XVIII
Il furgone rallenta accostandosi all’inizio del lungo pontile. È uno di quelli neri e lussuosi, coi vetri oscurati e il motore silenzioso.
L’autista si affretta al portellone posteriore, ma è preceduto da una donna che è scesa velocemente dallo sportello laterale. «Lasci, lasci. Ci penso io, grazie.»
Tarchiata e di mezza età, è vestita con sobria eleganza e ha un’inflessione lievissima che fa pensare al Nord Europa. Si muove con sorprendente agilità nonostante la corporatura. Si affaccia all’interno del furgone e fa scendere da una piccola rampa una sedia a rotelle sulla quale, imbacuccata da una coperta e col volto nascosto per metà da una sciarpa e per l’altra metà da un paio di grandi occhiali da sole, c’è una bambina che porta un berretto di lana pesante con un grazioso pon-pon rosso.
L’autista, col cappello in mano, dice rispettoso: «Signo’, io allora vi aspetto qua al parcheggio. Avete idea di quanto…».
La donna gli sorride educatamente, rimboccando la coperta della bambina. «Vada, vada pure a prendere un caffè. Noi ci vediamo qui tra un paio d’ore, non prima.»
L’autista china il capo, rimette il cappello e risale in macchina. La donna, invece, spingendo la carrozzella, s’incammina sul pontile che si addentra nel mare. Ci sono un paio di uomini e una ragazza che corrono, sbuffando vapore dalle bocche, ma nessun altro; la mattina di un giorno feriale prima delle feste, in pieno inverno, non è uno dei momenti di maggior traffico da quelle parti.
La bambina pare addormentata, il capo lievemente piegato. La donna canticchia a fior di labbra una melodia che nessuno saprebbe ricondurre alle canzoni più in voga.
Man mano che procedono, il vento si sente di più, i capelli grigi della donna svolazzano in aria. Uno dei due corridori dà di gomito all’altro, come a dire: guarda questa che porta una bambina malata a prendere tutto questo freddo. Poi fanno dietrofront. La donna spinge la carrozzella fino alla fine del pontile, avvicinandosi al parapetto e alla scaletta che porta all’acqua gelida. La sistema dove nessuno può vedere chi la occupa e si posiziona due passi indietro.
Passano alcuni minuti. Piano piano la bambina solleva il capo, ponendolo in asse rispetto al busto. Impercettibilmente il collo si allunga di alcuni centimetri, mentre le spalle si restringono. Sotto la coperta, in corrispondenza di dove dovrebbero trovarsi le costole, c’è un lieve tremito e una protuberanza sporge sul davanti.
La donna lancia un’occhiata attorno. Non c’è nessuno. Gli occhi si spostano sul mare, e sull’isola. Niente da rilevare. La donna si tranquillizza.
La bambina incava l’addome, e il collo si allunga di altri centimetri.
Adesso la sciarpa finisce un palmo sotto il mento, scoprendo un lembo di carne pallidissima.
La donna, come se fosse stata chiamata, dice: «Madre».
La bambina tace, per un lungo momento. Poi inizia: «Quanto è bello, qui. Non credevo fosse così. L’ultima volta non si arrivava tanto avanti».
La donna sussurra: «No, Madre. Non c’era nulla. Nemmeno il piazzale. Lo hanno riempito, il mare arrivava fino in fondo».
La bambina non risponde. Il collo si piega in avanti con un movimento fluido. «Il confine tra l’acqua e il cielo. Con la combinazione dell’atmosfera, a questo livello. Non ci si può abituare.» Non è una domanda, e nemmeno una considerazione. Piuttosto un pensiero formulato ad alta voce.
La donna sorride: «No, non ci si può abituare».
La bambina sorride a sua volta, con una strana increspatura del labbro superiore. «E che ne sai, tu? Che ne puoi sapere?»
La donna fa una smorfia, come se avesse ricevuto un insulto senza ragione. Ma non dice niente.
La bambina chiede, improvvisamente curiosa: «Quant’è che ci sei, tu? Quanto con me?».
La donna risponde, mormorando: «Seicentoventicinque generazioni, Madre. Quasi un millimetro sulla Mappa 1412. Le rotazioni della stella…»
Sotto la coperta c’è un altro fremito, stavolta all’altezza del ventre.
«Un soffio. Niente. Ma hai memoria. Brava, figlia mia. Brava.»
Una lacrima scivola sul volto della donna, che se l’asciuga con un gesto secco.
La bambina, senza voltarsi, increspa di nuovo il labbro. E dopo un altro frammento di silenzio, ordina: «Dimmi di loro. E dei Guardiani. E della ragazza, soprattutto. Dimmi della ragazza».
La donna fa un piccolo passo avanti, più per se stessa che per la bambina, che è stata in grado di sentir scorrere la lacrima da due metri. Parla a lungo, sommessa.
La bambina non si muove mai, se non per seguire un gabbiano enorme che si posa sulla balaustra del pontile.
«… e quindi, Madre, possiamo immaginare che stiano per collegare le cose. Il che, come sappiamo, prelude alla curva della Mappa. Certo, l’intervento dell’Osservatore è stato necessario e probabilmente ancora lo sarà, ma…»
La bambina dice, in un soffio: «Non ancora. Bisogna che vada avanti, che vadano ancora un po’ avanti. Ormai sono sulla strada».
La donna sospira. «Temo non sia così semplice, Madre. Lui non disporrà, ovviamente, altrimenti, ma i suoi… Non si fermano davanti a nulla, e hanno paura. Potrebbero prendere iniziative che… Il custode del parcheggio, per esempio, è stato…»
La bambina emette un sibilo sottile. Il suono, stridente e quasi inavvertibile, fa volare via il gabbiano in maniera scomposta come se avesse sentito uno sparo improvviso. La donna d’istinto s’inginocchia, per rialzarsi subito dopo con agilità e imbarazzo.
Il sibilo diviene un grattare sordo, come una nacchera attutita.
«Non lo voglio sentire. Non voglio che nessuno vicino a me lo pensi. Questo orrore, questi animali. Nessuno lo pensi, accanto a me.»
«Perdono, Madre. Perdono.»
La bambina annuisce, secca, articolando il capo senza muovere il collo. «Quello che mi pare comunque di capire è che hanno occhi addosso. Li seguono?»
La donna sussurra: «Sì, Madre. Li seguono. Aristarchos, l’uomo di Mithra. Credo che a questo punto sia andato da Lui, e gli abbia riferito».
La bambina increspa il labbro. «Padre. Si fa chiamare Padre. Quanto è… come dicono… comica, questa cosa. Il Padre, lui.»
La donna fa un altro mezzo passo avanti. «Madre, se si volesse… Non impiegheremmo molto a…»
La bambina gira il capo di scatto. «No! No, mai. Dobbiamo sorvegliare. Le Mappe non possono in alcun modo essere alterate, il rischio sarebbe enorme. Le differenze a questo punto sono quasi invisibili, e se il compito dovesse arrivare nelle mani sbagliate, gli effetti potrebbero devastare tutto, e si dovrebbe aspettare ancora chissà quanto, magari un’intera Mappa.»
La donna china il capo. «Sì, Madre.»
La coperta si sposta lateralmente per l’improvvisa protuberanza sul fianco della bambina. La donna si affretta a rimboccarla.
«Dobbiamo aspettare, e sorvegliare. Avverti gli Osservatori di riferire tempo per tempo, e preparati a sostituirli quando e se necessario. Mi hai capito, figlia mia?»
La donna annuisce, le mani giunte davanti alla bocca.
La bambina dice: «E adesso, figlia mia, toglimi questi occhiali. Voglio riconoscere il confine dell’alba».
La donna osserva i dintorni con ansia. Poi, riluttante, si avvicina alla carrozzella e rimuove gli occhiali.
Gli enormi occhi rotondi ruotano indipendenti l’uno dall’altro, la verde pupilla verticale a fenderli al centro. Una palpebra si muove rapida dal basso verso l’alto.
Il labbro superiore s’increspa di fronte all’estasi.