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Intanto, da shAdoWs, Trez era fermo ai bordi della
pista da ballo con gli occhi apparentemente fissi sulla folla che
aveva davanti. In realtà non vedeva niente. Né le luci laser viola
né le nuvole di fumo sputate fuori dalle apposite macchine e di
certo neanche gli umani pigiati come tanti cucchiai dentro al
cassetto delle posate.
La
decisione di andare via, come tutto il resto quella sera, giunse
improvvisa, e contro quell’imperativo lui era
impotente.
Andò al
bar, dove trovò Xhex con le braccia conserte e gli occhi socchiusi
su un paio di imbecilli che reclamavano un altro giro di drink
malgrado fossero già ben oltre il limite legale – e probabilmente
anche strafatti.
«Tempismo perfetto» borbottò lei sovrastando il baccano
di musica e sesso. «So quanto ti piace vedermi pulire il pavimento
con qualche umano.»
«A dire
il vero devo andare. Forse stasera non torno, va
bene?»
«Benissimo, scherzi? Da quant’è che ti dico di prenderti
una pausa?»
«Chiamami, se hai bisogno.»
«Tranquillo.»
Cosa
insolita per lui, Trez le mise una mano sulla spalla e le diede una
strizzatina – e se quel gesto la sorprese, Xhex non lo diede a
vedere – dopodiché si voltò…
La sua
responsabile della sicurezza lo prese per il polso e lo fermò.
«Vuoi che ti accompagni qualcuno?»
«Come,
scusa?»
Lei lo
scrutò in volto con quegli occhi grigio piombo, così assorta da
dargli l’impressione di riuscire a vedere fino in fondo alla sua
anima. Symphath della malora. Trasformavano l’intuito in una brutta cosa,
almeno quando cercavano di cogliere lo stato d’animo
altrui.
«La tua
griglia è tutta sballata, Trez. Dai, andiamo.»
«Cosa?»
Lei lo
agguantò per il braccio trascinandolo verso il retro del locale,
dove le prostitute si cambiavano e venivano scaricate le
consegne.
«Sto
bene, davvero.»
Incurante delle sue proteste, Xhex lo spinse fuori dalla
porta posteriore della discoteca, poi tirò fuori il telefono e
cominciò a digitare un SMS.
Trez
capì al volo l’antifona e alzò le braccia. «Non disturbare iAm…
Xhex, sul serio, non c’è bisogno di…»
Xhex
aveva abbassato il cellulare da appena un secondo – letteralmente –
quando suo fratello si smaterializzò sul posto in toque e tenuta
bianca da chef, con uno strofinaccio in mano.
«Okay,
tutto questo è ridicolo.» Trez si schiarì la voce per suonare più
convincente. «Sono perfettamente in grado di andare dove devo
andare.»
«E
cioè?» chiese iAm. «In una pensioncina dall’altra parte della
città? Al secondo piano, magari? Qual era il numero
dell’appartamento? E non dirmi che non hai dato una sbirciata a
quel cazzo di curriculum.»
«Vi
spiace dirmi di cosa cavolo state parlando, ragazzi?» intervenne
Xhex, guardando prima uno e poi l’altro. «E magari anche spiegarmi
perché uno che negli ultimi mesi era mezzo morto per via del
recente lutto tutt’a un tratto puzza come un
innamorato?»
«No»
disse Trez. «Non sentiamo nessun bisogno di
spiegartelo.»
Lanciò
un’occhiataccia in direzione di suo fratello… chiedendosi se gli
sarebbe toccato fare a botte. Ma iAm scosse la testa in
silenzio.
«È una
lunga storia» bofonchiò lo chef. «Dai, Trez, ti porto a
casa.»
«Posso
benissimo smaterializzarmi.»
«Sì, ma
la domanda è: lo farai?»
«Non
hai tempo per queste cose» disse Trez, mentre suo fratello si
avviava verso la sua BMW.
Che,
sì, era dello stesso anno e dello stesso modello di quella di iAm.
Avevano fatto un affarone comprandone due insieme… sì, be’, e
allora?
Oh, ma
pensa, iAm si era anche ricordato di portarsi dietro le chiavi.
Neanche avesse pianificato tutto, magari addirittura con
Xhex.
Prendi
nota, Trez: fatti ridare quel mazzo di chiavi. E se non ci riesci
comprati un’auto nuova.
«Dai»
lo incalzò iAm. «Andiamo.»
Mentre
quei due lo guardavano neanche gli fosse spuntato un corno in mezzo
alla fronte, Trez valutò l’ipotesi di smaterializzarsi mollandoli
lì per conto loro, iAm senza nessuno da scarrozzare e Xhex con le
sue teorie psichiatriche sulla sua “griglia”, qualunque cosa fosse.
Ma, per quanto detestasse ammetterlo, in un angolo della sua mente
una vocina, guarda caso, concordava con loro.
Per cui
sì, da bravo idiota qual era salì in macchina e si allacciò perfino
la cintura di sicurezza – e, senza perdere altro tempo, iAm
sfrecciò verso la Northway uscendo dalla città a velocità
supersonica.
«Sei
andato al suo appartamento, vero?»
Trez
accese Sirius XM, anche se la testa aveva ricominciato a pulsare. Kid Ink
stava rappando Nasty. Con quelle sconcezze
in sottofondo chiuse gli occhi… e ripensò a quel bacio. Era uscito
di testa, cazzo? La sua shellan
era morta da neanche tre mesi e lui si
metteva a pomiciare con una sconosciuta?
Ecco
cosa lo aveva turbato, il motivo per cui aveva dovuto lasciare la
discoteca. Stare lì con tutti quegli umani che slinguavano davanti
a lui e scopavano nei bagni che aveva fatto costruire apposta per
quello scopo aveva fatto spiccare come un cartellone di Las Vegas
quello che aveva fatto con Therese – e il senso di colpa che gli
aveva scombussolato le viscere era peggio di un’intossicazione
alimentare.
Aveva
una nausea tremenda e le vertigini, si sentiva tutto gonfio e
debole.
iAm
spense la radio. «Allora?»
Trez
girò la testa, scrutando le auto nella prima corsia – che lui e suo
fratello superavano neanche fossero parcheggiate lungo la strada.
«Sì, ci sono andato. Sta in uno schifo di posto. Lì non è al
sicuro. La assumerai, giusto?»
«No,
non me lo sogno nemmeno.»
Trez
dirottò l’attenzione dal traffico serale ai palazzi assiepati
intorno all’autostrada, ora che dall’area urbana si passava a
quella suburbana.
Dietro
quella distesa di finestre vedeva persone che passavano da una
stanza all’altra, che se ne stavano sedute sul divano o che
leggevano a letto.
In quel
preciso momento avrebbe fatto a cambio con una qualunque di loro,
anche se erano umani.
«Non
toglierle un’opportunità per colpa mia» disse, stropicciandosi gli
occhi e battendo le palpebre per far sparire i puntini dal suo
campo visivo. Viaggiare al buio lo mandava sempre in crisi,
maledizione. «Non è giusto.»
Dio,
non riusciva a credere di aver baciato un’altra femmina. Quando,
stretta contro di lui, Therese lo aveva guardato negli occhi, era
stato facile convincersi che fosse Selena reincarnata. Ma col tempo
e la distanza era tornata la logica: lei era solo un’estranea
somigliante alla femmina che aveva perduto.
Merda.
Aveva posato la bocca su quella di un’altra femmina.
Cercando di non pensarci, si girò verso suo fratello.
«Dico sul serio, iAm. Se è qualificata per il lavoro, prendila.
Deve andare via da quel postaccio orrendo… non le darò fastidio.
Non tornerò più in quella topaia.»
«Be’,
non mi va nemmeno che eviti di venire al ristorante per colpa
sua.»
Trez
riportò l’attenzione sulla strada davanti a loro, ma i fanali dei
veicoli sulla carreggiata opposta gli facevano girare la testa. Si
stropicciò di nuovo gli occhi, con lo stomaco in
subbuglio.
«Ehi,
mi fai un favore?»
iAm lo
guardò. «Certo, tutto quello che vuoi. Cosa ti serve?»
«Accosta.»
«Cosa…»
«Subito, cazzo.»
iAm
sterzò bruscamente verso il ciglio della strada e, prima ancora che
l’auto si fermasse, Trez aprì la portiera – il che innescò il
dispositivo di sicurezza che bloccava le ruote.
Proprio
come aveva detto Therese.
Sporgendosi fuori il più possibile, vomitò il po’ di roba
che aveva nello stomaco, ovvero nient’altro che bile. Tra un conato
e l’altro, e con un’altra ondata di nausea in arrivo, imprecò,
accorgendosi che i puntini si stavano organizzando in
un’aura.
Emicrania. Stupida emicrania del cazzo.
«Mal di
testa?» disse iAm mentre un TIR
li sorpassava rombando.
Stare
fermi lì era pericoloso, pensò Trez, mentre il freddo si insinuava
all’interno della BMW. Avrebbero dovuto
imboccare un’uscita…
Rispose
alla domanda del fratello rigettando un altro po’, prima di
abbandonarsi pesantemente sul sedile. Senza nessun motivo
particolare abbassò gli occhi sui pantaloni bianchi e notò che
c’erano dei segnacci, conseguenza di quando era svenuto per
terra.
Ecco
perché non bisogna vestirsi di bianco.
«Cosa
posso fare?» chiese iAm.
«Niente.» Trez chiuse la portiera. «Andiamo avanti.
Cercherò di resistere – però possiamo abbassare il
riscaldamento?»
Non
ricordava granché del viaggio di ritorno al palazzo; aveva passato
il tempo a monitorare l’evoluzione dell’aura da un fitto
raggruppamento di punti luminosi al centro del campo visivo a
quando aveva spalancato le ali volando verso l’esterno. Ricordava
solo che a un certo punto suo fratello lo stava aiutando a scendere
dalla macchina per poi scortarlo come un invalido fino al sontuoso
ingresso. Una volta dentro, l’atrio, con tutte quelle colonne
colorate, le dorature e quei maledetti lampadari di cristallo,
bastò a fargli tornare la nausea.
«Mi sa
che sto per…»
Fritz,
il maggiordomo, gli allungò proprio al momento giusto un sacchetto
per il vomito. Un sacchetto per il vomito. Un sacchetto per il
vomito verde brillante di quelli che si usano in
ospedale.
Piegato
in due, con l’apertura circolare del sacchetto premuta contro la
bocca, fu assalito da tre domande: 1) chi cazzo se ne va in giro
con dei sacchetti per il vomito pronti all’uso? 2) cos’altro aveva
il doggen dentro quel suo vestito da pinguino? e 3) quel coso
doveva proprio essere verde bile?
Se
volevi produrre una roba in cui far vomitare la gente, dovevi
proprio farla color crema di piselli?
Perché
non un allegro giallo limone? O un bel bianco
immacolato.
Per
quanto, visto com’erano ridotti i suoi calzoni…
Quando
alla fine si raddrizzò, il classico
incudine-piazzato-su-metà-della-sua-zucca ci stava già dando dentro
di brutto e i suoi ragionamenti avevano iniziato ad assumere la
contorta bizzarria che accompagnava le sue emicranie.
«Mi
aiuti a salire di sopra?» farfugliò, a nessuno in
particolare.
Non fu
una sorpresa che fosse iAm a farsi avanti, sorreggendolo fino alla
sua nuova camera, quella che occupava da quando Rhage, Mary e Bitty
si erano trasferiti nelle suite al secondo piano.
Attraversarono la stanza fino a letto, dove si stese
supino.
Come al
solito sdraiarsi gli procurava solo un leggero sollievo, una tregua
di breve durata durante la quale lo stomaco si assestava e la testa
tirava il fiato – dopodiché le cose andavano cento volte
peggio.
Per
fortuna iAm sapeva con esattezza cosa gli serviva. Uno dopo
l’altro, gli tolse i mocassini, ma non le calze, perché durante i
mal di testa le sue estremità si raffreddavano per problemi di
circolazione. Poi gli sfilò cintura e pantaloni e gli rimboccò bene
il piumone intorno al corpo, avvolgendolo a mo’ di taco. La giacca
rimase al suo posto e così pure la camicia. Levargliele avrebbe
richiesto troppi spostamenti, col rischio di farlo vomitare di
nuovo.
Proprio
quello che andava evitato quando avevi già la testa che ti
scoppiava.
Poi fu
la volta delle tende, che vennero tirate anche se era una notte
senza luna. Seguì il trasferimento di fianco al letto del cestino
della carta straccia e l’inevitabile infossamento del materasso
quando iAm si sedette accanto a lui.
Dio,
avevano seguito la stessa trafila un’infinità di
volte.
«Promettimi che le darai il lavoro» disse Trez nel buio
delle palpebre abbassate. «Non le andrò dietro, giuro. Non voglio
rivederla mai più, in realtà.»
Altrimenti rischiava seriamente di combinare qualche
altra stupidaggine…
Risentendo il sapore di Therese sulla lingua gemette, col
cuore a pezzi.
«Vorrei
tanto che prendessi qualche medicina per questi attacchi.» iAm
imprecò sottovoce. «Non sopporto di vederti soffrire
così.»
«Passerà. Passa sempre. Assumi quella femmina, iAm. Non
le darò fastidio.»
Attese
che suo fratello dicesse qualcosa, una qualche replica o obiezione,
e quando non accadde aprì gli occhi – ma subito trasalì con una
smorfia. L’unica illuminazione proveniva dalla porta socchiusa sul
corridoio, ma era comunque troppo per i suoi occhi
ipersensibili.
«Lo so
che non è Selena» biascicò. «Fidati. So perfettamente che non è la
mia femmina.»
Diamine, le implicazioni di quel bacio erano la causa
scatenante di quella cazzo di emicrania. Il rimorso gli aveva
letteralmente fatto scoppiare la capoccia: il senso di colpa come
evento vascolare.
La
dottoressa Jane avrebbe dovuto sputtanarlo su una rivista
medica.
«Non
punirla per un mio errore.»
O
almeno era quello che aveva in mente di dire. Ma chissà cosa gli
era uscito di bocca.
«Adesso
riposati» disse iAm. «Vado a dire a Manny di venire su a darti
un’occhiata.»
«No,
non disturbarlo.» O roba del genere. «Però c’è un favore che
potresti farmi.»
«Cioè?»
Trez si
sforzò di aprire le palpebre e alzò la testa, anche se girava
tutto. «Vai a cercarmi Lassiter. Porta qui quel cavolo di angelo
caduto.»
* * *
«Adesso, se non ti spiace, vado su di sopra a scambiare
due parole con l’Eletta» disse Wrath.
Layla
non si lasciò trarre in inganno. Il tono del Re lasciava
chiaramente intendere che non stava chiedendo a Xcor il permesso di
parlare con uno dei suoi sudditi.
Wrath
aveva la voce ruvida come carta vetrata.
Ma
anche lei voleva parlargli in privato e, quando Wrath indicò le
scale, annuì. Con una rapida occhiata a Xcor si affrettò a salire,
aprendo la porta in cima alla rampa e facendosi forza per guardare
negli occhi Vishous.
Non
aveva motivo di preoccuparsi.
Il
Fratello, in piedi vicino al tavolo, evitò ostentatamente di
voltarsi verso di lei; prese la tazza che stava usando come
posacenere e uscì dalla vetrata scorrevole.
Il Re
salì più lentamente e lei si sentì in colpa per non averlo
aiutato.
«Mio
Signore» disse, «c’è un tavolo sulla destra, a quattro o cinque
metri…»
«Bene.»
Wrath chiuse la porta della cantina. «Ti conviene sederti. Vishous
è fuori? Sento profumo di aria fresca.»
«Ehm…»
Layla deglutì a fatica. «Sì, è sulla veranda. Vuoi… vado a
chiamartelo?»
«No.
Voglio parlarti in confidenza.»
«Certo.» Layla si inchinò, anche se lui non poteva
vederla. «Sì, credo che mi siederò.»
«Brava.»
Il Re
rimase fermo dov’era, davanti alla porta che aveva chiuso alle sue
spalle – e per un attimo lei provò a immaginare come sarebbe stato
vivere senza nessun punto di riferimento visivo. Davanti a lui
poteva esserci di tutto: una botola spalancata, delle puntine da
disegno sparse sul pavimento o… chissà cos’altro. Eppure Wrath
sembrava capacissimo di affrontare qualunque cosa, pensò, scrutando
la sua espressione decisa. Quanto lo invidiava per
questo.
«Siediti, allora. Che cosa aspetti?»
Come
faceva a sapere che era ancora in piedi? si chiese lei,
affrettandosi a prendere posto su una delle quattro
sedie.
«Sì,
mio Signore!»
Wrath
prese a parlare con voce calma e pacata, snocciolando una serie di
frasi piene di parole che, in circostanze diverse, lei avrebbe
capito senza problemi.
In quel
caso, tuttavia, dopo «I tuoi figli sono…» non riuscì ad afferrare
quasi più nulla.
«… ogni
due notti, in base ai turni di riposo di Qhuinn. È una soluzione
equa, e credo che tuteli gli interessi di tutti. Fritz avrà in
compito di accompagnarti da…»
«Domando scusa» lo interruppe lei con voce strozzata.
«Potresti… per favore potresti ripetere quello che hai appena
detto?»
Il Re
parve addolcirsi in volto. «Voglio che tu possa tenere i tuoi figli
a notti alterne, dalla sera di un giorno a quella del giorno dopo.
Okay? Tu e Qhuinn vi spartirete equamente la custodia fisica, metà
per ciascuno, e sarete corresponsabili di tutte le decisioni
relative al loro benessere.»
Layla
batté freneticamente le palpebre, consapevole che stava tremando
tutta. «Quindi non sono tagliata fuori dalla loro
vita.»
«No.»
«Oh,
mio Signore, grazie.» Layla si tappò la bocca con la mano. «Non
avrei potuto andare avanti senza di loro» aggiunse poi, senza
spostare la mano.
«Lo so.
Lo capisco, fidati. E il Santuario garantirà che stiate al
sicuro.»
Layla
trasalì. «Come hai detto, scusa?»
«Li
porterai al Santuario e resterai con loro negli alloggi privati
della Vergine Scriba – tanto lei ormai non li usa più. È il posto
più sicuro per voi tre perché non è nemmeno sulla Terra. Phury e
Cormia mi hanno assicurato che sarai in grado di viaggiare avanti e
indietro con i bambini senza problemi, alla maniera delle Elette –
basta che li stringi a te e via.» Wrath scosse la testa. «Qhuinn
andrà su tutte le furie quando glielo comunicherò, ma non potrà
mettere in dubbio che lassù i gemelli staranno benone. E quando non
sono con te… sei libera di andare dove ti pare, di stare con chi ti
pare e puoi usare questo posto come punto d’appoggio.»
Seguì
un attimo di silenzio durante il quale Layla arrossì.
Perché
Wrath sapeva benissimo cosa avrebbe voluto fare lei, e con chi.
Almeno finché Xcor non partiva per il Vecchio
Continente.
«Sì»
disse lentamente. «Sì, sì, benissimo.»
«C’è
una condizione, però: devi riportarli giù quando tocca a Qhuinn
tenerli. Proprio come lui dovrà darteli quando è il tuo turno. Il
calendario delle visite va rispettato da tutti e due.»
«Assolutamente. I piccoli hanno bisogno del loro padre.
Lui è una figura molto importante nella loro vita e non farò nulla
per mettergli i bastoni fra le ruote.»
E Wrath
aveva ragione. Ora che era stata sostanzialmente graziata dalle
accuse di alto tradimento, la principale obiezione di Qhuinn al
fatto che lei continuasse a vedere i gemelli era che non poteva
restare con loro al palazzo della confraternita; e nessun altro
luogo, nessuna casa sicura, nessun rifugio, nessuna struttura,
neanche messa in sicurezza da centomila Vishous, poteva offrire un
livello di protezione anche solo lontanamente simile a quello
offerto da quella dimora.
La
soluzione? Un luogo al di fuori del pianeta.
Dopo
tutto, c’era stato un solo raid al Santuario, qualcosa come
venticinque anni prima. Ed era stato un colpo di mano messo in atto
da aristocratici scontenti ormai passati a miglior
vita.
Lei,
Lyric e Rhamp sarebbero stati benissimo lassù, con tutti quei fiori
e l’erba verde, la fontana di marmo e i templi. Ci sarebbe stato
tantissimo da esplorare mentre i piccoli crescevano e imparavano a
camminare.
«È
perfetto» disse. «Mio Signore, è perfetto.»
«Adesso
vado a casa a parlare con Qhuinn. Lo metterò di turno domani al
tramonto. Appena fa buio vieni al palazzo e prendi i
bambini.»
Lei
chinò il capo. «È… così lunga l’attesa.»
«Non
c’è alternativa. Qhuinn è pericolosamente instabile e non voglio
che vi incrociate quando gli illustreremo il calendario delle
visite o quando verrai a prendere i gemelli. Il tempismo è di
cruciale importanza. Però dirò a Beth di mandarti qualche altra
foto.»
«Delle
fotografie?»
«Sì,
non le hai ricevute sul tuo cellulare?»
«Non
l’ho portato con me… Beth ha scattato delle
fotografie?»
«Tutte
le femmine ne hanno fatte. Continuano a scambiarsele e le hanno
mandate anche a te… o almeno così mi hanno detto. Non volevano che
ti sentissi esclusa.»
«Sono
così…» Layla inspirò a fondo. «È molto gentile da parte
loro.»
«Sanno
cosa stai passando. O se ne sono fatte un’idea, ed è bastato a
farle inorridire…»
Layla
si coprì la faccia con le mani. Come se questo potesse aiutarla in
qualche modo a non crollare.
«Vieni
qui.»
Il Re
le fece segno di avvicinarsi e lei balzò su dalla sedia e gli corse
incontro. Abbracciarlo era come circondare con le braccia un
pianoforte a coda, tanto era grosso e granitico.
Ma
Wrath la strinse a sua volta, battendole affettuosamente sulla
schiena. «Mi faresti un favore?»
Lei
tirò su col naso e alzò gli occhi sul mento sporgente del sovrano.
«Qualunque cosa.»
«Stai
attenta con Xcor. Se anche non ti uccide fisicamente, può sempre
rovinarti la vita.»
Layla
non poté che scuotere la testa, sconsolata. «L’ha già fatto, mio
Signore. Ormai il danno è fatto, temo.»