XXII
Il vicequestore Andreoli era un uomo di cinquant’anni spigoloso, azzimato e ben vestito. Aveva la fastidiosa abitudine di divagare di continuo e di rispondere guardando qualcun altro rispetto a chi gli aveva fatto la domanda, il che disorientava alquanto l’interlocutore.
Il padre adottivo di Brazo, un facoltoso avvocato dell’alta società cittadina, aveva procurato rapidamente il contatto che il figlio gli aveva chiesto. Ogni volta che Marco o Lisi avevano provato ad approfondire che attività svolgesse con precisione il signor Moscati, Brazo era sempre stato molto evasivo; nel tempo il professore si era convinto che l’uomo si muovesse in una zona piuttosto grigia dal punto di vista della legalità, e che il figlio cercasse di tenersene il più possibile alla larga.
Stavolta però i tempi erano stretti, e un aiuto era stato necessario. Per cui, fingendo di appartenere a un’associazione di volontariato con finalità di solidarietà sociale, erano riusciti a incontrare proprio il funzionario che si occupava della morte del barbone.
Una volta nell’ufficio di Andreoli, al terzo piano della Questura, Marco disse: «Grazie per averci ricevuto, dottore. La nostra associazione fornisce assistenza e servizio mensa ai senzatetto, e pensiamo di aver ospitato l’uomo che è stato trovato morto in via del Giudice».
Andreoli rispose gentile, guardando Lisi: «S’immagini, per l’avvocato Moscati qualsiasi cosa, gli siamo sempre tanto grati e devoti, ci mancherebbe, e d’altronde non c’è niente di segreto, diciamo solo che non vogliamo alimentare la stampa».
Brazo arrossì e cercò di tornare sull’argomento: «Ci sa dire qualcosa di lui? In modo che possiamo rintracciare qualcuno della famiglia o…».
Andreoli scartabellò nel fascicolo che aveva sulla scrivania e rispose a Ingrid: «Dunque, teneva il documento cucito nel giaccone, si chiamava Stojanović Benjamin, nato a Novi Grad in Bosnia nel 1965. Cinquant’anni, ma dalle fotografie del cadavere ne dimostra una settantina… Che vita che fanno questi disgraziati, ma io poi lo dico a voi, che operate nel settore, chissà quante ne vedete dalla mattina alla sera».
Lisi friggeva letteralmente, e lo interruppe: «Si è capito com’è morto?».
Il vicequestore si strinse nelle spalle, rispondendo a Marco: «Una botta in testa dietro l’occipite, è morto sul colpo. Non è detto che qualcuno l’abbia colpito, in effetti è stato trovato a terra sdraiato sulla schiena, magari era ubriaco come ci risulta fosse quasi sempre ed è scivolato cadendo in maniera da…».
Ingrid, scambiandosi un’occhiata d’intesa con Lisi e avendo capito che bisognava porre un freno alla tendenza del poliziotto a divagare, chiese: «E dove avrebbe battuto la testa? Non avreste trovato tracce, eventualmente?».
L’uomo sorrise a Brazo, agitando una mano nell’aria. «Pioveva, e non è detto che sia successo là, a volte le persone spostano i corpi, chissà perché. Magari pensano che avranno troppa attenzione addosso, o troppe domande. Altre volte magari gli ambulanti mettono il banchetto proprio là, un’eventuale limitazione della zona potrebbe…»
Lisi intervenne, decisa: «Ma avrete pur chiesto a qualcuno se ha visto qualcosa, no? Se hanno sentito urlare, per esempio».
Il poliziotto si voltò verso Marco, che pensò si trattasse di un clamoroso, rarissimo caso di strabismo di tutto il corpo. «Ma cosa crede, signorina, che non sappiamo fare il nostro mestiere? Certo che abbiamo chiesto, e abbiamo saputo che l’uomo era noto nel quartiere ma che non era particolarmente molesto, a parte quando si ubriacava e cominciava a cantare a squarciagola canzoni del Paese suo in piena notte. Senza contare questo, gli volevano bene, anche perché dava una mano, sorrideva, insomma era uno simpatico, mica sono tutti così, una volta a Materdei due africani…»
Il professore, approfittando della irripetibile circostanza di avere gli occhi di Andreoli su di sé, chiese: «Ma al di là di quello che può essere accaduto, che idea vi siete fatti? Avrete, che so, una traccia, una pista…».
Immediatamente il vicequestore si voltò verso Ingrid, stringendosi nelle spalle. «E che vi posso dire, non si può escludere una lite, una contestazione, una discussione. Noi siamo molto attenti a queste cose, non sia mai che ci sia uno sfondo razzista, una qualche esecuzione, sono cose atroci, per carità. Interveniamo subito, in certi casi. Ma ci dev’essere una base d’indagine, un precedente, un motivo.»
Ingrid seguì la strada di Marco e chiese: «E invece in questo caso escludete l’ipotesi? Come mai?».
Andreoli si girò subito verso Brazo, annuendo ed enumerando
sulle dita: «La escludiamo perché: primo, la vittima era conosciuta
e perfino apprezzata dalla gente del luogo, in pratica abitava là
da anni, le davano vestiti e da mangiare in cambio di piccoli
lavoretti; secondo, l’uomo non aveva alcun contatto con droga o
contrabbando di sigarette o altre attività illegali; terzo, da
quelle parti non si registrano, né si sono mai registrati, episodi
di intolleranza; quarto, quando succede, e a volte purtroppo
succede, non gli danno certo una botta in testa e se ne vanno. Li
riempiono di botte, e magari li appicciano pure. No, no, siamo
sicuri, nessun razzismo o punizioni di stampo politico. Ripeto,
secondo me è caduto e basta. Aspettiamo il referto del medico
legale, ma già ci ha anticipato che a un primo esame non ha
riscontrato altre lesioni, quindi non credo che la teoria verrà
smentita. Certo, non posso escludere nulla: quella volta, quando
lavoravo a Catanzaro, che
successe…».
«E non ci sono notizie di liti recenti, qualche contrasto?»
Con sicurezza il vicequestore recepì la domanda di Brazo e rispose a Lisi: «No, anzi, risulta che lo Stojanović intervenisse a mettere pace se qualcuno, spesso ragazzi, litigava da quelle parti. Era noto per la risata, dicono fosse simpaticissimo. E francamente dubito che qualcuno dei residenti che si erano lamentati per le canzoni notturne possa aver commesso un crimine come questo. E poi avremmo trovato qualche elemento, il quartiere di notte non perde del tutto occhi e orecchie, qualcuno resta sempre sveglio. Ci fosse stata una colluttazione, un alterco, avrebbero sentito e lo avremmo saputo».
Lisi mandava lampi dagli occhi.
«E si sa dove dormiva, questo Stojanović? Aveva un posto, un luogo dove…»
L’uomo si voltò subito verso Marco, che si mise una mano sulla faccia: «Bah, ci dicono che andava un po’ qua e un po’ là. D’estate dormiva in strada, d’inverno si rifugiava in qualche androne, coprendosi con i cartoni».
Ingrid reagì sconfortata, e disse a Lisi: «Insomma, non si può risalire a nulla».
Sorprendendo tutti, Andreoli si voltò verso di lei. «Signora, noi facciamo il nostro mestiere. Le indagini, le assicuro, verranno seguite con scrupolo fino in fondo; ma se non c’è nulla da scoprire, non si scoprirà proprio niente. Non c’è di peggio che accanirsi su un caso quando il caso non c’è. Poi, naturalmente, dipenderà dal magistrato. Spetta a lui chiudere la cosa, non a noi.»
Còlta alla sprovvista dall’attenzione diretta che le era stata riservata, Ingrid disse: «Certo, se non si trovano elementi…».
E Marco annuì con convinzione: «Infatti. La gente muore in fondo, no?».
Inaspettatamente, però, Andreoli si rivolse a Lisi: «Una cosa un po’ curiosa è emersa, in effetti. Niente che riguardi la dinamica degli eventi, sia chiaro; ma qualcosa di strano c’è».
«Cosa?» chiese Lisi, sul chi va là.
Stavolta il poliziotto restò con lo sguardo sulla ragazza, fissandola assorto. «Pare che nelle ultime settimane avesse trovato un posto segreto dove dormire. Ce l’ha raccontato il garzone del bar di fronte, che lo aveva visto uscire dall’angolo della chiesa, dove in teoria non esiste alcun riparo. Gli ha chiesto: “Uè, Beniami’, da dove stai venendo?”. E lui ha risposto: “Da viscere di terra”. E si è messo a ridere. Curioso, no?»