19
Quando rinvenne, Trez si ritrovò a guardare un
soffitto piatto dipinto di bianco. Un momento… i soffitti non erano
tutti piatti per definizione? Non proprio, si disse. Non quelli in
voga negli anni Settanta, quelli che sembravano glassature bianche
vecchia maniera. Poi c’erano i soffitti delle grotte… tutti
irregolari. Quelli dei teatri spesso avevano come dei gradini per
migliorare l’acustica…
Un
momento, qual era la domanda?
Batté
le palpebre, accorgendosi del mal di testa terrificante nella parte
posteriore del cranio…
La
faccia di suo fratello, che conosceva bene quanto la sua, entrò nel
suo campo visivo troncando bruscamente la disquisizione sui
soffitti.
«Come
stai?» chiese iAm.
«Cos’è
successo? Perché ho…» Trez fece per tirarsi su a sedere – sì,
buonanotte: si bloccò subito, con la testa che scoppiava. «Cazzo
che male.»
Già,
senza contare che la pistola aveva picchiato contro la base della
spina dorsale. Doveva proprio decidersi a infilarla sotto
all’ascella. D’altra parte, quand’era stata l’ultima volta che era
caduto in deliquio come una gentildonna vittoriana?
«Stai
bene?» lo incalzò iAm.
«No,
neanche un po’, cazzo.» Be’, almeno adesso sapeva che la parte
della corteccia cerebrale preposta alle parolacce funzionava ancora
a dovere. «Non so cosa mi è successo. Ho girato l’angolo
e…»
Appena
ricordò la femmina sulla soglia dell’ufficio di iAm si rizzò di
scatto voltando la testa… ed eccola lì, appoggiata contro il muro
del piccolo corridoio, le braccia strette intorno alla vita, il
volto tutto teso.
Il
volto di Selena tutto teso.
«Lasciaci soli» disse roco.
«Sì,
certo, io…» disse lei, inchinandosi leggermente.
«Non
tu. Lui.»
iAm gli
piazzò il muso davanti agli occhi per impedirgli di vederla.
«Ascolta, dobbiamo…»
«Levati
dai piedi!» sbottò Trez. La femmina trasalì e questa era forse
l’unica cosa in grado di calmarlo almeno un po’. «Lasciami parlare
con lei…»
La
femmina… la sua Selena… mise avanti le mani. «È meglio che vada, mi
sento già abbastanza in colpa.»
Trez
chiuse gli occhi e vacillò. La sua voce. Quella voce. Era la stessa che lo
aveva ossessionato, giorno e notte… leggermente roca, stessa
cadenza, stesso…
«Sta
per svenire un’altra volta?» chiese lei.
«No»
mormorò iAm. «Sempre che non gli dia una padellata in testa,
naturalmente. Il che, ora come ora, è un’idea piuttosto
allettante.»
Trez
aprì di nuovo le palpebre, in preda a una paranoia improvvisa.
«Cos’è, un sogno? Sto sognando?»
La
femmina guardò avanti e indietro tra lui e suo fratello, come
sperando che iAm si prendesse la briga di rispondere.
«Voglio
solo parlare con te» la rassicurò Trez.
«Aspettaci in cucina un secondo» le disse iAm. «Parlerà
con te, ma solo se vorrà» precisò poi, prima che suo fratello
ricominciasse a impuntarsi. «Non ho intenzione di costringerla e,
qualunque cosa lei decida di fare, prima dovrai
ascoltarmi.»
Con
un’ultima occhiata a Trez, la femmina annuì e si
allontanò.
«Chi
è?» chiese lui, con voce rotta. «Da dove arriva?»
«Non è
Selena.» iAm si rialzò in piedi e prese a camminare su e giù per il
corridoio. Il che significava fare poco più di tre passetti da una
parte, girare, e farne un altro paio tornando verso Trez.
«Non è la
tua femmina.»
«È
Selena…»
«No,
stando al suo curriculum vitae…» iAm entrò nel suo ufficio, si
chinò sulla scrivania e prese un solitario foglio di carta. «Si
chiama Therese, e si è appena trasferita a Caldwell. Sta cercando
lavoro come cameriera intanto che mette radici qui in
città.»
Suo
fratello gli allungò il foglio formato A4 e Trez lo fissò
chiedendosi se ce la faceva a ricordarsi come si fa a
leggere.
«Non
capisco» biascicò. «È precisa identica a Selena. E la sua
voce…»
Prese
il curriculum e gli occhi cominciarono a ballare avanti e indietro,
giocando a paintball con le parole, colpendone solo alcune.
Detroit. Michigan. Trentaquattro anni. Aveva fatto svariati lavori
nel corso degli anni, alcuni nel settore informatico, altri in
quello della ristorazione. Nessun accenno alla famiglia d’origine,
ma questo era più che logico se voleva presentare domanda di lavoro
anche presso gli umani. Però doveva essere una civile, chiaramente,
non un’aristocratica, perché i membri della glymera non permettevano
alle figlie single di cercare lavoro come cameriere.
Oddio…
e se per caso aveva un hellren?
«Non è Selena» ribadì iAm, tetro in volto. «Non mi importa a
chi assomiglia, quella femmina non è la tua defunta
compagna rediviva.»
Ferma
appena oltre la soglia della cucina in piena attività, Therese si
chiese se non le convenisse andare via.
Aveva
trovato quell’offerta di lavoro su un gruppo chiuso di Facebook
riservato ai vampiri e aveva inviato il curriculum via e-mail.
Aveva fatto domanda anche in altri due posti: un call center umano,
dove cercavano gente per il turno di notte, e un’azienda che aveva
bisogno di un addetto all’elaborazione dati, lavoro che lei poteva
svolgere da casa. Dei tre impieghi, quello come cameriera era stato
la sua prima opzione perché il call center non garantiva entrate
sicure e l’elaborazione dati sarebbe stata un casino perché la
pensione in cui stava al momento, l’unica che aveva potuto
permettersi, non aveva il Wi-Fi.
Era già
tanto se aveva l’acqua corrente, per dire.
Con lo
sguardo fisso sul pavimento ripensò al gigante che era svenuto
proprio davanti a lei, crollando di schianto ai suoi piedi.
Incredibile. Dopo una cosa così il proprietario del ristorante si
sarebbe ricordato di sicuro di lei, ma per dei motivi che non
l’avrebbero certo aiutata a ottenere il posto.
A meno
che cercasse qualcuno in grado di far perdere conoscenza alla
gente. Accigliandosi, rivide il vampiro stramazzato al suolo, il
suo viso, i suoi occhi… il suo fisico. Straordinario, a dir poco.
Ma una folle attrazione per un tizio incapace di reggersi in piedi
non era il motivo per cui era andata lì. Un lavoro. Le serviva un
lavoro onde evitare che i suoi risparmi, già ridotti all’osso, si
esaurissero prima della fine del mese.
Non
poteva tornare da dove era venuta. Non poteva tornare nel
Michigan…
Il
padrone del ristorante sbucò da dietro l’angolo con un gran
sospiro. «Allora, senti…»
«Non
voglio essere un problema o roba del genere» disse lei, anche se
non sapeva bene cosa avesse fatto di male. «Posso… sì, insomma,
posso anche andare via.»
Il
padrone distolse lo sguardo, apparentemente concentrato sulla fila
di chef indaffarati ai fornelli a preparare leccornie. «Non è colpa
tua. Mio fratello… ne ha passate parecchie.»
«Mi
dispiace molto.»
Il
padrone si passò la mano in cima alla testa, senza peraltro
spostare di un millimetro i capelli rasati quasi a zero. Era
un’Ombra, proprio come suo fratello – be’, per forza – con la pelle
scura e i bei lineamenti tipici delle Ombre. Ma era l’altro che lei
voleva.
No, un
momento. Mica lo voleva.
«Si
rimetterà?» chiese d’impulso. «Forse avrebbe bisogno di un
dottore.»
«Ne
abbiamo uno privato da cui può andare.»
Therese
inarcò le sopracciglia. «Ah.»
«È solo
che… tu assomigli…»
Il
tizio in questione entrò in cucina. Dio quant’era grosso, con due
spalle gonfie di muscoli, un torace poderoso e gambe lunghe e
forti. Bello? Altroché. Decisamente fico, con quelle
labbra, quello inferiore in particolare, e quel viso dalla
carnagione scura. Indossava un paio di calzoni bianchi, una camicia
di seta grigia e una giacca nera e aveva un aspetto… costoso e sexy
– cavolo, quegli splendidi mocassini dovevano essergli costati un
occhio della testa, più di quanto lei pagava di
affitto.
Per,
tipo, sei mesi.
Ma
furono soprattutto gli occhi a catturare la sua attenzione. Erano
scuri come la notte, ma roventi come il fuoco – e lui la guardava
come se al mondo esistesse solo lei… il che non aveva molto senso.
Non che fosse brutta, ma non era neanche una reginetta di bellezza,
e non era neanche tutta in tiro o roba simile.
«Possiamo… parlare un secondo?» disse lui.
Non era
un ordine. Niente affatto. Anzi, la nota struggente nella sua voce
suggeriva che fosse in qualche modo alla sua mercé.
«Ehm…
ha una pupilla più grossa dell’altra.» Therese indicò quella di
sinistra. «Penso che più che altro le serva un dottore. Parlare con
me o con chiunque altro non le sarebbe di nessun
aiuto.»
«Va
bene. Puoi accompagnarmi da Havers?»
«Chi
sarebbe?»
«Il
nostro medico, qui a Caldwell.»
Therese
lo guardò allibita. «Non ho la macchina.»
«Possiamo prendere la sua» ribatté lui annuendo in
direzione del fratello e allungando la mano verso di lui. «Dammi le
chiavi.»
Il
proprietario del ristorante alzò gli occhi al cielo. «No, ti
accompagno io…»
«No,
non c’è problema» si scoprì a dire Therese. «Non ho programmi per
la serata e, anche se può sembrare strano, mi sento un po’
responsabile.»
In
seguito si sarebbe chiesta cosa diavolo l’avesse spinta ad
accettare. In fin dei conti quel tizio poteva essere uno stalker
che stava selezionando il suo prossimo bersaglio, un pazzoide
mentalmente instabile in una città dove lei non conosceva nessuno e
dove non aveva nessuno a cui rivolgersi se si cacciava in qualche
casino.
Ma
l’istinto le diceva che non era in pericolo.
Poi si
sarebbe scoperto che quella intuizione era sbagliata, naturalmente.
Non perché lui costituisse una qualche minaccia fisica per lei. No,
erano danni di altro genere quelli che avrebbe finito per
procurarle.
A
volte, però, per funzionare, il fato deve spingerci a buttarci alla
cieca. Altrimenti sterzeremmo il volante inchiodando… per evitare
come la peste il nostro destino.
«Perfetto» disse a bassa voce lui. «Assolutamente
perfetto.»