VIII
Uno che corre. Sembra proprio uno che corre la mattina presto, freddo o caldo che sia. Tuta, scarpe da ginnastica, felpa col cappuccio in testa.
Uno che corre.
Le braccia chiuse a pugno, una avanti e l’altra indietro. Uno sbuffo di vapore dalla bocca, le ginocchia su.
Uno che corre, che corre bene.
Le sei e mezzo. Un quartiere che si sveglia lentamente, le luci accese provenienti da finestre in cui il sole entrerà fra due ore, se mai entrerà. Chi volete che faccia caso a uno che corre?
Una ventina d’anni fa, forse, sarebbe stato notevole, qualcuno si sarebbe chiesto: ma dove corre quello di prima mattina? Adesso invece è normale, uno che corre. Si mangia vegano, si bevono centrifugati, si scalano le montagne. E si corre di prima mattina, invece di starsene a letto.
Due giorni fa sarebbe stato un anziano un po’ curvo che trascinava le artritiche gambe lungo un muro, e lo stesso nessuno ci avrebbe fatto caso. Come adesso non fanno caso a uno che corre.
Una lieve salita, affrontata senza perdere velocità. Magari lo sbuffo di vapore appena più frequente. Poi la discesa, le gambe appoggiate diversamente a terra, sulle pietre lucide di umidità notturna, correre fa bene ma cadere fa male. Adesso il rettilineo.
Il cappuccio si muove prima da un lato e poi dall’altro, attorno non c’è nessuno. La stretta via fa un gomito, prima di un’altra salita. Chi si fosse affacciato a una finestra lungo il tratto precedente avrebbe visto l’uomo che corre affrontare il gomito; chi si fosse affacciato dopo il gomito non avrebbe mai visto spuntare nessuno.
Il cortile è stretto e buio, un po’ cadente. Tutto il palazzo lo è. L’uomo in tuta si muove cauto lungo il muro, passa tra una vecchissima auto in sosta permanente con l’erba che cresce attorno alle ruote sgonfie e un pilastro, non c’è quasi spazio. Dietro il pilastro, una vecchia anta d’armadio appoggiata al muro di tufo. Dietro l’anta, una feritoia in basso, come se l’antico costruttore avesse finito i mattoni. Nella feritoia scompaiono prima le scarpe, poi i pantaloni, poi il cappuccio. Subito dopo spuntano un paio di mani che ricollocano l’anta dell’armadio al suo posto.
Uno scivolo nel tufo, qualche metro. Poi una rampa di gradini scavati a mano sei, settecento anni prima. Un tunnel stretto, nel quale l’uomo procede in ginocchio. Dopo il tunnel si alza, un metro e mezzo, due metri. L’uomo si mette in piedi. Il buio è totale, ma lui si muove spedito come se ci vedesse benissimo. Settanta, ottanta metri. Una specie di piazza, adesso, con un barlume in alto, un tombino o un buco.
L’uomo si ferma all’improvviso. Si avvicina alla parete gialla, da qualche parte una goccia cade ritmica nell’acqua, chissà dove. Alza la mano, percorre qualche centimetro, torna indietro. Per la prima volta sembra incerto. Trova sotto i polpastrelli qualcosa, un’incisione. Si china, come in ascolto.
Un piccolo sbuffo di vapore. Forse un sospiro. Riprende a camminare.
Passa mezz’ora, poi si blocca in mezzo a un incrocio tra tre stretti passaggi. Non di più, pensa. Non oltre.
Si inginocchia, le mani lungo le cosce. Abbassa il capo coperto. Aspetta.
Non un suono, non la vista. Niente, se non la sensazione di essere guardato, una minuscola variazione dei volumi del buio.
«Padre.»
Un sussurro dal cappuccio, ma potrebbe essere un’altra goccia da qualche parte.
«Sei passato dal cortile.»
Come se qualcuno raschiasse il muro con un sasso. Come se l’aria da polmoni storti passasse nella gola di pietra.
Un sorriso vibra dal cappuccio.
«Sì, Padre. Erano vent’anni che non ci passavo più. Tra cinque non potrò, un’altra volta.»
Silenzio. Poi: «Sì. Un soffio. Come sempre».
«Come sempre, Padre.»
Altro silenzio. Ma è qui, pensa l’uomo col cappuccio. Non se n’è andato. Chissà dove, poi. In tutto quel tempo non l’ha mai capito.
«Dimmi del Momento.»
Prende fiato, senza cambiare di un millimetro la posizione. L’oscurità è assoluta, l’assenza di rumore potrebbe far credere a un sogno.
«Tutto era tranquillo, Padre. Ho superato il ponte, non c’era nessuno. Ho aperto la porta verde, quella ad arco prima della bottega. Mi sono fermato per essere sicuro che…»
«Dimmi del Momento.»
La voce appena un po’ più dura. Come se il vento si fosse alzato portando la minaccia del tuono.
L’uomo rabbrividisce, e pensa che anche il suo brivido si sia sentito.
«Ero vecchio, Padre. Ci ho messo tempo. Ma non potevo andare prima, quello della bottega a volte fa tardi, rilegano le tesi e…»
«Il Momento!»
Gli si ferma il cuore in petto. È il ruggito di una belva sconosciuta, il rumore dell’anima selvaggia. Il tufo assorbe senza rimandare eco, ma la traccia accompagnerà il torace dell’uomo per molto tempo.
«Sì, Padre. Come una luce senza luce, come una musica senza suono. Io pregavo da un’ora, era l’una.»
«L’una? L’una in punto?»
«Sì, Padre. L’una in punto.»
Silenzio, ancora.
«L’una. Ancora prima.»
Poi l’uomo dice, non resistendo: «Oh, Padre, che meraviglia è stata. Ogni fibra, ogni goccia di liquido è rinata. L’estasi perfetta, l’assoluto che entra nel…».
«Sai degli altri?»
Stavolta il silenzio è suo.
«No, Padre. Almeno, non direttamente.»
«Che vuoi dire?»
«Che… Ma non so nemmeno se sia una coincidenza, Padre. Devi sentire Aristarchos, se non l’hai già…»
Un tuono sordo: «Che vuoi dire?».
In fretta, l’uomo risponde: «Ho letto che un custode… Ma devi sentire Aristarchos, Padre. Ti supplico».
Silenzio. Ancora silenzio, escludendo il cuore che batte sordo nelle orecchie.
Poi è chiaro che non c’è più nessuno.
L’uomo si alza, agile, e riprende all’incontrario la strada.