XXVIII

A un certo punto anche i ragazzi avevano finalmente smesso di godersi la notte che precedeva la grande festa ed erano andati a casa, lasciando per strada il solito corredo di bottiglie vuote e vaschette di patatine fritte. Faceva freddo, si era alzato un vento umido e incostante fatto di folate gelide e improvvise.

La piazzetta antistante la chiesa della Pietrasanta era fiocamente illuminata da un paio di lampioni e dall’insegna lampeggiante di un caffè. Ogni tanto passava qualcuno, ma si teneva lungo il muro e camminava svelto. Il quartiere si prendeva la sua breve pausa, scrollandosi di dosso la morsa della folla incessante in cerca del centro del colore natalizio locale. Questione di due, tre ore al massimo prima del rumore delle saracinesche che si sarebbero aperte sul giorno precedente alla grande festa.

Marco se ne stava seduto su un muretto e fissava la facciata della chiesa. Il vento gli scompigliava i capelli, portandoglieli sulla fronte e a volte sugli occhi, ma il professore non sembrava nemmeno accorgersene. Il bavero del soprabito alzato gli copriva mezza faccia, le mani incrociate sulle ginocchia si stringevano e si allentavano ritmicamente. Di tanto in tanto sospirava, emettendo una nuvoletta di vapore nel freddo della notte.

A un certo punto una voce al suo fianco lo fece sobbalzare.

«Non penserai che io ti stia seguendo, spero.»

Ingrid si era accomodata al suo fianco, qualche centimetro indietro per la rientranza del muro, perciò Marco non l’aveva vista arrivare. Diede un’occhiata all’orologio.

«Be’, devo dire che il sospetto ti viene, alle due e trentacinque del mattino in un posto qualsiasi del centro storico, con un paio di gradi sottozero.»

La donna ridacchiò. «Ma che esagerazione, come si vede che sei meridionale! Ci saranno tre o quattro gradi, dalle mie parti con questa temperatura andiamo in giro in mezze maniche. E poi questo non è mica “un posto qualsiasi del centro storico”, no? Mi pare che abbia assunto qualche rilevanza, di recente.»

Marco non aveva distolto lo sguardo dalla facciata della chiesa. «Restano le due e trentacinque del mattino, però.»

Ingrid annuì lentamente. «Sì. E la giornata è stata anche movimentata, se è per questo. Ma, chissà perché, non riuscivo a dormire. Mi sono rigirata nel letto per un’ora e poi mi sono rassegnata. Tu, invece, che ci fai qui?»

Marco tacque a lungo, come cercando le parole giuste per rispondere. «È colpa mia. Tutto questo casino, in realtà, è colpa mia. Cerco una via d’uscita, un modo per giustificarmi, ma non riesco a trovarlo.»

Ingrid si voltò verso di lui.

«Come sarebbe, colpa tua? Che vuoi dire?»

Di nuovo Marco rimase in silenzio. Quando Ingrid si era quasi rassegnata al fatto che non avrebbe parlato, finalmente disse: «Lisi. La sua ossessione, questa indagine folle, la strampalata teoria della sopravvivenza clandestina dei culti antichi e del collegamento dei sacerdoti, dei sacrifici umani, delle morti e delle profanazioni notturne. Tutta colpa mia».

Ingrid mormorò: «Non mi pare proprio strampalata, la teoria. In fondo abbiamo visto i segni, no? E i due cadaveri…».

Marco l’interruppe, vivacemente: «Ma dài, non ti ci mettere anche tu! Un povero custode ha un infarto, un barbone prende una botta in testa in una città dove capita ogni giorno di morire per strada, qualche idiota fa un disegno con un pennello su un muro di tufo, ed eccoci scivolati nel complotto internazionale. È mai possibile che l’unico con un po’ di equilibrio sia io? Eppure, se chiedi a quel genio di Fusco o a qualche collega, sarei il prototipo dello squilibrato, invece.»

Ingrid rispose, calma: «Forse il problema è proprio questo, non ci hai pensato? Sei passato da una teoria brillante ma non abbastanza confortata dalle ricerche, con elementi insufficienti, al negazionismo totale. Da un’esagerazione all’altra».

Marco la guardò velenoso.

«Sì, eh? Sai tutto, tu. Hai letto qualche pagina, magari capendoci lo stretto necessario, e hai già chiaro il quadro psicologico di Marco Di Giacomo, professore in disgrazia e antropologo diffamato. Complimenti. Mi chiedo solo che cazzo ci fai qui, anzi lo so: trovare il modo di scrivere un bell’articolo sull’eccentrico, folle ricercatore che insegue i fantasmi.»

La ragazza strinse le labbra, tentata di rispondergli a tono; poi ci ripensò e rispose, calma: «No. Non è così, e mi dispiace per te, perché ti farebbe comodo. Io sono qui, e te l’ho già spiegato, perché sono realmente e sinceramente interessata al tuo lavoro. E perché, dopo aver letto quello che hai scritto in passato, mi sono detta: è impossibile che abbia mollato. È impossibile che non abbia ricominciato a cercare argomenti».

Marco sbuffò, tornando a guardare la chiesa. «Di fatto, l’unica cosa in cui sono riuscito è far impazzire mia nipote. La sola persona che conti davvero per me.»

Ingrid disse: «Guarda che è adulta, sai. Sceglie da sola, e tu non puoi certo…».

Il professore la interruppe con un gesto della mano. «So quello che dico. La colpa è mia. Solo mia.»

«Ti va di raccontarmi perché?»

Un cane randagio passò dall’altra parte della strada, alzò la zampa vicino al lampione e se ne andò.

Marco disse: «Sai che il padre, Lisi non l’ha mai avuto. Mia sorella, Alba… è sempre stata un po’ strana, è maggiore di me di quattro anni. Molto bella, all’università le ronzava attorno una marea di ragazzi, ma lei niente. Studiava filosofia, soprattutto orientale. I nostri genitori morirono presto, lasciandoci qualcosa, un paio di appartamenti. Un giorno lei parte, dice che fa un viaggio, a quell’epoca era di moda trovare se stessi con uno zaino in spalla. E invece torna dopo sei anni, con Lisi che ne ha già due».

Ingrid chiese: «E non ti ha detto di chi…».

Marco scosse il capo. «No. Ma era serena, felice. Quando le chiedevo di raccontarmi, sorrideva e scuoteva il capo. Passava ore a meditare, progressivamente parlò sempre meno. Anche con Lisi non era troppo presente. Diciamo che, per il grosso, ci ho pensato io a lei. E man mano che cresceva, ha preso… le mie stesse passioni. Sono stato io, insomma. Lei, sai, lei… è geniale. Intuitiva, brillantissima. Brava, più di ogni studente che abbia mai incontrato.»

Ingrid sorrise. «Dovresti vederti quando parli di lei senza difenderti. Ti illumini.»

Marco non sorrise, invece. «È mia figlia, da tutti i punti di vista. Mi sento responsabile, mi preoccupo, non ci dormo. Posso sopportare qualunque cosa su me stesso, che ridano di me, dei miei studi e del mio abbigliamento, ma non di lei. È per lei che sono rimasto in istituto, che ho tenuto la cattedra, che subisco quelle umiliazioni. Per lei. E in cambio, che fa? Rinuncia a una carriera accademica fantastica per infilarsi in questa immane assurdità dell’associazione segreta dei sacerdoti antichi.»

La donna si alzò.

«Ero venuta per dare un’altra occhiata a quell’intercapedine. Secondo te come ha saputo Lisi del vagabondo ucciso?»

Marco si strinse nelle spalle: «Non lo so, è stata evasiva quando gliel’ho chiesto. Sui giornali non era ancora uscita la notizia, ho controllato. Forse è stato uno dei sorveglianti foruncolosi e segaioli di cui si circonda, magari vestito da Uomo Ragno o da Babbo Natale».

Ingrid, suo malgrado, scoppiò a ridere. «Domani glielo chiedo io, magari con me si apre. Vieni, professore. Accompagnami a dare un’occhiata al vicolo.»

L’uomo si alzò e la seguì per qualche metro. Quasi tra sé disse: «La Pietrasanta. La portavo qui da piccola, e le raccontavo della lapide nascosta che guariva da tutti i mali e assolveva da tutti i peccati. E le raccontavo delle janare, di come non fossero affatto streghe ma una specie di fate. Cercavo di annullare i pregiudizi. Mi ascoltava come… avresti dovuto vederla».

«Sai, mi pare che lei… Io la conosco solo da due giorni, sia chiaro; e non sono così presuntuosa da illudermi di capire la gente con uno sguardo e due chiacchiere. Ma Lisi mi sembra che porti dentro qualcosa, una ferita. Pensavo fosse la mancanza del padre mai conosciuto, ma adesso che mi hai raccontato del vostro rapporto… Mio padre è stato assai meno presente nella mia vita di quanto tu sei stato nella sua. Allora, mi chiedevo se… se ci sia qualcos’altro.»

Marco si fermò e la guardò in viso con un’espressione nuova, di curiosità e anche di ammirazione.

«Tre anni fa. Lisi era… aveva un ragazzo. Stavano insieme da un paio d’anni. Lui studiava ingegneria, si chiamava Giorgio, poco più grande di lei. Tutto diverso da Lisi, uno pratico, divertente. Mi piaceva molto, era una specie di figlio anche lui. Un giorno uscì in barca, andava a vela, ma non tornò. Il mare era calmissimo, il vento quasi assente. Trovarono la barca, arenata, ma di lui nessuna traccia. Scomparso nell’aria, così.»

Nella luce del lampione, a un passo dall’intercapedine nella quale si erano infilati poche ore prima e dove era morto il vagabondo, a Ingrid l’espressione di Marco sembrò dolcissima. Portava dolore, smarrimento, responsabilità e malinconia. Un uomo, pensò la ragazza, abituato a provare sentimenti e a nasconderli.

D’impulso lo baciò. Lui fu sorpreso, ma poi le mise una mano tremante dietro la nuca. Durò un secondo o un minuto, o forse fu un sogno.

Dietro la finestra buia, a tre metri di distanza, i due occhi dietro le lenti da miope di una ragazza che non aveva mai smesso di essere una janara li fissavano con odio.