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Priest riuscì a convincere Georgie ad andare in ospedale. Fortunatamente non aveva riportato ferite gravi, quindi la bendarono e la misero a letto.

Charlie si era offerto di tenerle compagnia, ma lei si era inventata l’imminente arrivo di un amico che l’avrebbe riportata a casa. Georgie sospettava che lui avesse altro da fare che passare un sabato sera seduto nella sala d’attesa di un pronto soccorso. Nonostante il giovane medico le avesse consigliato di restare fino al pomeriggio, era tornata a casa a piedi all’alba. Non gli aveva detto come si era procurata le ferite.

Dopo alcune ore di sonno agitato, si alzò, fece la doccia e chiamò un agente immobiliare per visitare un appartamento più vicino all’ufficio. Quando uscì in corridoio, vide Li seduta per terra contro il muro.

«Non volevo disturbarti. Allora mi sono messa qui ad aspettare.»

«Grazie.» Georgie si sedette accanto a lei.

«Georgie, si può sapere cosa ti è successo?»

Lei rifletté. Già: cosa le era successo? Un’infinità di dettagli continuavano a sembrarle incomprensibili, ma davanti a sé aveva tutta la vita per trovare le risposte. E l’indomani sarebbe tornata in ufficio. «Vuoi trasferirti con me in una casa più vicina al centro?»

Li tacque qualche istante. Poi sorrise e annuì. «Certo.»

Per un po’ rimasero sedute in silenzio. Poi sentirono dei passi sulle scale.

«Li, dove sei... Ah, eccoti qui.» Quando vide Georgie, Martin si fermò e fece per tornare indietro.

Un tempo lei sarebbe arrossita per l’imbarazzo. Ma ora non più. Si alzò. «Ehi, Martin, aspetta un secondo, per favore.»

Lui esitò, in dubbio se ignorarla o meno, ma poi obbedì. Rimase fermo a guardarla. «Sì?»

Georgie gli si avvicinò, alzò il braccio e gli diede un pugno in faccia.

Gemendo di dolore e sorpresa, Martin cadde a terra come un sacco di patate.

Li balzò in piedi.

«Sei uno stupratore» disse Georgie. «Ma non mi fai paura.»