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Il bicchiere di cristallo era così pulito, così privo di aloni di sapone, polvere e residui da apparire come l’aria e l’acqua al suo interno: assolutamente invisibile.
Mezzo pieno, si chiese l’Eletta Layla. O mezzo vuoto?
Seduta su uno sgabello imbottito tra due lavandini con i rubinetti dorati, di fronte a uno specchio dorato che rifletteva la profonda vasca da bagno alle sue spalle, fissava la superficie del liquido. Il menisco era concavo, l’acqua lambiva appena il bordo del bicchiere, come se le più ambiziose tra le sue molecole cercassero di scalarlo per evadere.
Quello sforzo le incuteva rispetto, ma ne compiangeva la futilità: sapeva bene com’era volersi liberare da una prigione in cui si era rinchiusi senza nessuna colpa.
Per secoli lei era stata l’acqua in quel bicchiere, versata suo malgrado, unicamente in virtù della sua nascita, in un ruolo al servizio della Vergine Scriba. Insieme alle sue sorelle aveva lungamente adempiuto ai sacri doveri delle Elette, su al Santuario, venerando la madre della razza, registrando gli eventi terreni a beneficio dei posteri, aspettando la nomina di un nuovo Primale che l’avrebbe ingravidata, facendole generare altre Elette e altri Fratelli.
Ma tutto ciò ormai era morto e sepolto.
Si chinò sopra al bicchiere per guardare l’acqua più da vicino. Era stata educata per diventare una ehros, non una scrivana, ma conosceva bene la pratica di scrutare l’interno delle ciotole per le visioni per assistere al dipanarsi della storia. Le Elette incaricate di registrare le vicende e i lignaggi della razza stavano sedute per ore e ore nel Tempio delle Scrivane, osservando nascite e morti, amori e unioni, guerre e periodi di pace per poi consegnare tutti i dettagli alla pergamena, le sacre penne d’oca strette tra le belle dita.
Ma per lei non c’erano immagini da vedere. Non lì sulla Terra.
E su in alto non c’erano più testimoni.
Un nuovo Primale alla fine era arrivato. Ma invece di accoppiarsi con le Elette di quella sorta di harem, proseguendo il programma di procreazione selettiva della Vergine Scriba, aveva preso la inaudita decisione di liberarle tutte. Il Fratello Phury aveva rotto lo schema, interrotto la tradizione, spezzato i vincoli e le Elette, segregate sin dalla loro nascita pianificata, avevano accolto con entusiasmo tale liberazione. Non più rappresentanti in carne e ossa di una rigida tradizione, erano divenute individui, sviluppando preferenze e antipatie, immergendosi con cautela nelle acque della realtà terrena, cercando e trovando destini centrati sull’io, invece che sull’altrui servizio.
Così facendo il Primale aveva messo in moto la fine dell’immortale.
La Vergine Scriba non c’era più.
Quando suo figlio, il Fratello Vishous, l’aveva cercata, su al Santuario, aveva scoperto che era sparita dopo avergli lasciato un’ultima missiva scritta nel vento.
Dove dichiarava di avere in mente un successore.
Nessuno sapeva chi fosse.
Layla si raddrizzò sullo sgabello, guardando la vestaglia bianca che aveva indosso. Non era la tunica sacra che aveva portato per tutti quegli anni. No, questa veniva da un posto chiamato Pottery Barn; gliel’aveva comprata Qhuinn la settimana prima. Con l’inverno che già si faceva sentire, si preoccupava che la madre dei suoi figli fosse sempre al caldo, sempre accudita.
Layla posò la mano sul ventre ormai piatto. Dopo aver portato dentro di sé per tanti mesi la loro figlia, Lyric, e il loro figlio, Rhampage, era insieme strano e familiare non avere nulla in grembo…
Mormorii bassi e profondi provenienti dalla camera da letto penetrarono oltre la porta chiusa.
Si era chiusa in bagno per usare il gabinetto.
Dopo essersi lavata le mani era rimasta lì.
Qhuinn e Blay, come al solito, erano con i piccoli. Li tenevano in braccio. Li coccolavano.
Ogni sera doveva farsi forza per assistere a quell’amore, non quello tra i due adulti e i neonati… ma quello tra i due padri, che manifestavano un legame reciproco fortissimo, indissolubile. Era una cosa meravigliosa, ma il suo splendore le faceva sentire ancora di più tutto il gelido vuoto della propria esistenza.
Si asciugò una lacrima, imponendosi di ricomporsi. Non poteva tornare in camera con gli occhi troppo lucidi, il naso paonazzo e le guance arrossate. Quello avrebbe dovuto essere un momento gioioso per la loro famigliola. Ora che i gemelli erano sopravvissuti all’emergenza del parto e che anche lei ce l’aveva fatta, loro cinque potevano rallegrarsi al pensiero che erano tutti sani e salvi.
Era il momento di godersi una vita felice.
E invece lei era di nuovo l’acqua triste nel bicchiere invisibile, bramosa di liberarsi.
Stavolta però il carcere era opera sua, non il frutto di un malaugurato sorteggio genetico.
La definizione di tradimento, almeno secondo il dizionario, era “atto del tradire qualcuno o qualcosa”…
Qualcuno bussò piano alla porta chiusa. «Layla?»
Tirando su col naso, lei aprì uno dei rubinetti. «Ehi, mi senti?»
La voce di Blay era pacata, come al solito. «Tutto bene lì dentro?»
«Benissimo. Ho deciso di farmi una maschera di bellezza. Esco tra due minuti.»
Si alzò dallo sgabello e si spruzzò un po’ d’acqua sulle guance. Poi sfregò fronte e mento con un asciugamano per distribuire più uniformemente il rossore su tutto il viso. Strinse la cintura della vestaglia, raddrizzò le spalle e si avviò alla porta, pregando di riuscire a darsi un contegno abbastanza a lungo da spedirli alla svelta tutti e due all’Ultimo Pasto.
Per fortuna le fu concessa un po’ di tregua.
Quando aprì la porta, Blay e Qhuinn non stavano nemmeno guardando dalla sua parte. Erano chini sopra la culla di Lyric.
«… gli occhi di Layla» disse Blay allungando la mano per permettere alla femminuccia di afferrargli un dito. «Decisamente.»
«Ha anche i capelli della sua mahmen. No, dico, guarda che biondo sta venendo fuori.»
L’amore che nutrivano per la piccolina era qualcosa di straordinario, illuminava i loro volti, riscaldava le loro voci, frenava i loro movimenti, tanto da spingerli a fare tutto con estrema cautela. Ma non fu questo a colpire Layla.
Il suo sguardo si appuntò sulla mano di Qhuinn che andava su e giù sulla schiena di Blay. L’affiatamento era inconsapevole da entrambe le parti, la carezza offerta e accettata come se niente fosse, anche se in realtà era tutto. Di fronte a quella scena si ritrovò di nuovo a battere freneticamente le palpebre.
La tenerezza e l’amore, talvolta, possono essere difficili da guardare come la violenza. Guardare dal di fuori due persone in sintonia talvolta è come guardare la scena di un film dell’orrore, qualcosa che non vuoi vedere, che vuoi dimenticare, cancellare per sempre dalla memoria… specialmente quando stai per metterti a letto per tutto il giorno con la prospettiva di ore e ore di solitudine al buio.
La consapevolezza che non avrebbe mai vissuto con nessuno quell’amore speciale era…
Qhuinn si girò verso di lei. «Oh, ciao.»
Il padre dei suoi figli si raddrizzò e sorrise, ma lei non si lasciò trarre in inganno. La stava passando ai raggi X, neanche dovesse tracciare il suo profilo… anche se forse non era proprio così. Forse era solo la sua paranoia a parlare.
Era così stufa di vivere una doppia vita. Per la crudele ironia che sembrava essere la fonte di divertimento prediletta dal destino, tuttavia, poteva liberarsi di quel peso sulla coscienza solo a spese della sua stessa vita.
Ma come poteva abbandonare i suoi piccoli?
«… bene? Layla?»
Qhuinn la guardava accigliato. Lei si riscosse, sforzandosi di sorridere. «Oh, sto benissimo» disse, supponendo che le avesse chiesto come stava. «Proprio bene, davvero.»
Nel tentativo di avvalorare quella bugia si avvicinò alle culle. Rhampage, o Rhamp, come lo chiamavano abitualmente, stava cercando disperatamente di non addormentarsi e, quando sua sorella fece uno di quei versi tipici dei neonati, girò la testa verso di lei allungando la manina.
Buffo, già così piccolo sembrava riconoscere il proprio ruolo e voleva proteggerla.
Era il suo DNA. Qhuinn era un membro dell’aristocrazia, il frutto di generazioni di accoppiamenti selettivi e, anche se il “difetto” di avere un occhio azzurro e uno verde lo aveva reso ripugnante tanto per la glymera quanto per la sua famiglia, la natura venerabile della sua stirpe non si poteva negare. Così come non si poteva negare l’impatto della sua presenza fisica, con quel corpo tutto muscoli alto quasi due metri, trasformato dall’esercizio fisico e dalla guerra in un’arma letale tanto quanto le pistole e i pugnali con cui scendeva in campo. Primo membro della Confraternita del Pugnale Nero a essere affiliato sulla base del merito invece che del lignaggio, si era dimostrato all’altezza della gloriosa tradizione. Qhuinn era sempre all’altezza… non deludeva mai nessuno.
Sì, Qhuinn era un vampiro di una bellezza sconvolgente, seppure piuttosto ruvida: la mancanza quasi totale di grasso rendeva il suo viso spigoloso e quegli occhi spaiati ti fissavano da sotto a due sopracciglia scure. I capelli neri di recente erano stati tagliati corti, praticamente rasati in basso e tirati indietro in alto, col risultato che il collo sembrava ancora più grosso. Con quei piercing di piombo alle orecchie e la lacrima da ahstrux nohstrum tatuata sotto all’occhio – ricordo di quando faceva da guardia del corpo a John Matthew – attirava gli sguardi ovunque andasse.
Forse perché tutti – i vampiri come gli umani – temevano quello di cui poteva essere capace se lo facevi incacchiare.
Blay invece era tutto l’opposto, avvicinabile in un vicolo buio tanto quanto Qhuinn era da evitare.
Blaylock, figlio di Rocke, aveva i capelli rossi e la carnagione leggermente più chiara della maggior parte dei vampiri. Era grande e grosso quanto Qhuinn, ma ti colpiva anzitutto per l’intelligenza e il buon cuore, più che per la forza, sebbene nessuno mettesse in discussione la sua bravura sul campo. Layla aveva sentito raccontare le storie che lo riguardavano; non da lui, però, perché Blay non era uno che amava vantarsi, drammatizzare inutilmente o attirare l’attenzione su di sé.
Lei li amava entrambi con tutto il cuore.
E il distacco che provava nei loro confronti era solo da parte sua.
«Guarda» disse Qhuinn, annuendo verso i neonati. «Abbiamo due dormiglioni di prima categoria qui… oddio, uno e mezzo.»
Sorrise, ma lei non ci cascò: continuava a scrutarla in viso per capire cosa stesse cercando di nascondere. Per non facilitargli l’impresa, lei indietreggiò.
«Dormono come ghiri, ringraziando la Vergine Scrib… ehm, ringraziando il cielo.»
«Vieni giù con noi per l’Ultimo Pasto, stasera?» le chiese Qhuinn con fare disinvolto.
Blay si raddrizzò. «Fritz ha detto che è pronto a prepararti tutto quello che ti piace.»
«È sempre così carino.» Layla andò a letto, stendendosi ostentatamente contro i cuscini. «A dire il vero verso le due mi è venuto un certo languorino, così sono scesa in cucina a fare uno spuntino a base di porridge e pane tostato. Caffè. Succo d’arancia. Più che fare colazione ho pranzato, per così dire. A volte si sente il bisogno di riavvolgere il nastro del tempo per ripartire da zero nel bel mezzo della notte.»
Peccato che lo si potesse fare solo in senso metaforico.
Per quanto… avrebbe davvero scelto di non aver mai conosciuto Xcor?
Sì, pensò. Avrebbe preferito non aver mai saputo della sua esistenza.
L’amore della sua vita, il suo Blay, la sua anima gemella… era un traditore. E i sentimenti che provava per lui erano una ferita aperta attraverso cui i batteri del tradimento erano penetrati, proliferando.
E così adesso eccola lì, in quella galera che lei stessa si era costruita, torturata dal senso di colpa per aver fraternizzato col nemico, in un primo momento perché era stata tratta in inganno… e successivamente perché aveva voluto stare con lui.
Si erano lasciati male, però; lui aveva posto fine ai loro incontri clandestini quando lo aveva costretto ad ammettere ciò che provava per lei. Poi, quando Xcor era stato catturato e imprigionato dalla confraternita, dalla tristezza si era passati alla tragedia.
All’inizio non era riuscita a ottenere informazioni sulle sue condizioni di salute. Poi però, spostandosi alla maniera delle Elette, era andata da lui e lo aveva visto moribondo, in un corridoio di pietra pieno di vasi di ogni foggia e colore.
Non aveva potuto fare niente. A meno di uscire allo scoperto e smascherarsi… e anche così non avrebbe potuto salvarlo.
E così eccola bloccata lì, un fantasma perseguitato da un groviglio inestricabile di emozioni avvelenate dal rimorso e dal senso di colpa, condannata a non essere mai e poi mai libera.
«… giusto? Voglio dire…» Blay non la finiva più di parlare e lei dovette imporsi di non stropicciarsi gli occhi. «… fine di una nottata passata sempre qui con i gemelli. Il che non significa che non sia bello stare con loro.»
Uscite, implorò in silenzio ai due padri di Lyric e Rhamp. Uscite e lasciatemi in pace, per favore.
Non è che non volesse farli stare con i gemelli o che nutrisse chissà quale rancore verso di loro. Aveva solo bisogno di respirare, il che era praticamente impossibile ogni volta che uno o l’altro la guardava come stavano facendo adesso.
«Ti pare?» chiese Qhuinn. «Layla?»
«Oh, sì, certo.» Non aveva idea di cosa avesse approvato, ma si sforzò di sorridere. «Adesso mi riposo un po’. I piccoli sono stati parecchio svegli durante il giorno.»
«Vorrei tanto che ti lasciassi aiutare di più.» Blay si accigliò. «Basta che bussi. Siamo qui accanto.»
«Siete tutti e due fuori a combattere quasi ogni notte. Avete bisogno di dormire.»
«Ma anche tu sei importante.»
Layla spostò lo sguardo sulle culle; al ricordo di quando aveva preso in braccio i piccoli per nutrirli si sentì ancora peggio. Meritavano una mahmen migliore di lei, una madre meno complicata e libera dal fardello di decisioni che non avrebbero mai dovuto essere prese, una madre incontaminata dall’infatuazione per un vampiro che non avrebbe mai dovuto avvicinare… e tanto meno amare.
«Io non conto proprio niente in confronto a loro» sussurrò decisa. «Loro sono tutto.»
Blay le andò vicino e le prese la mano, gli occhi azzurri colmi di affetto. «No, anche tu sei molto importante. E le mahmen hanno bisogno di un po’ di tempo per se stesse.»
Per fare cosa? pensò lei. Rimuginare sui rimpianti? No, grazie tante.
«Finirò nella fossa senza di loro, allora, e mi godrò la solitudine.» Rendendosi conto di quanto suonava tetro quel commento, si affrettò ad aggiungere: «E poi loro cresceranno anche troppo in fretta, molto prima di quanto immaginiamo».
A quel punto Blay e Qhuinn scambiarono qualche altra battuta, che lei non sentì neppure per via delle urla dentro la sua testa. Poi finalmente la coppia di innamorati uscì, lasciandola in pace.
Il sollievo nel vederli andare via era un ulteriore motivo di tristezza.
Scese dal letto e tornò alle culle, di nuovo in lacrime. Asciugandosi senza sosta le guance, prese un fazzoletto di carta da una tasca nascosta e si soffiò il naso. I gemelli erano profondamente addormentati, le palpebre chiuse, i faccini girati l’uno verso l’altro, quasi stessero comunicando telepaticamente nel sonno. Manine perfette e piedini adorabili, pancini tondi e sani avvolti in una copertina di flanella. Erano proprio bravi: allegri e sorridenti da svegli, pacifici come angioletti quando riposavano. Rhampage stava mettendo su peso più in fretta di Lyric, ma in compenso lei sembrava più forte ed esuberante del fratello. Faceva meno capricci quando la cambiavano o le facevano il bagnetto e ti guardava negli occhi con maggiore attenzione.
Chissà per quanto ancora sarebbe riuscita a resistere, pensò Layla, con le lacrime che scivolavano giù dal viso atterrando sulla moquette ai suoi piedi.
Si mosse senza neanche rendersene conto; andò al telefono fisso e compose un numero di quattro cifre.
La doggen che chiamò arrivò subito. Layla l’accolse con la solita maschera che metteva in pubblico, sorridendo con una serenità che non provava. «Ti ringrazio di essere venuta a vegliare sui miei tesori» disse nell’Antico Idioma.
La bambinaia rispose felice, con gli occhi che brillavano; Layla riuscì a stento a reggere quei due o tre secondi di convenevoli. Dopodiché uscì dalla stanza, in pantofole, e attraversò di corsa la Galleria delle Statue. Giunta davanti alla porta in fondo, la spalancò, entrando nell’ala riservata alla servitù.
Come in tutte le dimore di quel pregio e quelle dimensioni, il palazzo della confraternita necessitava del supporto di una schiera di domestici e le camere dei doggen occupavano numerosi corridoi; le suddivisioni in base all’età, al sesso e alle mansioni davano origine a diverse comunità all’interno dell’insieme complessivo. In quel dedalo di corridoi Layla si muoveva con l’unico obiettivo di individuare una stanza libera… tre porte dopo l’ennesimo angolo ne trovò una. Entrando in quello spazio semplice e spartano andò fino alla finestra a ghigliottina, la socchiuse e chiuse gli occhi. Aveva il cuore che batteva all’impazzata e la testa che girava, ma appena inspirò a fondo e sentì il profumo dell’aria fresca e gelida…
… si smaterializzò attraverso lo spiraglio aperto confondendosi con la notte, allontanandosi in un pulviscolo molecolare dal palazzo della confraternita.
Come al solito, la libertà era solo temporanea.
Ma, disperata com’era, la assaporò come si fa con l’ossigeno quando ci si sente soffocare.