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Salvatore’s Restaurant era un pilastro nel
panorama gastronomico non solo di Caldwell, ma di tutta la Costa
Orientale, un tuffo nel passato, ai tempi del Rat Pack, quando le
colazioni di lavoro abbondantemente innaffiate da alcolici, le
amanti e i Don Draper che sapevano come vestirsi erano la norma.
Col passare del tempo molto era cambiato nel mondo esterno… ma non
molto era cambiato all’interno del ristorante. La carta da parati
rossa con motivi in rilievo all’ingresso c’era ancora, così come il
resto dell’arredo in stile Padrino, con
tutto quel pesante legno intagliato e le tovaglie di lino. In tutte
le sale da pranzo e nel bar in fondo, la disposizione dei tavoli
era tale e quale al giorno dell’inaugurazione, e camerieri e
cameriere erano ancora in smoking. Il menu? Ci trovavi solo la
migliore cucina italiana doc della Sicilia occidentale, con ricette
preparate come Dio comanda, com’era sempre stato sin dalle
origini.
Qualche
ammodernamento c’era stato, ma solo nella enorme cucina. Ed erano
stati aggiunti due antipasti – una specie di scandalo – almeno
finché la terza generazione di clienti aveva assaggiato i piatti e
deciso che, sì, erano buoni.
Oddio,
anche un’altra cosa era diversa.
Seduto
alla scrivania del suo ufficio, iAm rispose al telefono prendendo
contemporaneamente la sua ultima ordinazione di carne.
«Vinnie, come stai?» disse, piegando la testa di lato per
tenere il ricevitore tra spalla e orecchio. «Sì… bene. Io sto bene.
Sì, no, mi serve più vitello. Sì. E voglio quell’altro fornitore.
La qualità è…»
Il suo
direttore di sala mise dentro la testa. «È arrivata. Ottima
esperienza, bella presenza, bel modo di porsi. Andrà
bene.»
iAm
coprì il fondo della cornetta. «Mandamela qui.»
Mentre
parlava col macellaio all’ingrosso per completare l’ordinazione,
ripensò ai primi tempi, subito dopo che aveva rilevato il locale.
Gli umani con cui aveva trattato avevano supposto – erroneamente –
che fosse afroamericano, il che non era vero – ma, essendo
un’Ombra, era abituato a spacciarsi come tale nel mondo umano. E
che un nero rilevasse quella storica, orgogliosissima pietra
miliare della cucina italiana era stato uno choc per tutti, dalla
brigata di cucina al personale di sala, fino ai clienti e ai
fornitori.
Ma
Salvatore III gli aveva dato la sua benedizione dopo che iAm aveva
cucinato alla perfezione il gattò di patate, la pasta alla Norma e
la caponata – servendo dulcis in
fundo come dessert i migliori cannoli
che l’anziano titolare avesse mai mangiato. Non che Sal
III avesse molta
scelta: i debiti di gioco accumulati nei confronti di Rehvenge gli
avevano imposto di cedere l’adorato ristorante, e Rehv a sua volta
lo aveva passato a iAm come premio per l’ottimo lavoro svolto al
suo servizio.
In
qualità di nuovo proprietario, iAm aveva comunque voluto mantenere
la continuità – nonché l’affezionata clientela italiana – e il
sostegno di Sal III
aveva garantito entrambe le cose.
Specialmente perché iAm aveva lasciato che i denigratori
denigrassero e aveva riconquistato fino all’ultimo dei vecchi
clienti all’antica, seducendoli col suo basilico e i suoi
fusilli.
Il
locale andava a gonfie vele, si stava guadagnando il rispetto
generale e tutto procedeva a meraviglia. E lui si era anche trovato
una compagna… che, guarda caso, era la Regina della s’Hisbe. Ragion
per cui la sua vita avrebbe dovuto essere perfetta.
Ma così
non era.
La
situazione con suo fratello, Trez, lo stava facendo dannare. Era
terribile vedere una persona in gamba ridotta in ginocchio dal
destino, vedere la sua anima piegata sotto il peso di un lutto a
cui iAm non riusciva neanche a pensare senza che gli venisse da
vomitare…
«Come,
scusa?» disse, riscuotendosi. «Sì, scusa, va bene. Grazie, amico –
aspetta, ripeti un po’. Ah, sì, si può fare. Quanti te ne servono?
Nah, offro io. Se paghi mi offendo. I manicotti sono un regalo per
te e per tua madre. Prendeteli e buon appetito.»
iAm
riattaccò sorridendo. Gli italiani vecchio stile alla fine
assomigliavano molto alle Ombre: chiusi nei confronti dei
forestieri, fieri delle loro tradizioni, diffidenti verso chi non
conoscevano. Ma una volta che ti avevano preso in simpatia? Una
volta che avevi dimostrato cosa valevi e che ti avevano accettato?
Erano così leali e generosi che quasi quasi non sembravano neanche
umani.
In
effetti, per lui i veri italiani erano diventati una sottospecie a
parte, diversa dagli altri ratti senza coda del
pianeta.
Quei
manicotti li avrebbe fatti per la mamma di Vinnie, la signora
Giuffrida, e glieli avrebbe portati di persona. E tra la carne che
aveva ordinato avrebbe trovato qualche braciola in più o un po’ di
salsicce o magari un taglio di manzo di prima scelta gratis. Il
punto era che i manicotti li avrebbe fatti comunque, anche senza
ricevere niente in cambio… perché la signora Giuffrida era un
tesoro di donna che arrivava ogni primo venerdì del mese e ordinava
sempre la pasta con le sarde. E se eri gentile con la madre di
Vinnie? Quell’uomo avrebbe fatto qualunque cosa per te, compreso
morire, fino alla fine dei suoi giorni.
Era un
accordo fantastico e…
Tutt’a
un tratto iAm rimase come impietrito, immobile come una statua.
Neanche fosse stato colpito da una forma di Arresto – il che, visto
chi era comparso sulla soglia dell’ufficio, era tutt’altro che
fuori luogo.
La
vampira ferma sulla soglia era alta e tutta curve, con morbidi
pantaloni neri e un maglione nero con lo scollo a barchetta. I
capelli neri ondulati erano raccolti con un fermaglio e non era
truccata. Non che le servisse aiuto dalla Maybelline o simili. Era
incredibilmente bella, con due labbra perfette, due occhioni che
sembravano presi in prestito dalle anime giapponesi e due guance
rosse per colpa del freddo… o forse perché era nervosa in vista del
colloquio per il posto da cameriera.
Ma non
erano i singoli componenti della sua persona o il suo abbigliamento
a lasciarlo scioccato. Era tutto l’insieme a togliergli il
respiro.
iAm si
alzò in piedi adagio, quasi temendo che gli scoppiasse la testa se
si muoveva troppo in fretta.
«Selena?» sussurrò. Ma non poteva essere vero…
no?
Lei
inarcò le belle sopracciglia. «Uhm… no. Io mi chiamo Therese. Tres
per gli amici.»
Tutt’a
un tratto il mondo prese a girare vorticosamente sul proprio asse e
iAm ricadde di schianto sulla poltroncina.
La
femmina fece un passo avanti, forse temendo che avesse bisogno di
essere rianimato, ma poi si fermò, come se non sapesse cosa fare. E
così erano in due.
«Si
sente bene?» chiese.
Con una
voce precisa identica a quella della defunta shellan di suo
fratello.
Invece
di tornare al palazzo della confraternita prima dell’alba, Trez era
rimasto nella sua discoteca anche di giorno. Anzitutto, essendo
un’Ombra, la luce del sole non solo non gli dava problemi, ma anzi
gli piaceva – anche se al momento non si vedeva per via della neve
caduta tutta la mattina e tutto il pomeriggio. Ma soprattutto non
si era mosso da lì perché a volte a casa c’era troppa gente per la
sua testa già stravolta, mentre lì poteva tirare il fiato
nascondendosi senza bisogno di nascondersi.
Un
vantaggio? La sua poltroncina era così imbottita che in sostanza
era un letto d’ospedale regolabile, le mancavano solo le stanghe e
la sacca della flebo.
La
ruotò fino a trovarsi di fronte alla parete di vetro e guardò la
pista da ballo sottostante. Le luci erano accese e tutti i graffi e
le strisciate sulle assi di pino verniciate di nero lo irritarono
di brutto. Gli addetti alle pulizie facevano un ottimo lavoro, ma
non potevano rimediare ai danni provocati da centinaia di piedi
ubriachi. Forse era ora di far levigare e rilucidare tutto quanto.
Di nuovo.
Si
poteva sostenere che era uno spreco di tempo e di denaro,
ovviamente, perché la pista si sarebbe rovinata un’altra volta, e
oltretutto nessuno vedeva i punti scrostati quando i laser erano in
funzione e il locale era buio come l’interno di un cappello. Ma lui
non riusciva proprio a sopportarlo. Sapeva che c’erano quelle
imperfezioni e non le digeriva.
Curare
la manutenzione della pista da ballo era un po’ come tagliare
l’erba del proprio giardino: sapevi che era un po’ come filare la
tela di Penelope, ma per dieci minuti almeno l’erba sembrava una
bellissima moquette.
Controllò l’orologio da polso. Le sette.
Un paio
d’ore prima, alle cinque o giù di lì, aveva fatto la doccia nel suo
bagno privato, si era fatto la barba e aveva infilato una versione
pulita della sua divisa da lavoro, che consisteva in un paio di
calzoni e camicia button-down di seta. Quella sera la sua metà
superiore era grigia, quella inferiore bianca, e in mezzo niente
biancheria intima.
Diede
un’altra occhiata all’orologio. E contò le ore passate dall’ultima
volta che aveva mangiato un boccone.
Lo
stomaco brontolò sonoramente, quasi sapesse che quella era la sua
unica possibilità di esprimere un’opinione.
Maledetto Lassiter. Un invito a cena. Da
Sal.
’Fanculo.
L’ultima cosa che voleva fare era sedersi di fronte a
quel cavolo di angelo e ascoltarlo disquisire sul simbolismo
fallico in Deadpool
in stile Le
Iene. Il problema? Suo fratello, iAm,
in effetti faceva le tagliatelle alla bolognese migliori sulla
piazza, e poi Lassiter era capacissimo di presentarsi lì vestito da
pagliaccio e di mettersi a strombazzare come un clacson il nasone
finto fino a farlo andare al manicomio.
Non che
ci volesse molto, ultimamente, ma comunque.
Guardò
di nuovo l’orologio. Sacramentò. Si decise.
Alzandosi, controllò che la pistola fosse al suo posto,
infilata nella cintura contro le reni. Prese portafogli e cellulare
e si infilò una giacca elegante.
Al
piano di sotto, Xhex stava inventariando i superalcolici al
bar.
«Torno
tra un po’» disse alla sua responsabile della sicurezza. «Vuoi che
ti porti qualcosa da mangiare dal ristorante di mio
fratello?»
Lei
scosse la testa, issando sul bancone una cassa di Absolut come se
non pesasse niente. Xhex aveva due spalle larghe quasi quanto
quelle di un umano e anche il resto del suo fisico era in gran
forma. Con quei capelli corti e quegli occhi grigio piombo, anche
gli ubriachi capivano che era meglio non farla incacchiare, il che
la rendeva perfetta per il suo lavoro.
«Sto
bene così. Ho cenato a casa.» Inarcò un sopracciglio. «Non ti ho
visto al Primo Pasto.»
Quello
era il massimo a cui si sarebbe spinta con il
perché-non-sei-venuto-a-casa-ieri-sera e lui lo apprezzava molto.
Xhex era come un maschio sotto molti punti di vista: di poche
parole, dritta al punto, e non ci teneva a
empatizzare.
Francamente, era una delle poche persone che lui
sopportava di avere intorno. Ultimamente aveva finito col detestare
gli sguardi addolorati, i profondi sospiri carichi di sottintesi e
gli abbracci troppo lunghi. Non che non apprezzasse il sostegno
morale, ma il punto era che… quando sei in lutto stretto è dura
stare in mezzo a gente che sta male perché tu stai male. Vedere i
Fratelli e le loro compagne in pena per lui… be’, lo faceva
soffrire, e questo lo faceva sentire ancora peggio e ancora più
stremato. E così via, come un cane che si morde la
coda.
«Torno
alle otto» disse, picchiando due volte le nocche sul bancone di
granito nero. «Ho preso il cellulare.»
«Ricevuto.»
Avviandosi all’uscita salutò con un cenno del capo le
ragazze che stavano arrivando e che dovevano ancora cambiarsi. Nel
passare accanto a loro sentiva che quelle umane lo fissavano, lo
desideravano, si interrogavano su di lui. Avevano sempre avuto un
debole per lui e c’era stato un tempo in cui lui ne aveva
approfittato. Ora non più, però, e apparentemente quella astinenza
non faceva che aumentare il suo fascino.
Sul
lavoro non era mai sceso nei dettagli su Selena. Soltanto Xhex
conosceva tutta la storia, e lei non avrebbe mai aperto bocca con
nessuno.
La
buona notizia? Dopo che aveva respinto un paio di volte le
prostitute del locale si era sparsa la voce e tutte quante avevano
smesso di provarci. Grazie a Dio; vampire e umane gli davano
letteralmente il voltastomaco. Che una di loro lo toccasse o anche
semplicemente ci facesse un pensierino?
Gli
veniva da vomitare anche solo a pensarci.
Fuori,
l’aria era pesante e gelida, prodromo della bufera di neve in
arrivo. Dovette fare un paio di respiri profondi per ricacciare giù
la bile che gli saliva in gola.
Nausea
a parte, gli andava benissimo vivere il resto delle sue notti da
solo. Non riusciva a concepire neanche per un attimo che un’altra
potesse entrare nella sua vita facendogli un minimo di
effetto…
Di
punto in bianco la sua Selena tornò da lui, riempiendogli la testa
con la sua voce. Puoi promettermelo,
Trez? Che ti lascerai sorprendere dalle cose belle anche dopo che
me ne sarò andata… anche se quelle cose succedessero per via di una
nuova femmina?
Trez si
stropicciò la faccia. «Amore mio, amore mio… questa è una
eventualità di cui non dovremo mai preoccuparci.»
Facendosi forza, lanciò un’occhiata in direzione della
sua BMW.
Forse gli conveniva andare in macchina. Così avrebbe abbreviato la
cena di una ventina di minuti buoni, considerato che “doveva”
essere indietro per l’orario di apertura.
Alla
fine però si smaterializzò dall’altra parte della città,
nell’angolo in fondo al parcheggio davanti a Sal. L’ampia distesa
di cemento era stata ripulita del po’ di neve caduta fino a quel
momento e il bordo bianco tutto intorno sembrava la glassa su una
torta. Numerose auto erano allineate il più vicino possibile
all’edificio e l’illuminazione proveniva sia dai lampioni stradali
che dai fianchi del ristorante.
Trez
s’incamminò verso la tettoia dell’entrata principale, battendo i
mocassini sulla passatoia rossa fino ai tre gradini
d’ingresso.
Peccato
dover vedere Lassiter, pensò entrando. Senza l’angelo, forse aveva
una mezza possibilità di godersi quello che si apprestava a
mangiare.
«Salve,
signor Latimer.»
«’Sera.»
Trez
alzò una mano per salutare la donna incaricata di accogliere i
clienti. Lei lo squadrò rapidamente da capo a piedi; il suo sorriso
suggeriva che le sarebbe piaciuto da matti chiudere la serata con
lui. Tuttavia mantenne le distanze.
La sua
fama lo aveva preceduto: niente avance. Grazie, iAm.
Superato il negozietto di souvenir, coi suoi surgelatori
pieni di antipasti, i bicchierini da liquore e i cucchiai
decorativi – sì, perché la gente veniva apposta da fuori città per
mangiare da Sal – entrò nell’area bar.
«Signor
Latimer, come va?»
Il
barista era un bel ragazzo sui vent’anni, abbastanza sexy da fare
il modello per una pubblicità dell’acqua di colonia Gucci o Armani:
capelli scuri, mento volitivo, occhi di un azzurro vivo, spalle
larghe eccetera eccetera. Nelle serate libere andava allo shAdoWs,
dove si dava parecchio da fare con le femmine del suo stesso stampo
– e si capiva che gli piaceva il suo status di Ragazzo Sexy nel
panorama dei locali notturni di Caldie.
Gli
conveniva godersela finché durava. «Ciao, Geo.»
Già,
perché un tipo con le sue prospettive mica poteva farsi chiamare
col suo vero nome. Che era George.
«Il
solito?» chiese Geo. «Si ferma per cena?»
«Sì per
la cena. No per il drink. Grazie comunque.»
«Il
capo è nel suo ufficio.»
«Ricevuto.»
Trez
spinse la porta a vento imbottita accanto alla distesa di bottiglie
riflesse nel lungo specchio ed entrò nella cucina lustra come uno
specchio, dove tutti i banconi in acciaio inox e le attrezzature
professionali brillavano di pulito. Le mattonelle del pavimento
erano dello stesso colore dei tetti in terracotta di Siena e gli
chef nella tradizionale tenuta bianca erano chini sopra a pentole,
taglieri e scodelle. I cuochi erano tutti uomini e tutti italiani;
col tempo iAm sperava di poter modificare la prima caratteristica –
ma non la seconda.
Porca
miseria, che profumino delizioso… cipolle, basilico, origano,
pomodori e salsiccia saltati.
Accidenti, gli scocciava ammettere che Lassiter avesse
ragione su una cosa qualunque. Solo che, cacchio, stava morendo di
fame.
L’ufficio di iAm era in fondo in fondo. Trez svoltò
l’angolo senza dare minimamente peso al fatto che, ferma sulla
soglia, c’era una vampira girata di spalle. iAm assumeva
regolarmente membri della specie, in particolare durante i mesi
invernali, quando alle quattro e mezzo del pomeriggio era già buio
in quella parte dello Stato di New York. Sì, notò di sfuggita il
suo profumo insolito e gradevole, ma non più di quanto ci avrebbe
fatto caso passando accanto a un mazzo di fiori.
Tutto
prese un’altra piega quando le arrivò alle spalle e, da sopra la
sua testa, guardò suo fratello.
Seduto
alla scrivania, iAm aveva il volto scuro pallidissimo, gli occhi
sgranati, grandi come antenne paraboliche, e la bocca
spalancata.
«Ehi,
ti senti bene?» disse Trez. «Cosa…»
iAm
cominciò a scuotere la testa, alzando le mani come per fermarlo
mentre si tirava su in piedi. Ma tutto ciò svanì – insieme a ogni
singolo momento passato, presente e futuro – quando la femmina si
girò.
Trez
barcollò all’indietro fino a sbattere contro il muro… e poi si
ritrovò ad alzare le braccia come per parare dei pugni. Attraverso
i polsi incrociati passò al vaglio quegli occhi, le labbra, il
naso… i capelli… il collo e le spalle… il corpo…
Selena…
Fu
questo il suo ultimo ricordo.