisi testarda portava avanti da chissà quanto tempo, ma adesso la giornalista coglieva in lui una tensione diversa: temeva per l’incolumità della nipote, molto più di quanto gli importasse del prestigio accademico o dell’esito delle proprie ricerche.
Passarono davanti alla piazzetta sulla quale affacciava la chiesa, ma Lisi non si fermò. Superò il campanile e, mentre Ingrid rilevava l’arco e i mattoni tipici delle costruzioni di epoca romana, la ragazza sparì alla vista; non fosse stato per la schiena di Brazo, che svoltava l’angolo, la giornalista si sarebbe trovata da sola in mezzo alla corrente ininterrotta di pedoni in transito verso la via dei pastori del presepe, non lontana.
Marco stesso aveva rallentato il passo, dando l’idea che da lì in poi non gli era chiarissimo dove andare. Così era. Lisi, nella stretta stradina laterale, si era fermata perplessa. Dava le spalle al muro di fronte e si concentrava sulla parete che fiancheggiava il campanile. Brazo invece osservava lei, il volto atteggiato a una dolente agitazione, come di fronte a una persona cara in piena crisi di follia.
Marco mormorò, e lo sentì solo Ingrid che gli era vicino: «Un accesso. Ma non può esserci un accesso da qui, se…».
Prima che terminasse il concetto, Lisi scattò in avanti e si infilò in un’intercapedine tra il campanile e il palazzo di fianco. Era poco più di un piccolo spazio tra le due costruzioni, e sembrava finire nel nulla; invece Lisi scomparve senza ritornare sui propri passi. Brazo lanciò a Ingrid e Marco un’occhiata perplessa, poi seguì la ragazza mettendosi di fianco e chinandosi perché l’apertura non gli consentiva un ingresso facile. Marco scattò nella medesima direzione e Ingrid fece lo stesso.
L’intercapedine si allargava in una specie di minuscolo andito, che sulla parete sinistra aveva una feritoia apparentemente adibita al deflusso dell’acqua piovana. Ingrid fece appena in tempo a intravedere Brazo che si calava all’interno e ad ascoltare l’imprecazione di Marco che, lanciato uno sguardo attorno, faceva altrettanto. La giornalista li seguì.
Uno scivolo di tufo dava su quattro gradini e su un pianerottolo. Lisi tirò fuori una torcia e illuminò attorno. Nello spazio ci stavano solo lei e Brazo, mentre Ingrid e Marco dovettero sostare sui gradini. Il raggio di luce illuminò una coperta e qualche pezzo di cartone, una gavetta e una forchetta, due scatole di tonno aperte e svuotate.
Lisi mormorò: «Benvenuti nella provvisoria dimora di Stojanović Benjamin, di Novi Grad, Bosnia».
L’imitazione del tono vago e pomposo di Andreoli sembrò carica di tristezza. La ragazza si abbassò e raccolse qualcosa, ponendo poi l’oggetto sotto la luce diretta della torcia. Era un sasso, un cubetto di porfido di quelli usati per pavimentare le strade. Uno spigolo del cubetto era sporco di una sostanza scura.
Lisi disse, e il suono della sua voce suonò ancora più lugubre nello spazio stretto: «Ed ecco a voi com’è morto. Direi nel sonno, perché non vedo tracce di lotta».
Il raggio di luce si mosse sicuro, sapendo in che direzione cercare. In basso, sulla parete opposta ai gradini, in parte coperta dai pezzi di cartone, c’era una feritoia simile a quella dalla quale erano entrati, ma decisamente più piccola.
Ingrid calcolò che da quel lato si doveva accedere alla parte sottostante al campanile della chiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta.
Si ritrovarono all’esterno, impolverati e sporchi di fanghiglia. Uscire era stato più facile che entrare, ma lo spazio era stretto comunque.
Brazo disse: «E adesso che facciamo? Avvertiamo Andreoli che Stojanović è morto ammazzato?».
Lisi lo fissò a occhi spalancati: «Ma sei pazzo? Al di là del fatto che sarebbe perfettamente inutile, perché penserebbero a una lotta fra vagabondi ubriachi che si disputavano un posto dove dormire, riveleremmo la conoscenza del luogo e li metteremmo sul chi va là. Ci renderebbero impossibili le altre ricerche».
Marco scattò: «Ma quali ricerche, Lisi! Non ti rendi conto del pericolo? Qui c’è un cadavere e c’è un delitto, è pericolosissimo, questa è gente fanatica e senza scrupoli. Ti prego, fermiamoci qui. Noi siamo studiosi, gente che lavora sui libri e al limite va a vedere scavi e musei, questa cosa da Indiana Jones non è per noi! Prepariamo il materiale e poi scriviamo un articolo, o un saggio, ma non posso pensare di mettere a rischio la tua pelle!».
La ragazza tacque, sorprendentemente, con gli occhi bassi sulla feritoia dalla quale erano appena usciti. Brazo e Ingrid si guardarono con imbarazzo. Era la prima volta che Marco ammetteva che esisteva qualcosa su cui indagare, e che c’era un pericolo concreto.
Alla fine Lisi parlò, quasi a se stessa: «Un buco nel muro. Un semplice, innocuo buco nel muro come ce ne sono migliaia in questa città che ha un sotto uguale al sopra, però buio. Una città sotto la città. E qui, lo sai bene, c’erano le janare, il culto di Ecate e quello di Lilith, la magia nascosta che diventa nera solo perché contraria alla chiesa cristiana. Allora era innocente, ora invece non lo è più. Ora, dopo un millennio e mezzo di clandestinità, ammazzano la gente».
Sollevò lo sguardo, fissando fiera lo zio in volto.
«Io lo so che mi vuoi bene. Lo so che ti preoccupi per me. Ma mi conosci, e sai che non mi fermerò. In questa città si celebrano di nascosto culti con sacrifici umani, una volta ogni trent’anni succede qualcosa, e devo scoprirlo, che mette in contatto questi culti. Qualcosa di grosso, di enorme. E sta succedendo ora, e qui. Non nei tuoi libri, non negli scavi o nei musei. Queste religioni sono vive, e c’è qualcosa di ancora più grosso dietro. Io e i miei compagni in giro per il mondo capiremo il perché, e poi lo diremo a tutti. È necessario. Se vorrete aiutarmi, stare con me, io ne sarò felice… perché tu, zio, e pure tu, Brazo, avete conoscenze che mi sarebbero necessarie; e tu, Ingrid, potrai essere il megafono con cui urleremo la verità. Ma se non volete, io andrò avanti comunque. E questo è quanto.»
Il tono era stato piano e diretto, una semplice comunicazione alla fine della quale la ragazza si voltò e si avviò in senso contrario al flusso della folla. Gli altri si guardarono brevemente e si incamminarono dietro di lei.
Una piccola finestra dava sul vicolo, le imposte socchiuse. Dietro, nell’ombra, ci fu un lieve bagliore: un raggio di sole temerario si era avventurato nella via stretta tra gli alti palazzi e aveva incontrato gli occhiali da miope di una giovane donna che se ne stava in piedi, senza espressione.
Non si era persa un gesto o una parola.