27
Intanto, da shAdoWs, Trez era fermo ai bordi della pista da ballo con gli occhi apparentemente fissi sulla folla che aveva davanti. In realtà non vedeva niente. Né le luci laser viola né le nuvole di fumo sputate fuori dalle apposite macchine e di certo neanche gli umani pigiati come tanti cucchiai dentro al cassetto delle posate.
La decisione di andare via, come tutto il resto quella sera, giunse improvvisa, e contro quell’imperativo lui era impotente.
Andò al bar, dove trovò Xhex con le braccia conserte e gli occhi socchiusi su un paio di imbecilli che reclamavano un altro giro di drink malgrado fossero già ben oltre il limite legale – e probabilmente anche strafatti.
«Tempismo perfetto» borbottò lei sovrastando il baccano di musica e sesso. «So quanto ti piace vedermi pulire il pavimento con qualche umano.»
«A dire il vero devo andare. Forse stasera non torno, va bene?»
«Benissimo, scherzi? Da quant’è che ti dico di prenderti una pausa?»
«Chiamami, se hai bisogno.»
«Tranquillo.»
Cosa insolita per lui, Trez le mise una mano sulla spalla e le diede una strizzatina – e se quel gesto la sorprese, Xhex non lo diede a vedere – dopodiché si voltò…
La sua responsabile della sicurezza lo prese per il polso e lo fermò. «Vuoi che ti accompagni qualcuno?»
«Come, scusa?»
Lei lo scrutò in volto con quegli occhi grigio piombo, così assorta da dargli l’impressione di riuscire a vedere fino in fondo alla sua anima. Symphath della malora. Trasformavano l’intuito in una brutta cosa, almeno quando cercavano di cogliere lo stato d’animo altrui.
«La tua griglia è tutta sballata, Trez. Dai, andiamo.»
«Cosa?»
Lei lo agguantò per il braccio trascinandolo verso il retro del locale, dove le prostitute si cambiavano e venivano scaricate le consegne.
«Sto bene, davvero.»
Incurante delle sue proteste, Xhex lo spinse fuori dalla porta posteriore della discoteca, poi tirò fuori il telefono e cominciò a digitare un SMS.
Trez capì al volo l’antifona e alzò le braccia. «Non disturbare iAm… Xhex, sul serio, non c’è bisogno di…»
Xhex aveva abbassato il cellulare da appena un secondo – letteralmente – quando suo fratello si smaterializzò sul posto in toque e tenuta bianca da chef, con uno strofinaccio in mano.
«Okay, tutto questo è ridicolo.» Trez si schiarì la voce per suonare più convincente. «Sono perfettamente in grado di andare dove devo andare.»
«E cioè?» chiese iAm. «In una pensioncina dall’altra parte della città? Al secondo piano, magari? Qual era il numero dell’appartamento? E non dirmi che non hai dato una sbirciata a quel cazzo di curriculum.»
«Vi spiace dirmi di cosa cavolo state parlando, ragazzi?» intervenne Xhex, guardando prima uno e poi l’altro. «E magari anche spiegarmi perché uno che negli ultimi mesi era mezzo morto per via del recente lutto tutt’a un tratto puzza come un innamorato?»
«No» disse Trez. «Non sentiamo nessun bisogno di spiegartelo.»
Lanciò un’occhiataccia in direzione di suo fratello… chiedendosi se gli sarebbe toccato fare a botte. Ma iAm scosse la testa in silenzio.
«È una lunga storia» bofonchiò lo chef. «Dai, Trez, ti porto a casa.»
«Posso benissimo smaterializzarmi.»
«Sì, ma la domanda è: lo farai?»
«Non hai tempo per queste cose» disse Trez, mentre suo fratello si avviava verso la sua BMW.
Che, sì, era dello stesso anno e dello stesso modello di quella di iAm. Avevano fatto un affarone comprandone due insieme… sì, be’, e allora?
Oh, ma pensa, iAm si era anche ricordato di portarsi dietro le chiavi. Neanche avesse pianificato tutto, magari addirittura con Xhex.
Prendi nota, Trez: fatti ridare quel mazzo di chiavi. E se non ci riesci comprati un’auto nuova.
«Dai» lo incalzò iAm. «Andiamo.»
Mentre quei due lo guardavano neanche gli fosse spuntato un corno in mezzo alla fronte, Trez valutò l’ipotesi di smaterializzarsi mollandoli lì per conto loro, iAm senza nessuno da scarrozzare e Xhex con le sue teorie psichiatriche sulla sua “griglia”, qualunque cosa fosse. Ma, per quanto detestasse ammetterlo, in un angolo della sua mente una vocina, guarda caso, concordava con loro.
Per cui sì, da bravo idiota qual era salì in macchina e si allacciò perfino la cintura di sicurezza – e, senza perdere altro tempo, iAm sfrecciò verso la Northway uscendo dalla città a velocità supersonica.
«Sei andato al suo appartamento, vero?»
Trez accese Sirius XM, anche se la testa aveva ricominciato a pulsare. Kid Ink stava rappando Nasty. Con quelle sconcezze in sottofondo chiuse gli occhi… e ripensò a quel bacio. Era uscito di testa, cazzo? La sua shellan era morta da neanche tre mesi e lui si metteva a pomiciare con una sconosciuta?
Ecco cosa lo aveva turbato, il motivo per cui aveva dovuto lasciare la discoteca. Stare lì con tutti quegli umani che slinguavano davanti a lui e scopavano nei bagni che aveva fatto costruire apposta per quello scopo aveva fatto spiccare come un cartellone di Las Vegas quello che aveva fatto con Therese – e il senso di colpa che gli aveva scombussolato le viscere era peggio di un’intossicazione alimentare.
Aveva una nausea tremenda e le vertigini, si sentiva tutto gonfio e debole.
iAm spense la radio. «Allora?»
Trez girò la testa, scrutando le auto nella prima corsia – che lui e suo fratello superavano neanche fossero parcheggiate lungo la strada. «Sì, ci sono andato. Sta in uno schifo di posto. Lì non è al sicuro. La assumerai, giusto?»
«No, non me lo sogno nemmeno.»
Trez dirottò l’attenzione dal traffico serale ai palazzi assiepati intorno all’autostrada, ora che dall’area urbana si passava a quella suburbana.
Dietro quella distesa di finestre vedeva persone che passavano da una stanza all’altra, che se ne stavano sedute sul divano o che leggevano a letto.
In quel preciso momento avrebbe fatto a cambio con una qualunque di loro, anche se erano umani.
«Non toglierle un’opportunità per colpa mia» disse, stropicciandosi gli occhi e battendo le palpebre per far sparire i puntini dal suo campo visivo. Viaggiare al buio lo mandava sempre in crisi, maledizione. «Non è giusto.»
Dio, non riusciva a credere di aver baciato un’altra femmina. Quando, stretta contro di lui, Therese lo aveva guardato negli occhi, era stato facile convincersi che fosse Selena reincarnata. Ma col tempo e la distanza era tornata la logica: lei era solo un’estranea somigliante alla femmina che aveva perduto.
Merda. Aveva posato la bocca su quella di un’altra femmina.
Cercando di non pensarci, si girò verso suo fratello. «Dico sul serio, iAm. Se è qualificata per il lavoro, prendila. Deve andare via da quel postaccio orrendo… non le darò fastidio. Non tornerò più in quella topaia.»
«Be’, non mi va nemmeno che eviti di venire al ristorante per colpa sua.»
Trez riportò l’attenzione sulla strada davanti a loro, ma i fanali dei veicoli sulla carreggiata opposta gli facevano girare la testa. Si stropicciò di nuovo gli occhi, con lo stomaco in subbuglio.
«Ehi, mi fai un favore?»
iAm lo guardò. «Certo, tutto quello che vuoi. Cosa ti serve?»
«Accosta.»
«Cosa…»
«Subito, cazzo.»
iAm sterzò bruscamente verso il ciglio della strada e, prima ancora che l’auto si fermasse, Trez aprì la portiera – il che innescò il dispositivo di sicurezza che bloccava le ruote.
Proprio come aveva detto Therese.
Sporgendosi fuori il più possibile, vomitò il po’ di roba che aveva nello stomaco, ovvero nient’altro che bile. Tra un conato e l’altro, e con un’altra ondata di nausea in arrivo, imprecò, accorgendosi che i puntini si stavano organizzando in un’aura.
Emicrania. Stupida emicrania del cazzo.
«Mal di testa?» disse iAm mentre un TIR li sorpassava rombando.
Stare fermi lì era pericoloso, pensò Trez, mentre il freddo si insinuava all’interno della BMW. Avrebbero dovuto imboccare un’uscita…
Rispose alla domanda del fratello rigettando un altro po’, prima di abbandonarsi pesantemente sul sedile. Senza nessun motivo particolare abbassò gli occhi sui pantaloni bianchi e notò che c’erano dei segnacci, conseguenza di quando era svenuto per terra.
Ecco perché non bisogna vestirsi di bianco.
«Cosa posso fare?» chiese iAm.
«Niente.» Trez chiuse la portiera. «Andiamo avanti. Cercherò di resistere – però possiamo abbassare il riscaldamento?»
Non ricordava granché del viaggio di ritorno al palazzo; aveva passato il tempo a monitorare l’evoluzione dell’aura da un fitto raggruppamento di punti luminosi al centro del campo visivo a quando aveva spalancato le ali volando verso l’esterno. Ricordava solo che a un certo punto suo fratello lo stava aiutando a scendere dalla macchina per poi scortarlo come un invalido fino al sontuoso ingresso. Una volta dentro, l’atrio, con tutte quelle colonne colorate, le dorature e quei maledetti lampadari di cristallo, bastò a fargli tornare la nausea.
«Mi sa che sto per…»
Fritz, il maggiordomo, gli allungò proprio al momento giusto un sacchetto per il vomito. Un sacchetto per il vomito. Un sacchetto per il vomito verde brillante di quelli che si usano in ospedale.
Piegato in due, con l’apertura circolare del sacchetto premuta contro la bocca, fu assalito da tre domande: 1) chi cazzo se ne va in giro con dei sacchetti per il vomito pronti all’uso? 2) cos’altro aveva il doggen dentro quel suo vestito da pinguino? e 3) quel coso doveva proprio essere verde bile?
Se volevi produrre una roba in cui far vomitare la gente, dovevi proprio farla color crema di piselli?
Perché non un allegro giallo limone? O un bel bianco immacolato.
Per quanto, visto com’erano ridotti i suoi calzoni…
Quando alla fine si raddrizzò, il classico incudine-piazzato-su-metà-della-sua-zucca ci stava già dando dentro di brutto e i suoi ragionamenti avevano iniziato ad assumere la contorta bizzarria che accompagnava le sue emicranie.
«Mi aiuti a salire di sopra?» farfugliò, a nessuno in particolare.
Non fu una sorpresa che fosse iAm a farsi avanti, sorreggendolo fino alla sua nuova camera, quella che occupava da quando Rhage, Mary e Bitty si erano trasferiti nelle suite al secondo piano.
Attraversarono la stanza fino a letto, dove si stese supino.
Come al solito sdraiarsi gli procurava solo un leggero sollievo, una tregua di breve durata durante la quale lo stomaco si assestava e la testa tirava il fiato – dopodiché le cose andavano cento volte peggio.
Per fortuna iAm sapeva con esattezza cosa gli serviva. Uno dopo l’altro, gli tolse i mocassini, ma non le calze, perché durante i mal di testa le sue estremità si raffreddavano per problemi di circolazione. Poi gli sfilò cintura e pantaloni e gli rimboccò bene il piumone intorno al corpo, avvolgendolo a mo’ di taco. La giacca rimase al suo posto e così pure la camicia. Levargliele avrebbe richiesto troppi spostamenti, col rischio di farlo vomitare di nuovo.
Proprio quello che andava evitato quando avevi già la testa che ti scoppiava.
Poi fu la volta delle tende, che vennero tirate anche se era una notte senza luna. Seguì il trasferimento di fianco al letto del cestino della carta straccia e l’inevitabile infossamento del materasso quando iAm si sedette accanto a lui.
Dio, avevano seguito la stessa trafila un’infinità di volte.
«Promettimi che le darai il lavoro» disse Trez nel buio delle palpebre abbassate. «Non le andrò dietro, giuro. Non voglio rivederla mai più, in realtà.»
Altrimenti rischiava seriamente di combinare qualche altra stupidaggine…
Risentendo il sapore di Therese sulla lingua gemette, col cuore a pezzi.
«Vorrei tanto che prendessi qualche medicina per questi attacchi.» iAm imprecò sottovoce. «Non sopporto di vederti soffrire così.»
«Passerà. Passa sempre. Assumi quella femmina, iAm. Non le darò fastidio.»
Attese che suo fratello dicesse qualcosa, una qualche replica o obiezione, e quando non accadde aprì gli occhi – ma subito trasalì con una smorfia. L’unica illuminazione proveniva dalla porta socchiusa sul corridoio, ma era comunque troppo per i suoi occhi ipersensibili.
«Lo so che non è Selena» biascicò. «Fidati. So perfettamente che non è la mia femmina.»
Diamine, le implicazioni di quel bacio erano la causa scatenante di quella cazzo di emicrania. Il rimorso gli aveva letteralmente fatto scoppiare la capoccia: il senso di colpa come evento vascolare.
La dottoressa Jane avrebbe dovuto sputtanarlo su una rivista medica.
«Non punirla per un mio errore.»
O almeno era quello che aveva in mente di dire. Ma chissà cosa gli era uscito di bocca.
«Adesso riposati» disse iAm. «Vado a dire a Manny di venire su a darti un’occhiata.»
«No, non disturbarlo.» O roba del genere. «Però c’è un favore che potresti farmi.»
«Cioè?»
Trez si sforzò di aprire le palpebre e alzò la testa, anche se girava tutto. «Vai a cercarmi Lassiter. Porta qui quel cavolo di angelo caduto.»
* * *
«Adesso, se non ti spiace, vado su di sopra a scambiare due parole con l’Eletta» disse Wrath.
Layla non si lasciò trarre in inganno. Il tono del Re lasciava chiaramente intendere che non stava chiedendo a Xcor il permesso di parlare con uno dei suoi sudditi.
Wrath aveva la voce ruvida come carta vetrata.
Ma anche lei voleva parlargli in privato e, quando Wrath indicò le scale, annuì. Con una rapida occhiata a Xcor si affrettò a salire, aprendo la porta in cima alla rampa e facendosi forza per guardare negli occhi Vishous.
Non aveva motivo di preoccuparsi.
Il Fratello, in piedi vicino al tavolo, evitò ostentatamente di voltarsi verso di lei; prese la tazza che stava usando come posacenere e uscì dalla vetrata scorrevole.
Il Re salì più lentamente e lei si sentì in colpa per non averlo aiutato.
«Mio Signore» disse, «c’è un tavolo sulla destra, a quattro o cinque metri…»
«Bene.» Wrath chiuse la porta della cantina. «Ti conviene sederti. Vishous è fuori? Sento profumo di aria fresca.»
«Ehm…» Layla deglutì a fatica. «Sì, è sulla veranda. Vuoi… vado a chiamartelo?»
«No. Voglio parlarti in confidenza.»
«Certo.» Layla si inchinò, anche se lui non poteva vederla. «Sì, credo che mi siederò.»
«Brava.»
Il Re rimase fermo dov’era, davanti alla porta che aveva chiuso alle sue spalle – e per un attimo lei provò a immaginare come sarebbe stato vivere senza nessun punto di riferimento visivo. Davanti a lui poteva esserci di tutto: una botola spalancata, delle puntine da disegno sparse sul pavimento o… chissà cos’altro. Eppure Wrath sembrava capacissimo di affrontare qualunque cosa, pensò, scrutando la sua espressione decisa. Quanto lo invidiava per questo.
«Siediti, allora. Che cosa aspetti?»
Come faceva a sapere che era ancora in piedi? si chiese lei, affrettandosi a prendere posto su una delle quattro sedie.
«Sì, mio Signore!»
Wrath prese a parlare con voce calma e pacata, snocciolando una serie di frasi piene di parole che, in circostanze diverse, lei avrebbe capito senza problemi.
In quel caso, tuttavia, dopo «I tuoi figli sono…» non riuscì ad afferrare quasi più nulla.
«… ogni due notti, in base ai turni di riposo di Qhuinn. È una soluzione equa, e credo che tuteli gli interessi di tutti. Fritz avrà in compito di accompagnarti da…»
«Domando scusa» lo interruppe lei con voce strozzata. «Potresti… per favore potresti ripetere quello che hai appena detto?»
Il Re parve addolcirsi in volto. «Voglio che tu possa tenere i tuoi figli a notti alterne, dalla sera di un giorno a quella del giorno dopo. Okay? Tu e Qhuinn vi spartirete equamente la custodia fisica, metà per ciascuno, e sarete corresponsabili di tutte le decisioni relative al loro benessere.»
Layla batté freneticamente le palpebre, consapevole che stava tremando tutta. «Quindi non sono tagliata fuori dalla loro vita.»
«No.»
«Oh, mio Signore, grazie.» Layla si tappò la bocca con la mano. «Non avrei potuto andare avanti senza di loro» aggiunse poi, senza spostare la mano.
«Lo so. Lo capisco, fidati. E il Santuario garantirà che stiate al sicuro.»
Layla trasalì. «Come hai detto, scusa?»
«Li porterai al Santuario e resterai con loro negli alloggi privati della Vergine Scriba – tanto lei ormai non li usa più. È il posto più sicuro per voi tre perché non è nemmeno sulla Terra. Phury e Cormia mi hanno assicurato che sarai in grado di viaggiare avanti e indietro con i bambini senza problemi, alla maniera delle Elette – basta che li stringi a te e via.» Wrath scosse la testa. «Qhuinn andrà su tutte le furie quando glielo comunicherò, ma non potrà mettere in dubbio che lassù i gemelli staranno benone. E quando non sono con te… sei libera di andare dove ti pare, di stare con chi ti pare e puoi usare questo posto come punto d’appoggio.»
Seguì un attimo di silenzio durante il quale Layla arrossì.
Perché Wrath sapeva benissimo cosa avrebbe voluto fare lei, e con chi. Almeno finché Xcor non partiva per il Vecchio Continente.
«Sì» disse lentamente. «Sì, sì, benissimo.»
«C’è una condizione, però: devi riportarli giù quando tocca a Qhuinn tenerli. Proprio come lui dovrà darteli quando è il tuo turno. Il calendario delle visite va rispettato da tutti e due.»
«Assolutamente. I piccoli hanno bisogno del loro padre. Lui è una figura molto importante nella loro vita e non farò nulla per mettergli i bastoni fra le ruote.»
E Wrath aveva ragione. Ora che era stata sostanzialmente graziata dalle accuse di alto tradimento, la principale obiezione di Qhuinn al fatto che lei continuasse a vedere i gemelli era che non poteva restare con loro al palazzo della confraternita; e nessun altro luogo, nessuna casa sicura, nessun rifugio, nessuna struttura, neanche messa in sicurezza da centomila Vishous, poteva offrire un livello di protezione anche solo lontanamente simile a quello offerto da quella dimora.
La soluzione? Un luogo al di fuori del pianeta.
Dopo tutto, c’era stato un solo raid al Santuario, qualcosa come venticinque anni prima. Ed era stato un colpo di mano messo in atto da aristocratici scontenti ormai passati a miglior vita.
Lei, Lyric e Rhamp sarebbero stati benissimo lassù, con tutti quei fiori e l’erba verde, la fontana di marmo e i templi. Ci sarebbe stato tantissimo da esplorare mentre i piccoli crescevano e imparavano a camminare.
«È perfetto» disse. «Mio Signore, è perfetto.»
«Adesso vado a casa a parlare con Qhuinn. Lo metterò di turno domani al tramonto. Appena fa buio vieni al palazzo e prendi i bambini.»
Lei chinò il capo. «È… così lunga l’attesa.»
«Non c’è alternativa. Qhuinn è pericolosamente instabile e non voglio che vi incrociate quando gli illustreremo il calendario delle visite o quando verrai a prendere i gemelli. Il tempismo è di cruciale importanza. Però dirò a Beth di mandarti qualche altra foto.»
«Delle fotografie?»
«Sì, non le hai ricevute sul tuo cellulare?»
«Non l’ho portato con me… Beth ha scattato delle fotografie?»
«Tutte le femmine ne hanno fatte. Continuano a scambiarsele e le hanno mandate anche a te… o almeno così mi hanno detto. Non volevano che ti sentissi esclusa.»
«Sono così…» Layla inspirò a fondo. «È molto gentile da parte loro.»
«Sanno cosa stai passando. O se ne sono fatte un’idea, ed è bastato a farle inorridire…»
Layla si coprì la faccia con le mani. Come se questo potesse aiutarla in qualche modo a non crollare.
«Vieni qui.»
Il Re le fece segno di avvicinarsi e lei balzò su dalla sedia e gli corse incontro. Abbracciarlo era come circondare con le braccia un pianoforte a coda, tanto era grosso e granitico.
Ma Wrath la strinse a sua volta, battendole affettuosamente sulla schiena. «Mi faresti un favore?»
Lei tirò su col naso e alzò gli occhi sul mento sporgente del sovrano. «Qualunque cosa.»
«Stai attenta con Xcor. Se anche non ti uccide fisicamente, può sempre rovinarti la vita.»
Layla non poté che scuotere la testa, sconsolata. «L’ha già fatto, mio Signore. Ormai il danno è fatto, temo.»