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Quando la porta della veranda si aprì alle sue spalle e l’odore di Qhuinn annunciò l’arrivo dell’amore della sua vita, il cuore di Blay si mise a ballare il tip tap.
Uno dei vantaggi di fumare è che così sai come tenere occupate le mani. Uno degli svantaggi di fumare è che, quando decidi di scrollare la cenere tanto per fare qualcosa, se tremi si vede.
«Ciao» disse Qhuinn, raggiungendolo davanti alla ringhiera.
Blay tossicchiò. «Ciao.»
«Sono contento di vederti.» Pausa. «Non pensavo di trovarti.»
Per un attimo Blay fu tentato di gridare Neanch’io pensavo di esserci, stronzo! Ma pensò che era meglio tenerlo per sé se voleva apparire forte, essere forte… restare forte.
Dio, perché Qhuinn doveva avere un così buon odore?
«Ho portato Rhamp» mormorò Qhuinn.
«Così avevi detto» disse Blay. Poi però si accigliò. «E Lyric dov’è…?»
«Oh, c’è anche lei. Sì.»
Una leggera brezza arrivò da sud; Blay pensò a una ballerina che volteggiava leggiadra sul prato coperto di neve dai riflessi azzurrognoli. Non c’erano più foglie a piroettare con lei, tutto era ammantato da quella coltre candida, ma ai confini della proprietà rami di sempreverde piegati sotto il peso della neve ottennero un po’ di sollievo quando il venticello li liberò in parte del loro fardello.
Con la coda dell’occhio, attraverso le finestre dietro Qhuinn, vedeva i suoi genitori che si muovevano nella calda luce gialla della cucina. La sua mahmen aveva insistito per cucinare sei ore di fila, rinvigorita dall’emozione e dalla felicità dopo una nottata e una giornata estenuanti. Di fronte a una gioia così grande era facile dimenticare che avevano dovuto anestetizzarla per sistemare l’osso. Che sotto il gesso c’erano dei punti. Che di lì a due notti doveva tornare dal dottor Manello per vedere se era tutto a posto.
Per fortuna Fritz era riuscito a riportarli fin lì nel furgone coi finestrini oscurati, visto che quando Lyric era stata dimessa dalla clinica era ormai giorno fatto. I suoi genitori avevano voluto tornare a casa a tutti i costi, dopo quel calvario, e Blay si era ben guardato dal protestare…
«Ho qui una cosa per te» disse Qhuinn, infilando la mano nel cappotto.
Blay scosse la testa e spense la sigaretta fumata a metà. «Andiamo dentro? Ho freddo.»
Non attese conferma, non gli interessava.
Rientrando in casa fu investito da un caldo muro di aromi che sapeva di famiglia e che gli fece venire voglia di vomitare. Specie quando Qhuinn lo seguì in cucina; era fuori dal suo campo visivo, ma la sua presenza incombente non ne era per nulla sminuita.
Anzi, forse ne era addirittura amplificata.
«Come posso aiutarti?» chiese, sorridendo, a sua madre.
Seduta su uno sgabello davanti ai fornelli, la Lyric più grande era impegnata a friggere uova, pancetta e toast alla francese.
«Puoi andare a salutare i tuoi bambini» buttò lì lei da sopra la spalla. «E apparecchiare la tavola.»
Incassando un improvviso dolore al petto, neanche qualcuno gli avesse sferrato un calcio allo sterno, lui posò le Dunhill vicino al telefono fisso, andò a lavarsi le mani e cercò di prepararsi alla vista dei gemelli.
No, pensò, asciugandosi le mani, ancora non se la sentiva di guardare dentro quei seggiolini. Prima doveva riuscire in qualche modo a ricomporsi, altrimenti rischiava di crollare.
Così si diede un gran da fare davanti al cassetto dove tenevano le posate. Poi si diede un gran da fare a prendere i tovaglioli bianchi e rossi e infine si diede un gran da fare a tirare fuori quattro piatti.
Intanto, davanti all’isola che correva per tutto il centro della cucina, Qhuinn e suo padre parlavano della guerra, della politica degli umani, dei play-off di football NCAA e dell’inizio del campionato di pallacanestro NCAA.
Qhuinn non gli staccava gli occhi di dosso.
Ed era furbo: sapeva che sarebbe stato controproducente dirgli di andare dai gemelli, che nel frattempo si erano addormentati sopra il tavolo nei loro seggiolini.
Accidenti, pensò alla fine Blay. Non poteva continuare a evitarli.
Facendosi forza, ammonticchiò tovaglioli, forchette, coltelli eccetera e andò da loro.
Cercò di non guardare. Non ci riuscì.
E appena posò gli occhi sui piccoli tutte le sue autodifese crollarono: tutti quei bei discorsi sulla necessità di mantenere il distacco di un terzo al di sopra delle parti per non soffrire mai più andarono a farsi benedire.
Quasi avvertendo la sua presenza i gemelli si svegliarono, lo guardarono e subito cominciarono ad agitare braccia e gambe, i visetti da cherubini si animarono e dalle boccucce uscirono i versetti tipici dei neonati. Evidentemente lo avevano riconosciuto.
Forse avevano perfino sentito la sua mancanza.
Abbassando lentamente quello che aveva in mano – avrebbe potuto essere qualunque cosa: roba con cui e su cui mangiare, un tostapane, una pala da neve o magari un televisore – si chinò verso di loro.
Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì niente. La gola si era serrata.
Quindi gli toccava affidarsi al tatto per comunicare. Pazienza. Tanto nemmeno loro sapevano parlare.
Andò prima da Lyric, accarezzandole la guancia e solleticandole il collo vellutato. E avrebbe potuto giurare che lei ridacchiava.
«Come sta la mia piccolina?» sussurrò di slancio, con voce rotta.
Poi però si rese conto dell’aggettivo che aveva usato, e chiuse gli occhi con forza. Non sono i miei figli, si corresse. Questi non sono i miei piccoli.
Sì, okay, Qhuinn era risalito sul treno della famiglia, ma per quanto sarebbe durata? Quando avrebbe sclerato di nuovo per la storia di Layla, deragliando un’altra volta? La cosa più intelligente da fare era incassare il colpo, lasciar guarire bene la ferita onde evitare di soffrire un’altra volta, e non voltarsi mai più indietro.
A quel punto si focalizzò su Rhamp. Che bambinone, che tipetto tosto. Blay era fermamente convinto che i tradizionali ruoli sessuali fossero una cazzata e se Lyric in futuro voleva diventare una dura come Payne o Xhex, l’avrebbe sostenuta a spada tratta. Allo stesso modo, se Rhamp decideva di diventare un medico o un avvocato, evitando il campo di battaglia, lui non aveva nulla da obiettare. Però, cavolo, erano così palesemente diversi – anche se era fondamentale non imprigionarli per questo in un ruolo predefinito. Era di vitale importanza che fossero liberi di…
Merda. Ci stava ricascando di nuovo. C’erano dei limiti che lui non poteva superare: non doveva scordarlo.
Nel sentire forchette e coltelli che cozzavano rumorosamente, alzò la testa. Qhuinn aveva deciso di sostituirlo nel compito di apparecchiare la tavola e stava sistemando con cura tovaglioli e posate, a testa bassa, scuro in volto.
Blay si schiarì la gola. «Lascia, faccio io.»
«Non c’è problema.»
In quel momento Rhamp mollò una puzzetta capace di far lacrimare un maschio adulto.
«Oh… wow
«Già» disse Qhuinn. «Avresti dovuto sentire cos’ha mollato mentre stavamo uscendo per venire qui. Ecco perché ho fatto tardi. Mi fai il favore di controllare se ha fatto la cacca? Forse siamo fortunati ed era solo gas.»
Blay serrò i molari. Stava per dirgli di arrangiarsi, ma gli sembrava villano, e poi in fondo aveva voglia di prendere in braccio il maschietto e i suoi erano lì, a guardare cercando di non guardare.
D’un tratto tutto parve bloccarsi e lui ebbe come la sensazione che tutta la sua vita e il suo concetto di famiglia si riducessero essenzialmente a quell’attimo: strano come la vita ti piombi addosso così. Per anni costruivi legami o li rompevi, andavi avanti o indietro nei rapporti di coppia, solcavi il mare delle emozioni – le tue e quelle altrui – ma era in gran parte un processo graduale e frammentario, come quello degli alberi che crescono a poco a poco fino a formare una foresta, un balletto – un passo alla volta – di scelte e decisioni, un cammino più che una pietra miliare, un procedere a casaccio più che guidati da una bussola.
Ma poi all’improvviso il diaframma della macchina fotografica si apriva così di colpo che, con una specie di contraccolpo esistenziale, eri costretto a guardare tutto e dire: okay, wow, ecco dove sono.
Davanti a un neonato che se l’è fatta addosso, a chiedermi chi deve cambiarlo.
Qhuinn andò a piazzarsi proprio davanti a lui. «Mi manchi» disse a bassa voce. «Manchi anche a loro due.»
«Sono uno zio» si scoprì a dire lui. «Va bene? Solo uno zio.»
Con le mani che tremavano slacciò le cinghie del seggiolino e tirò su Rhamp. Lo sollevò in alto, avvicinò il naso al culetto e inspirò a fondo.
«Tutto a posto, Houston» disse brusco. «Ripeto, era una nube gassosa. Non c’è stata nessuna rottura del campo di forza.»
Poi, trasferendo il figlio di Qhuinn nell’incavo del gomito, si sedette e cominciò a muovere le dita davanti ai suoi occhietti.
«Qualcuno ha fame?» disse allegramente sua madre. Quasi avesse deciso che sarebbe andato tutto bene solo perché lui aveva in braccio un bambino.
«Guarda che riflessi» commentò suo padre, mentre Rhamp muoveva le manine da un lato all’altro afferrando le dita di Blay con precisione sorprendente. «È proprio tuo figlio, eh, Qhuinn?»
«Già» disse Blay. «L’hai detto.»
Quante volte avevano fatto l’amore? Layla aveva perso il conto. Due volte sul divano. Poi nella doccia. Altre tre volte a letto?
Sdraiata accanto al suo guerriero, sorrise nel buio della stanza, accarezzando la sua spalla poderosa, sentendo il suo respiro sul collo. L’insaziabilità è una dote, in un amante.
E Xcor era un amante molto, molto ingordo.
L’interno delle cosce le faceva male. La vulva palpitava, dopo tutto quel dentro e fuori. E aveva il suo odore dappertutto, dentro e fuori.
Ma non avrebbe cambiato assolutamente niente.
Be’, forse una cosa sì…
«Cosa ti affligge?» chiese lui, alzando la testa.
«Come?»
«Cosa c’è?»
Non avrebbe dovuto sorprenderla che, anche mezzo addormentato e nel buio più fitto, Xcor fosse in grado di cogliere il suo stato d’animo. Era straordinariamente in sintonia con lei, e non solo sessualmente.
«Layla» la incalzò lui.
«Non voglio che tu te ne vada» sussurrò. «Non sopporto l’idea di non…»
Lasciò la frase in sospeso; Xcor abbassò la testa e la baciò sul lato del collo. Non disse nulla e lei non si stupì. Che cosa poteva dire? Lei aveva i suoi figli e, per quanto lo amasse, non li avrebbe portati nel Vecchio Continente. Avevano bisogno del loro padre.
E poi Qhuinn non lo avrebbe mai permesso.
«Non pensarci, femmina.»
Aveva proprio ragione lui. Aveva il resto della vita per sentire la sua mancanza. Perché cominciare adesso, quando Xcor era ancora lì con lei?
«So così poco di te» mormorò. «Come sei cresciuto. Dove hai viaggiato. Come mai sei venuto qui.»
«Non c’è niente da dire.»
«Non sarà piuttosto che non vuoi farmelo sapere?»
Lui le rispose col suo silenzio. Ma lei aveva letto parecchie cose sul suo conto, su al Santuario. La tristezza che le suscitava la crudeltà di cui era stato vittima era un dolore che sentiva fino in fondo all’anima, soprattutto quando pensava a Rhamp. L’idea che un genitore potesse decidere di rifiutare una creatura innocente semplicemente perché aveva un difetto di cui non aveva nessuna colpa…
Era qualcosa di inconcepibile, eppure non faceva che pensarci.
«Non abbiamo più molto tempo» disse piano, malgrado si fosse appena ripromessa di non rimuginare sulla loro separazione. «Appena troverai i tuoi compagni li porterai da Wrath, loro gli giureranno fedeltà… e dopo partirete. Devo condensare una vita intera nelle poche notti che ci restano.»
«Andrai avanti con la tua vita.»
«Anche tu» ribatté lei. «Solo che non lo faremo insieme. Perciò, ti prego, apriti. Adesso che abbiamo ancora un po’ di tempo… raccontami tutto… le cose belle e quelle brutte, senza tralasciare niente, così potrò conoscerti a fondo.»
«Se non vuoi perdere tempo, non parliamo.»
Ma quando fece per baciarla, lei lo trattenne. «Non ho paura del tuo passato.»
«Invece dovresti» ribatté lui, in un sussurro.
«Non mi hai mai fatto del male.»
«Non è vero, e lo sai.»
Lei allora rammentò quando l’aveva mandata via. Xcor si tirò su a sedere, accese la luce e districò i piedi dalle lenzuola. Ma non se ne andò.
Quando si prese la testa tra le mani, lei avrebbe voluto toccarlo, accarezzargli la schiena, consolarlo. Ma si trattenne. Sapeva che era meglio evitare.
«Sento i rimorsi che ti tormentano» sussurrò.
Xcor rimase a lungo in silenzio, poi disse: «Si può essere influenzati in direzioni che…» bruscamente s’interruppe, scuotendo la testa. «No, ho fatto ciò che ho fatto. Nessuno mi ha mai forzato. Ho seguito un essere malvagio e mi sono comportato con malvagità, e ora mi ritengo pienamente responsabile di tutte le mie malefatte.»
«Raccontami» insistette lei.
«No.»
«Io ti amerò comunque.»
Xcor si irrigidì, poi lentamente si girò verso di lei. Il suo volto era segnato da ombre scure, nulla al confronto di quelle nei suoi occhi. «Tu non sai quello che dici.»
«Io ti amo.» Layla posò le mani sulle sue braccia e sostenne fermamente il suo sguardo, sfidandolo a negare ciò che provava. «Mi hai sentito? Ti amo
Xcor scosse la testa e distolse lo sguardo. «Tu non mi conosci.»
«Allora aiutami a conoscerti.»
«Per rischiare che tu mi cacci? Dici di voler passare insieme il tempo che ci resta, ma ti garantisco che non accadrà se mi conoscerai meglio.»
«Non ti caccerei mai via.»
«L’ha già fatto la mia mahmen, perché tu dovresti essere diversa?» Xcor scosse di nuovo la testa. «Forse lei sapeva che strada avrei preso. Forse… non è stata colpa del labbro.»
Layla sapeva di dover procedere coi piedi di piombo. «Tua madre ti ha abbandonato?»
«Mi hanno affidato a una femmina… una bambinaia… finché anche lei mi ha lasciato.»
«E tuo padre?» chiese lei, tesa. Anche se qualcosa già sapeva.
«Pensavo che fosse il Carnefice. Me l’aveva detto lui, ma poi ho scoperto che non era vero.»
«Non hai mai… provato a scoprire chi è tuo padre?»
Xcor spalancò le mani, poi le strinse con forza. «Sono giunto alla conclusione che in una famiglia la biologia è meno indicativa della libera scelta. I miei compagni, i miei soldati, mi hanno scelto. Hanno scelto di seguirmi. Sono loro la mia famiglia. Due individui che mi hanno concepito e fatto nascere per poi abbandonarmi quando non ero in grado di sopravvivere da solo…? Non ho bisogno di sapere chi sono o dove sono.»
Con una fitta di terrore, lei se lo figurò prima neonato e poi bambino, incapace di difendersi, e infine adolescente, costretto ad affrontare la transizione senza alcun aiuto.
«Come sei riuscito a sopravvivere?» chiese con un filo di voce.
«Ho fatto ciò che andava fatto. E ho combattuto. Sono sempre stato bravo a combattere. È l’unico lascito di valore dei miei genitori.»
«E la transizione… come sei riuscito a superarla?» era sinceramente interessata perché non se ne faceva cenno nel volume al Santuario.
«Ho dato alla puttana che mi ha nutrito il cottage in cui abitavo. Ho dovuto pagarla così, altrimenti non mi avrebbe permesso di abbeverarmi alla sua vena. Mi è parso uno scambio equo: la mia vita in cambio della mia casa. Ho pensato che potevo trovare un altro posto in cui vivere, e così è stato.»
Layla si mise a sedere tirando su le lenzuola fino al mento. «Io non potrei mai fare questo a un bambino. Non potrei mai.»
«Ecco perché sei una femmina di valore.» Xcor scrollò le spalle. «E poi io ero una specie di aborto. Sono sicuro che entrambi i miei genitori avrebbero preferito che morissi nel grembo materno o subito dopo, anche se ciò significava far morire di parto la mia mahmen. Meglio un figlio morto che metterne al mondo uno come me.»
«Ma è sbagliato.»
«Così è la vita, lo sai bene.»
«E dopo sei andato al campo militare.»
Xcor la guardò, duro. «Sei proprio decisa a cavarmi fuori tutto, eh?»
«Non devi nasconderti con me.»
«Vuoi sapere come ho perso la verginità, allora?» sbottò lui. «Eh? Vuoi saperlo?»
Lei chiuse brevemente gli occhi. «Sì.»
«Aspetta, forse dovrei essere più preciso: vuoi sapere quando ho fottuto una femmina per la prima volta… o quando ho fatto sesso per la prima volta? Perché non sono la stessa cosa. La prima mi è costata dieci volte la tariffa corrente con una prostituta del Vecchio Continente… e subito dopo lei è corsa al fiume a lavare via ogni traccia dell’amplesso. Dalla foga con cui si è gettata in acqua temevo addirittura che affogasse.»
Layla ricacciò indietro le lacrime. «E… l’altra?»
Lui si rabbuiò per la rabbia. «Sono stato stuprato da un soldato. Davanti a tutto il campo militare. Perché lui mi aveva battuto in duello. Ho sanguinato per ore, dopo.»
Lei chiuse gli occhi e si scoprì a pregare in silenzio.
«Mi vuoi ancora, adesso?» chiese beffardo Xcor.
«Sì.» Lei aprì le palpebre e lo guardò. «Non sei sporco ai miei occhi. E non sei meno maschio.»
Il sorriso che lui le rivolse la spaventò, tanto era gelido e distante. «Anch’io ho riservato lo stesso trattamento ad altre reclute, a proposito. Quando le ho battute.»
Il dolore che la straziava era così profondo che andava ben oltre le lacrime.
Sapeva con esattezza cosa stava facendo Xcor: la stava respingendo di nuovo, sfidandola ad andare via perché non fosse lei a dirgli di andarsene. L’aveva già fatto una volta; cos’altro ci si poteva aspettare, d’altronde, da chi in vita sua era sempre stato respinto?
«Lo vuoi ancora, questo? Pensi ancora di amarlo?» Quando lei non disse nulla, Xcor indicò la propria faccia e poi il proprio corpo, come se appartenessero a qualcun altro. «Allora, femmina, cosa rispondi?»