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Una volta certo che Layla si fosse completamente
smaterializzata dal ranch, Xcor andò in missione di ricerca dentro
casa, passando rapidamente in rassegna tutti gli armadi, i cassetti
e i possibili nascondigli delle camere da letto. Partendo dal
presupposto che se i Fratelli ogni tanto dormivano lì ci avrebbero
tenuto delle armi, pensava di scovarne qualcuna… ma alla fine non
trovò nulla.
Molto
frustrante.
In
compenso recuperò qualche indumento pesante adatto alla stagione.
Nel corridoio che conduceva al garage c’era un armadio dove trovò
un parka e pantaloni da neve della sua misura, oltre a un paio di
guanti da sci e un berretto di lana. Purtroppo, essendo neri, in
mezzo a tutta quella neve lo avrebbero fatto risaltare come un
fuoco artificiale al buio, ma questo passava il
convento…
Per
fortuna trovò qualcos’altro in grado di compensare quel colore
potenzialmente pericoloso.
Dopo
essersi imbacuccato entrò nel garage dove era parcheggiata la Range
Rover che la sera prima li aveva portati fuori dalla foresta. Con
quelle strisciate bianche lungo le fiancate e sopra al paraurti
anteriore e al cofano, sembrava uscita da un bagno di sale. Niente
chiavi, il che non fu una sorpresa: era logico che Vishous le
portasse via con sé.
Il SUV non era chiuso a chiave, però, e ciò che lui sperava di
trovare era nel vano posteriore: da un kit per le emergenze prese
tre razzi di segnalazione rossi, li infilò dentro al parka e tirò
su la cerniera.
Dopodiché tornò in casa, inserì l’allarme e uscì lesto
dalla vetrata scorrevole in cucina. Non prevedeva che Layla
rincasasse durante la notte ma, nel caso, la voleva in una casa
almeno teoricamente sicura. Una volta uscito, inoltre, non aveva
modo di chiudere a chiave, ammesso che volesse rientrare al ranch
per passarvi la giornata.
Cosa di
cui non era sicuro.
Fuori
sulla veranda il maltempo sferrò un attacco in grande stile contro
di lui; la neve, fittissima, veniva sospinta da violente raffiche
di vento, in una sorta di molteplice tormenta nella tormenta. La
visibilità era scarsissima ed era pronto a scommettere che c’erano
pochissimi umani in circolazione. Il che avrebbe giocato a suo
favore.
Chiuse
gli occhi e si smaterializzò…
…
rimaterializzandosi in un quartiere a circa venticinque chilometri
a sud-ovest.
Una
volta riacquistata la forma corporea si trovò in una strada senza
uscita tra due case a due piani in stile coloniale, più pregevoli
del ranch, ma lontanissime dal rango di ricche magioni.
Tutt’intorno c’erano parecchie luci accese, nei salotti e nelle
camere da letto, agli angoli dei garage e tra gli alberi, ma sotto
quella fitta cascata di fiocchi di neve non illuminavano
granché.
Piegandosi controvento percorse a piedi il resto del
tragitto, coi pesanti stivali che sollevavano la neve fresca e
l’udito che andava e veniva a seconda di come soffiava il vento. La
proprietà che cercava era verso il fondo e anch’essa, come le
altre, era illuminata. Xcor si fermò di fronte a essa e dalle
finestre vide un umano allampanato di quindici o sedici anni che
entrava in salotto e diceva qualcosa a una umana di mezza età
seduta davanti a un camino acceso, intenta a parlare al
cellulare.
Xcor
risalì il vialetto che ormai non aveva più nulla del viale
d’accesso: prima della fine della bufera nessuno provava a spalare
via la neve. Giunto davanti alla porta d’ingresso, su cui era stata
appesa una ghirlanda di sempreverdi, provò ad abbassare la maniglia
di ottone.
La
porta non era chiusa a chiave, quindi l’aprì ed entrò.
Nel
salotto tutto si svolse come al rallentatore. Il ragazzo si lanciò
un’occhiata alle spalle e balzò indietro, allarmato. La femmina
scattò in piedi facendo volare la grossa tazza da cui stava
bevendo, insieme al suo contenuto.
Xcor
chiuse la porta e il figlio corse a nascondersi dietro la
madre.
Vigliacco.
Ma
quando la madre lo spinse ancora di più dietro di sé, anche se era
più alto di lei e probabilmente anche un po’ più forte, Xcor provò
una sgradita fitta di gelosia.
«C-cosa… cosa vuoi?» chiese la femmina.
Una
ciocca di capelli castani le scivolò davanti agli occhi e lei la
soffiò via, avendo le mani occupate a tenere relativamente al
sicuro il figlio.
«C’è…»
riprese con voce stridula. «La mia borsa è in cucina, sopra al
bancone. Prendi quello che vuoi, c’è… ho dei gioielli su di sopra.
Ma ti prego… non farci del male.»
Xcor
scrutò come da una distanza infinita le sue guance arrossate e il
suo corpo tremante. Poi si guardò intorno. I mobili erano cambiati
da quando lui e i suoi compagni avevano alloggiato sotto quel
tetto, il divano componibile non c’era più, così come il perenne
disordine di cartoni di pizza e borsoni, armi e munizioni, stivali
e coltelli.
«Non
sono venuto per i tuoi soldi» disse a bassa voce.
La
donna chiuse brevemente gli occhi, sbiancando in
volto.
«E non
sono venuto neanche per voi.» Xcor alzò una mano perché sapeva che
tutti e due si sarebbero focalizzati su di essa. «Non sono uno
stupratore di femmine e ragazzini.»
Appena
gli umani puntarono gli occhi sulla mano alzata, lui s’insinuò
nelle loro menti paralizzandoli, in modo che potessero solo
respirare e battere le palpebre. Dal cellulare che la madre aveva
lasciato cadere per terra una voce spaventata chiedeva
ripetutamente che qualcuno rispondesse.
Ma
c’era da scommettere che parlare con un vampiro non avrebbe
rassicurato l’interlocutore sempre più agitato all’altro capo della
linea.
Lasciandolo perdere, Xcor batté i piedi sul tappetino per
liberare il più possibile gli stivali dalla neve e poi salì le
scale due gradini alla volta. Giunto al primo piano entrò nella
camera da letto principale, ritappezzata con gusto in bianco e
azzurro.
Niente
più fronzoli orrendi. Erano sparite anche le roselline che
costellavano il bagno rosa.
Per
quanto all’epoca tutto ciò fosse stato un pugno in un occhio, non
perse tempo ad ammirare i miglioramenti nell’arredamento e puntò
dritto verso l’armadio alto e stretto accanto alla doccia, dove,
quando aveva soggiornato lì, avrebbe tenuto gli asciugamani, se ne
avesse avuti…
Ah,
adesso naturalmente le mensole erano piene di asciugamani di spugna
di un bianco immacolato, piegati e impilati con cura.
Xcor si
mise in ginocchio e tirò fuori i prodotti per la pulizia, in basso,
scoprendo il pavimento piastrellato che, fortunatamente, il padrone
di casa aveva lasciato com’era. Il pannello che aveva creato ai
tempi misurava trenta centimetri per trenta ed era proprio in
fondo; dovette togliersi i guanti per localizzarne il bordo e
sollevarlo con la punta delle dita. Dopodiché allungò il braccio e
infilò la mano dentro al nascondiglio.
Le due
semiautomatiche calibro quaranta erano esattamente dove le aveva
lasciate.
E così
pure la scatola di munizioni.
Alla
fine rimise a posto il coperchio dello scomparto segreto per
ridurre al minimo la quantità di roba da cancellare dalle menti
degli umani al piano di sotto.
Uscito
dal bagno, passò accanto al letto e si fermò un attimo sulla
soglia. Lanciandosi un’occhiata alle spalle, ripensò al periodo che
lui e i suoi soldati avevano trascorso in quella casa.
E
rimase sorpreso da quanto desiderasse rivederli.
Scese
in un baleno e si ritrovò al pianterreno con la donna e il ragazzo.
Erano ancora lì in piedi, insieme, la madre che cercava di
proteggere l’amato figlio facendogli da scudo col corpo che lo
aveva messo al mondo.
Xcor
penetrò di nuovo nelle loro menti. «Avete sentito un rumore. Siete
usciti a controllare. Non era niente. Quando siete tornati dentro,
gli stivali bagnati hanno lasciato una pozza d’acqua sul tappetino.
Strana serata. Sarà stata colpa del vento. Per fortuna non era
niente.»
Xcor si
smaterializzò all’esterno e per un attimo rimase a guardarli mentre
si svegliavano, guardandosi perplessi, senza capire perché si
stringevano convulsamente le mani. Poi la madre si portò una mano
alla tempia, massaggiandola come se le facesse male la testa, e il
ragazzo si guardò intorno, sgranchendosi il collo.
Guardarono entrambi verso la porta.
Quando
la femmina si chinò a raccogliere il telefono, Xcor si
allontanò.
Il
Santuario era proprio un luogo sacro di pace e tranquillità. Seduta
fuori, vicino alla fontana della Vergine Scriba con i suoi due
figli, Layla fece un gran sospiro. Si erano sistemati tutti e tre
sopra una coperta morbida e pesante e la temperatura era perfetta,
l’aria era piacevolmente calda come l’acqua di un bagno. In alto,
il cielo lattiginoso era luminoso senza essere abbagliante e il
marmo bianco del cortile brillava, come illuminato
dall’interno.
Lyric e
Rhamp avevano fatto il viaggio alla grande e Cormia, quasi intuendo
che lei desiderava stare un po’ da sola con loro, se n’era andata
appena i gemelli erano stati sistemati lì fuori, vicino all’acqua
zampillante e all’albero in fiore pieno di nuovi uccellini
cinguettanti.
Layla
piegò le gambe sotto di sé e fece dondolare un tulipano giallo
prima sopra uno e poi sopra l’altro dei neonati… e dopo di nuovo
sopra il primo.
«Non è
bellissimo? Tulipano… questo è un tulipano.»
Già, i
petali erano di un colore misteriosamente vivido e brillante, come
l’erba verde e l’acqua azzurra. Era una particolarità che aveva a
che fare con la luce del Santuario, che arrivava da chissà dove e
cadeva senza un’angolatura particolare – o forse c’entrava una
qualche forma di magia sacra.
Si
vedeva che i suoi tesori traevano beneficio dall’energia insita in
quel luogo: le loro gote erano sempre più rosee, gli occhi
brillavano di una luce ancora più sana, i movimenti erano più
coordinati.
Sì, era
evidente che dentro le loro vene scorreva il suo sangue. Persino
Rhamp, che assomigliava a Qhuinn in maniera impressionante, era
palesemente figlio di un’Eletta. Le Elette stavano sempre meglio
quando salivano lì per ricaricarsi.
Perciò
forse quella sistemazione era un bene…
La
strana sensazione di essere osservata la spinse a voltarsi. Ma non
c’era nessuno sotto il colonnato, nessuno sotto l’arcata aperta su
quelli che un tempo erano gli appartamenti privati della Vergine
Scriba. Nessuno da nessuna parte.
Layla
rammentò quando le cose erano profondamente diverse, quando le
Elette, lì al Santuario, portavano in grembo e crescevano le future
generazioni di Elette e di Fratelli, e servivano la Vergine Scriba
seguendo il suo calendario per il culto, il riposo, le cerimonie.
Era stato un tempo di gioia e felicità, fermezza e appagamento –
seppur con notevoli sacrifici.
E senza
colore. Da nessuna parte.
Allungò
una mano per accarezzare la guancia vellutata di Lyric. Per quanto
venerasse tuttora la Vergine Scriba e le tradizioni un tempo tanto
apprezzate e rispettate, era lieta che sua figlia non fosse
costretta in un ruolo senza via d’uscita e unicamente al servizio
altrui.
Sì, per
quanto le mancassero i bei tempi andati e le antiche usanze, e per
quanto la rattristasse vedere quel luogo meraviglioso così deserto
e senza vita, non aveva rimpianti.
Apparteneva alla generazione che aveva conosciuto sia la
schiavitù che la liberazione, e quest’ultima non era certo priva di
difficoltà e tragedie. Ma adesso almeno aveva la sensazione di
sapere chi era lei come individuo, aveva desideri tutti suoi e non
regolamentati da altri. Aveva anche due figli che sarebbero stati
liberi di scegliere chi volevano essere e cosa volevano fare nella
vita.
È
sempre preferibile seguire un proprio percorso personale, anche se
accidentato, piuttosto che uno liscio come l’olio, ma imposto da
altri, senza possibilità di scelta.
Il
primo è più arduo, ma di gran lunga più vitale. Il secondo è come
una morte in vita. Solo che non ti accorgevi che stavi morendo
perché eri in coma…