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Calma e sangue freddo, si disse Tohr, mentre nello
studio in stile francese del Re ascoltava un gran mare di cazzate
su Xcor. Con una faccia alla nessun-problema-capo, avrebbe annuito
al momento giusto e magari anche scrollato le spalle un paio di
volte.
Come se
il fatto che Wrath avesse rimesso in libertà un noto criminale solo
perché quello stronzo aveva baciato un anello che per lui non
significava un tubo fosse una cosa da niente. Normalissima. Nessun
problema.
Ah, e
poi naturalmente convincere la Banda dei Bastardi a fare
altrettanto non era un’idea balzana. Farli giurare uno dopo l’altro
avrebbe azzerato i rischi… sì, certo, come no.
Perché
Xcor e i suoi ragazzi mica avrebbero pensato a coordinare un
attacco.
No,
macché. Perché mai avrebbe dovuto?
«…
tutti, e quando dico tutti intendo proprio tutti» così dicendo Wrath si
voltò di nuovo verso di lui e poi girò gli occhiali da sole in
direzione di Qhuinn, «devono stare ai patti. Dopo aver giurato
fedeltà alla Corona, i Bastardi partiranno per il Vecchio
Continente e con loro avremo chiuso.»
Forse
in realtà gli conveniva ficcarsi subito in bocca la canna di una
pistola, pensò Tohr. Più pratico che aspettare di sentire esplodere
il cervello per quella soluzione con stampata sopra
IDEA STUPIDA.
Quando
Wrath smise di parlare, sulla stanza calò un silenzio di tomba –
segno che in parecchi si stavano sforzando di non dire ciò che
pensavano. Tohr lanciò un’occhiata a Qhuinn. Il fratello teneva gli
occhi bassi, neanche stesse esaminando l’integrità strutturale
delle stringhe degli stivali.
Girandosi di nuovo verso Wrath, ebbe la conferma che il
Re faceva sul serio con quel suo stupidissimo piano. La mascella
contratta e l’espressione decisa dicevano a chiare lettere: non
rompetemi il cazzo.
E sì,
anche se non erano d’accordo, tutti gli altri Fratelli avrebbero
ingoiato il rospo, non per debolezza, ma perché sapevano che Wrath
era irremovibile e prendevano molto seriamente il loro ruolo di
guardie del corpo.
Ragion
per cui avrebbero fatto del loro meglio per
proteggerlo.
Anche
se fosse andato in una casa sicura aspettandosi che i Bastardi si
inginocchiassero come un branco di futuri testimoni di nozze
umani.
Ma i
giuramenti fatti da chi non sa cos’è l’onore sono tutto fiato
sprecato, questo è il guaio.
«Bene»
bofonchiò Wrath. «Sono contento di poter contare sull’appoggio di
tutti.»
Un paio
di Fratelli tossicchiarono e qualcuno trascinò i piedi a disagio,
Vishous si accese un’altra sigaretta e Butch tirò fuori
quell’enorme crocifisso che portava al collo, strofinando tra
pollice e indice il simbolo della sua fede. Come se stesse pregando
mentalmente.
Ragazzo
intelligente.
Dopodiché, come se fosse tutto a posto, tutto perfetto,
Wrath passò all’ordinaria amministrazione occupandosi di banalità
tipo il calendario dei turni, la prossima ordinazione di armi e i
progressi del corso di addestramento.
«Per
quanto riguarda il temporale» Wrath scosse la testa. «Là fuori c’è
un tempaccio schifoso. Per stanotte siete tutti di riposo. Verrà
giù tanta di quella neve che non ne avete idea.»
La
notizia venne accolta da mormorii di approvazione. Dopodiché la
riunione giunse al temine.
Furioso
com’era, Tohr avrebbe voluto uscire per primo dalla stanza, ma si
trattenne, mettendosi in fila in mezzo al gruppo, indugiando come
faceva di solito. Non fiatò perché non si fidava ad aprire bocca,
però fece finta di interessarsi a come gli altri meditavano di
passare la serata libera.
Torneo
di biliardo. Poker. Bevute. Buffet di gelato fai da
te.
Quest’ultima era un’idea di Rhage.
Lui
attese… finché vide arrivare quello che cercava.
Qhuinn
uscì dallo studio per ultimo, con la faccia di un wrestler
professionista in cerca di un ring. Quando gli passò accanto, Tohr
gli tagliò la strada urtandolo con le spalle.
Qhuinn
lo guardò e lui fissò intensamente quegli occhi spaiati. Poi a
bassa voce disse: «Garage. Dieci minuti.»
Qhuinn
inarcò le sopracciglia, sorpreso. Ma si riprese
rapidamente.
Il suo
cenno di assenso fu quasi impercettibile.
Dopodiché si separarono, andando ciascuno per la sua
strada.
Nella
stanza in fondo al corridoio, dalla parte opposta rispetto allo
studio dove si era tenuta quella riunione entusiasmante, Trez si
svegliò. Sapeva benissimo che non doveva muoversi in fretta o
esaltarsi perché il suo stomaco sembrava finalmente un mare calmo.
La prova del fuoco sarebbe arrivata al momento di tirarsi su a
sedere, e dopo aver passato dodici ore buone lungo disteso sulla
schiena, con la sensazione di essere finito sotto un
TIR, non aveva
nessuna fretta di tentare la sorte mettendosi in
verticale.
Ma mica
poteva stare così in eterno.
Sollevò
adagio il busto dal materasso cercando di non focalizzarsi
eccessivamente sui segnali provenienti da ogni parte del corpo e
della testa. Leggere le foglie del tè per capire come sarebbe
andata era…
«Ma
cosa cazzo…!»
Si
ritrasse così di colpo che batté il cranio contro la testata del
letto ed ebbe prontamente un flashback di com’era andata la
giornata.
C’era
qualcuno seduto lì, in camera sua, sulla poltrona
nell’angolo…
«Cos’è,
uno scherzo?» esclamò, massaggiandosi la zucca con un’imprecazione.
«Una presa per il culo?»
In
fondo alla stanza c’era una specie di spaventapasseri vestito come
l’angelo caduto: un paio di blue jeans, la T-shirt del concerto dei
Nirvana, la camicia di flanella e un paio di Nike erano stati
riempiti da Dio solo sapeva cosa. La testa del “Lassiter” era fatta
con un sacchetto di plastica che prima conteneva patate e i capelli
gialli e neri erano una collezione di calzettoni – di Butch,
probabilmente – e di panni Swiffer fissati con degli
spilli.
Intorno
al collo aveva un cartello scritto a mano che diceva:
IL CAPO ERA QUI.
«Figlio
di puttana.»
Trez
buttò le gambe giù dal letto, dando alla sua frequenza cardiaca il
tempo di scendere al di sotto dei duecento battiti al minuto prima
di andare in bagno.
La
buona notizia era che l’emicrania sembrava essere saldamente alle
sue spalle, relegata nello specchietto retrovisore, l’incudine che
gravava sul lato destro della testa era sparito e lo stomaco
brontolava, affamato.
Dopo
essersi fatto la doccia, la barba e infilato degli abiti puliti era
pronto per fare il suo dovere. Ovvero andare allo shAdoWs a vedere
come andavano le cose.
Invece
prese il cellulare e chiamò suo fratello. iAm rispose al primo
squillo.
«Come
ti senti?» chiese.
«Sono
vivo.»
«Bene.»
«Allora?»
«Allora
cosa?» Quando Trez non esplicitò ciò che era ovvio, iAm cominciò a
snocciolare una sfilza di improperi che iniziavano con c****.
«Trez, sul serio, lascia perdere per piacere.»
«Neanche per idea. Mi fai il favore di assumere quella
femmina?»
Seguì
un lungo silenzio, durante il quale evidentemente suo fratello
sperò contro ogni aspettativa che lui vedesse la luce. Ma lui se ne
fregò altamente: era pronto ad aspettare all’infinito; l’avrebbe
avuta vinta e Therese avrebbe ottenuto il lavoro da
Sal.
«E va
bene» mugugnò alla fine iAm. «Le darò il lavoro, sei contento
adesso?»
No,
neanche un po’. «Sì. Grazie caro. Stai facendo la cosa
giusta.»
«Ah,
sì? Non capisco proprio come permetterti di vedere quella femmina
possa aiutarci.»
Trez
chiuse gli occhi rammentando la sensazione delle labbra di Therese,
il suo sapore, il suo odore che, spandendosi nell’aria gelida, gli
penetrava nelle narici… nell’anima.
Un
accenno di nausea spazzò via tutto dalla sua mente. «Andrà tutto
bene, vedrai. Non le darò nessun fastidio.»
«Sì,
come no.»
Dopo
avere riagganciato, Trez guardò in cagnesco il pupazzo dell’angelo
nell’angolo. «Lassiter» disse ad alta voce. «Dai, lo so che sei qui
da qualche parte.»
Attese,
aspettandosi che l’angelo entrasse dalla porta. Sbucasse dalla
cabina armadio. Strisciasse fuori da sotto il letto. Quello era
sempre in mezzo ai piedi, volente o nolente.
E
invece si sbagliava. Dieci minuti – e assolutamente-niente-angelo
dopo – giunse alla conclusione che quello stronzo era latitante.
L’unica volta che avrebbe voluto vederlo. Ti pareva.
Si
infilò una giacca nuova, uscì in corridoio e, avviandosi allo
scalone, tirò fuori di nuovo il telefonino. Scendendo inviò
un SMS a
Xhex e si sorprese nel ricevere subito risposta. La credeva
impegnata a ricevere la consegna di alcolici…
Ah.
Okay. Bufera di neve, locale chiuso, tutti bloccati in
città.
Attraversò l’atrio col suo mosaico di un melo in fiore,
puntando sulla sala biliardo, dove tre quarti dei Fratelli, tipo,
gironzolavano con in mano stecche da biliardo e drink.
Butch,
l’ex sbirro umano, elegantissimo come al solito, gli andò incontro.
«Ti unisci a noi? Vuoi bere qualcosa?»
Prima
che potesse rispondere, Xhex lo raggiunse da dietro il bancone del
bar. «Già, ho preso io la decisione di non aprire. I buttafuori
continuavano a chiamare dicendo che non potevano attraversare la
città, e anche i baristi. Niente ragazze. Gli unici ad arrivare
sono stati gli alcolici e il DJ, e quest’ultimo era già
sul posto perché ieri notte era troppo distrutto per andare a casa
e si era fermato a dormire nel retro.»
Trez
declinò cortesemente l’offerta di Butch e si rivolse a Xhex. «Non
mi pare che siamo mai stati chiusi di giovedì sera.»
«C’è
sempre un prima volta… quando meno te l’aspetti.»
«Nevica
così tanto?»
«Guarda
tu stesso» disse lei, annuendo in direzione di una delle otto
finestre alte da terra fino al soffitto.
Trez la
sfruttò come scusa per sganciarsi dalla conversazione e uscire alla
chetichella, prima dalla stanza e poi dal palazzo. Non che non gli
piacessero i Fratelli. Solo che, in quel delicato momento post
emicrania, tutte quelle chiacchiere e quelle risate, i cozzi delle
palle da biliardo, i J. Cole e Kendrick Lamar andavano ben oltre il
suo limite di tolleranza.
Scelse
la finestra più vicina all’arcata che dava sull’atrio, scostò la
tenda e guardò il cortile – o quel po’ di cortile che riuscì a
visualizzare. La neve veniva giù così fitta che vedeva a malapena a
mezzo metro di distanza, e chiaramente era da un pezzo che andava
avanti così. Era come se un pesante telone bianco fosse stato steso
su tutto quanto; il tetto della Tana, i grandi pini sulla montagna,
le auto parcheggiate dall’altra parte della fontana, tutto quanto
era coperto da trenta centimetri e passa di neve…
In un
primo momento non si accorse della figura incappucciata,
indistinguibile nella sua veste bianca dal paesaggio interamente
imbiancato. Poi però notò uno squarcio tra i turbini di neve…
quella cascata si muoveva vorticosamente intorno a una
figura.
Che lo
fissava.
Tutto
il sangue gli defluì dalla testa in un attimo.
«Selena?» sussurrò, raggelato. «È…»
«È il
periodo sbagliato per una bufera così» mormorò Xhex, lì
accanto.
Lui
sobbalzò, tanto che per poco non toccò il soffitto. E
immediatamente riportò lo sguardo fuori dal vetro.
La
figura era sparita.
«Trez?»
In quel
momento suonò il campanello nel vestibolo. Lui si girò e corse
fuori dalla sala biliardo, spalancando il pesante
portone…
L’Eletta Layla indietreggiò di scatto, il cappuccio
bianco che si era tirata in testa scivolò giù dai capelli biondi e
la veste bianca scaricò un mucchio di neve ai suoi
piedi.
«Ho il
permesso di entrare» disse, mettendo le mani avanti come se lui
stesse per puntarle contro una pistola. «Sono autorizzata. Chiedi
al Re.»
Trez
chiuse gli occhi per un secondo, sconfortato. «No, sì, no… certo.
Accomodati» disse, facendosi da parte.
Non
capiva perché fosse scattata sulla difensiva… o perché fosse uscita
in una serata come quella… ma non vi si soffermò più di
tanto.
Era un
filo troppo occupato a fare i conti col fatto che quando l’aveva
vista, là fuori… aveva subito pensato fosse la sua Selena tornata
dal regno dei morti per andare a trovarlo.
Il che
era pazzesco. Proprio pazzesco.
Non
capisco proprio come permetterti di vedere quella femmina possa
aiutarci.
«Oh,
chiudi il becco…» mormorò.
«Domando scusa?» disse l’Eletta Layla.
«Merda…
no, niente, scusa» disse lui, stropicciandosi la faccia. «Parlavo
da solo.»
Già,
perché non stava impazzendo o roba del genere. Noooo.
Macché.
Per
l’amor del cielo, doveva darsi una regolata se non voleva andare
completamente fuori di testa.