XXXVIII
Marco entrò in ufficio, col giornale in mano, seguito da Brazo preoccupatissimo dalla reazione del suo capo.
Ingrid gli si fece incontro, sorridendo: «Niente, Lisi non si è sentita. Ho chiesto al centralino se per caso avesse chiamato, ma…».
Marco sbatté il giornale sulla scrivania, aperto alla pagina dell’articolo. Non aveva tolto gli occhi dal volto di Ingrid.
La donna, interdetta dall’atteggiamento del professore, dopo aver rivolto un rapido sguardo interrogativo a Brazo, che subito abbassò il suo, prese il giornale.
Man mano che scorreva il testo, spalancò gli occhi e la bocca in un’equivocabile espressione di dolorosa meraviglia.
«Ma… ma che cos’è questa cosa? Io… io non ne so niente!»
Marco continuava a fissarla con un’espressione truce, senza parlare. Ingrid teneva il giornale in mano come fosse un oggetto misterioso.
Si voltò verso Brazo.
«Come puoi… come potete pensare che io… Ci vorranno giorni, forse settimane perché io prepari il mio articolo! Non avrei nemmeno potuto…»
Marco le strappò la rivista di mano e picchiò col dito nel punto
in cui compariva il nome dell’autore del
pezzo.
«Mi pare che ci sia il tuo nome, qui. Hai una collega omonima o leggo male? Sai, il tedesco è una lingua complessa. Ci si può sbagliare. Si può essere traditi, dal tedesco. Pugnalati alle spalle.»
La donna arrossì violentemente. «Io non sono una traditrice, e non ho la minima idea di chi abbia scritto quest’articolo e come abbia fatto a pubblicarlo col mio nome! Pensi che se avessi fatto questa cosa, sarei rimasta qui ad aspettare che tu lo leggessi? E che senso avrebbe avuto restare con voi fino a ora, e soprattutto che senso avrebbe avuto…»
Al ricordo del momento di tenerezza della notte precedente, Marco si sentì montare il sangue in testa. La stanchezza, la preoccupazione per Lisi, la frustrazione, Fusco e la sospensione, ma più di ogni cosa l’idea di aver potuto cadere così scioccamente nella trappola di una donna dagli occhi azzurri lo sopraffecero.
Prima che potesse accorgersene, la mano si mosse e schiaffeggiò Ingrid. Un ceffone secco, forte e inatteso, che fece girare il viso alla giornalista, lasciandole una traccia rossa sulla guancia.
Brazo si mosse subito, cingendolo con le braccia per impedirgli altre idiozie, ma non ce n’era bisogno: nell’attimo stesso in cui l’aveva compiuto, Marco non riusciva a capire come avesse potuto fare un gesto del genere.
Ingrid si portò la mano al viso, incredula, gli occhi pieni di lacrime. Non poteva distogliere lo sguardo dal volto di Marco, impassibile tra le braccia di Brazo.
Poi prese la giacca e se ne andò, chiudendo dolcemente la porta dietro di sé.
Il professore e il suo assistente restarono così per parecchi istanti, fermi e imbambolati in quella strana posizione. C’era un innaturale silenzio nell’istituto deserto.
Lentamente Brazo allentò la presa e disse, a bassa voce: «Prof, io davvero a volte non ti capisco, sai. Ingrid… Ci è stata vicina in questi giorni, abbiamo condiviso una situazione assurda, non può essere davvero stata lei a scrivere quella cosa».
Marco lo fissò, assumendo di nuovo l’espressione dura: «Ma che, sei scemo anche tu? Hai visto che c’è il suo nome in fondo al pezzo, o so leggere solo io? Ci ha presi per i fondelli fin dall’inizio, ti dico. È evidente. E io fesso a cascarci, maledizione! Lo sapevo che c’era una fregatura, magari ha organizzato tutto quello stronzo di Fusco per toglierci di mezzo».
Brazo scosse la testa. «Stai diventando paranoico. Davvero non ti capisco più. Sei cambiato, non sei la persona che ho conosciuto dieci anni fa; eri entusiasta, fiducioso, aperto. Ora sei diventato diffidente, guardingo, credi che tutti vogliano fregarti. Ma pensi davvero che a qualcuno interessi così tanto quello che facciamo qui dentro? Guardati intorno. Abbiamo sempre meno studenti, l’esame viene evitato, ai seminari partecipano in pochissimi, avremo quattro tesisti e li trattiamo pure male, li seguiamo poco, a stento leggiamo i loro elaborati.»
Marco lo fissava a bocca aperta. Il suo assistente non gli aveva mai parlato così.
Brazo continuò: «Non so se Ingrid abbia veramente scritto quell’articolo, e nemmeno mi interessa. A me interessa di Lisi. Solo di Lisi. Voglio sapere, nell’ordine: se sta bene, se è in pericolo, se sarà in pericolo e quando torna. Poi, ma solo poi, vorrei capire dov’è andata e a fare che. Di un articolo su un giornale tedesco e dei riflessi dello stesso sulla nostra carriera universitaria, scusami, capo, ma in questo momento non me ne fotte niente. Proprio niente».
Aveva parlato con voce sommessa, tenendo le braccia incrociate strette al petto, ma lo sguardo miope sotto le lenti era deciso e duro. Marco si sentì colpito e mortificato dalla nettezza del ragionamento del suo assistente, e anche un po’ commosso dall’enorme coinvolgimento affettivo di lui nei confronti della nipote.
Dopo qualche attimo di riflessione tirò un respiro profondo e disse: «Hai ragione. Scusami, amico mio: devo essere davvero diventato scemo. Hai ragione soprattutto sul fatto che Lisi sia la cosa più importante da tener presente, adesso. Solo, non sono d’accordo sulla sequenza delle cose da indagare; perché quello che è successo prima, l’incidente fuori casa di Lisi, non credo affatto sia stato casuale».
Brazo sbatté le palpebre. «Pensi a quello che ha detto la donna, vero? Ci ho riflettuto anch’io, ma proprio non vedo come possa aiutarci, e del resto non poteva certo sapere che noi saremmo usciti dal palazzo proprio in quel momento, ha fatto la curva a velocità altissima, e…»
Marco agitò la mano impaziente: «No, no, non è quello. È ciò che ha detto».
Brazo si strinse nelle spalle. «La ragazza, il Padre, le viscere della terra? A me sembrava delirasse, veramente.»
«No, non quello. Quando ha parlato prima, in greco. Almeno sembrava greco, no?»
Brazo annuì: «Sì, forse. Un po’ strano, biascicava, e poi i suoni… Se era greco, era pronunciato veramente male».
Marco si picchiò una mano sull’altra: «Esatto, bravo! La pronuncia. Noi le studiamo queste cose, no? Pensaci bene. Hai presente le vecchie che recitano il rosario in latino nelle chiese? Pensa a quel latino, bastardo e quasi incomprensibile. Noi abbiamo capito un paio di parole a stento, no?».
Brazo era perplesso: «Capo, ma ti ricordi in che condizioni era quella donna? Sarà stata una professoressa, o qualcosa del genere… il trauma, stava morendo…».
Marco scosse il capo con forza: «No, no. Ti dico che quella era una formula, una preghiera. E la parola “dea” era chiara. E ti voglio dire un’altra cosa: io quella faccia, quella donna, l’ho già vista. Almeno credo di averla vista».
L’assistente si sporse in avanti, meravigliato.
«Come, l’hai già vista? E dove?»
Marco si fece vago: «La notte scorsa, io… Non riuscivo a dormire, sai, la preoccupazione, Lisi… E allora sono andato alla Pietrasanta. Così, per cercare di schiarirmi le idee. E a un certo punto, dietro a una finestra… Sai, proprio di fronte all’intercapedine dalla quale siamo entrati ieri…».
Brazo chiese: «Da una finestra? Di notte? Ma sei sicuro?».
«Sì, anche se è stato un attimo. Un riflesso di luce sugli occhiali, io stavo… Be’, lasciamo perdere. Comunque sono abbastanza sicuro. E siccome sai che la Pietrasanta è stata costruita sul tempio di Diana…»
Brazo annuì: «Certo, la Dea della formula greca. E l’alterazione della pronuncia potrebbe essere una formula recitata tante volte da diventare quasi incomprensibile. Ci sta. O meglio, ci starebbe a voler dare ragione a Lisi circa la sopravvivenza dei culti. Insomma, alla fine stai accettando quello che dice lei, che esistono ancora delle sette segrete che…».
Marco sbuffò. «Ma ti pare il momento di parlare delle posizioni ideologiche mie e di Lisi? Mettiamoci al lavoro, invece, e cerchiamo di capire se questa formula esiste. Forse quella pazza è la chiave per arrivare a capire dov’è andata Lisi, e a fare che.»
Brazo scosse il capo, deciso: «No, prof. Non puoi certo star qui a fare ricerche, Fusco è stato chiaro. Se arriva a controllare, si mette a urlare come un ossesso e chiama la sicurezza. Tu dimmi solo cosa devo cercare e lo faccio io, vattene a casa. Anzi, vai a casa di Lisi e parla un po’ più a fondo con tua sorella, perché ho avuto l’impressione che sapesse, o credesse di sapere, qualcosa di più di quello che ci ha detto».
Marco rifletté. «Sai, probabilmente hai ragione. Anche perché se quell’idiota di Fusco torna qui e me lo trovo di fronte, con quel maglione addosso – e poi parla delle mie cravatte! – mi sa che lo prendo a calci, per come sto oggi. E, a proposito, Brazo… Mi dispiace per averle dato uno schiaffo. Io non sono uno che alza le mani, lo sai, ma tra Lisi e questa storia…»
L’assistente sorrise, spingendolo verso la porta. «Tranquillo, capo. Ci sarà occasione per chiarirsi, lo sai. Adesso va’, io mi metto a cercare nei libri sul culto di Diana. Ma stai attento, però. E tieni il cellulare acceso.»