XXXIV

Sembrò tutto assurdo.

Il fatto che dopo uno schianto del genere, seguito dal rotolare lontano di un copriruota distorto, non ci fosse nessun rumore, nessun urlo, nessuna richiesta di aiuto. Che non si affacciasse nessuno, ma proprio nessuno dalle tre palazzine che davano sulla strada. Che il primo a riscuotersi non fosse Brazo, illeso sul marciapiede e ancora con un incongruo sorriso dipinto sulla faccia e il telefonino in mostra come una fiaccola, ma Marco, che scattò in piedi e dopo essersi assicurato che Ingrid stesse bene, si mise a correre verso l’auto semischiacciata contro il muro.

La donna si rialzò a fatica, indolenzita ma sana, e si avviò zoppicante dietro il professore. Dopo un attimo Brazo si riscosse e li raggiunse.

L’abitacolo era accartocciato quasi completamente. Gli airbag erano esplosi e pendevano dai loro alloggiamenti come tristi palloncini sgonfi: a quella velocità e senza la minima frenata, erano stati completamente inutili.

L’unica persona all’interno era una donna, al posto di guida, incastrata nei pochi centimetri rimasti tra il sedile e il piantone dello sterzo. Il parabrezza era esploso, inondando l’interno di frammenti luccicanti di vetro. Il volto della donna era una maschera di sangue, il torace sfondato, il braccio sinistro piegato in più punti in maniera del tutto innaturale. Marco fece per aprire lo sportello, ma Ingrid lo fermò: le lamiere erano piegate verso il corpo, e un’asse di metallo era conficcata nel fianco della guidatrice. Brazo, sopraggiunto senza fiato, approfittò del fatto di avere ancora il cellulare in mano per chiamare un’ambulanza.

Marco pensò che la donna non potesse essere sopravvissuta allo schianto, ma poi si accorse che sotto la massa sanguinolenta del naso fratturato, dal quale pendeva un paio di occhiali spaccati, la bocca cercava di articolare delle parole. Si avvicinò per ascoltare, proprio mentre Brazo finiva al telefono la sua richiesta di aiuto. Dopo un attimo richiamò l’attenzione del ragazzo e gli fece avvicinare il volto a quello della guidatrice.

Lo fissò interrogativo e chiese: «Ma che lingua è? Sembra greco antico, però senti la pronuncia».

Brazo accostò l’orecchio e annuì.

«Pare anche a me. Una dea. Sta parlando dell’anima e di una dea. Ma i suoni…» Poi, rivolto a lei: «Signora, per favore, stia calma. Adesso arriva un medico, e…».

Appena si sentì rivolgere la parola, quella aprì di scatto l’occhio sinistro coperto dal sangue. Il movimento fu così improvviso che Brazo fece un mezzo salto all’indietro. L’attimo che seguì fu raccapricciante. Il volto, sfigurato sul lato destro e ridotto a un informe ammasso di pelle lacerata e sangue dal quale spuntavano frammenti bianchi di osso, ruotò verso di loro con un orribile scricchiolio. Poi la bocca si aprì in un sorriso, mettendo in mostra una chiostra di denti fratturati, e disse con chiarezza: «Io sono sopravvissuta ai Cacciatori, come avevo giurato alle mie sorelle. Tanto mi basta. La ragazza è stata presa, e il Padre prenderà anche voi. E vi inghiottirà, nelle viscere della terra».

Prima che i due uomini potessero anche solo scambiarsi uno sguardo, la donna alla quale innumerevoli secoli prima era stato dato il nome di Ippolita, l’ultima delle janare, si accasciò, finalmente morta.