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Priest calcolò che l’uomo ci avrebbe impiegato almeno tre minuti per venire a capo del bluff. In un’emergenza, ogni seconda possibilità era una manna dal cielo. Basta chiedere alla mia ex moglie. Non poteva sprecare un’altra occasione.

Aveva la schiena immobilizzata, ma poteva piegare il collo e raggiungere così l’accendino infilato nel taschino sul petto della maglietta. Contrasse gli addominali e incurvò le vertebre fino a sentirle scrocchiare, riuscendo ad avvolgere la lingua intorno al cappuccio metallico dell’accendino. Quando si sentì sicuro, sollevò la testa. Strattonò il polso destro per girare la mano a palmo in su. Il cavo affondò come un coltello nella pelle morbida del braccio. Per sopportare il dolore, Priest morse l’accendino. Poi raddrizzò la schiena e sputò.

Per un attimo il Clipper rosso parve fermo a mezz’aria, come intrappolato in una ragnatela invisibile. La traiettoria sembrava sbagliata. Il lancio sarebbe stato troppo corto. Priest sbatté le palpebre e in una frazione di secondo lo scenario cambiò di nuovo.

Le dita si chiusero attorno al cilindro di plastica, ma la presa era tenue. Trattenne il respiro. Ruotò l’accendino, facendolo oscillare tra indice e pollice. Alla fine riuscì a metterselo sul palmo. Solo allora espirò. Venticinque secondi erano andati, forse trenta. Spostò la levetta per regolare la fiamma verso il segno + e fece scattare la rotella che, sfregando sulla pietra, liberò il gas. La fiamma tremolò e si stabilizzò. Un altro gioco di dita e spinse l’accendino verso il polso per poi indirizzare con l’indice la punta verso il basso e far lambire la propria carne dalla fiamma.

Il bruciore fu istantaneo. Il braccio si indurì. Il dolore invase gli arti, i recettori gridarono al cervello di gettar via l’accendino. Era una sensazione atroce, ma resistette.

Infine la fiamma raggiunse la plastica. Priest si morse il labbro a sangue, lasciandosi sfuggire poco più di un sospiro. Il braccio urlava. All’inizio la plastica sembrava rimanere intatta: il fuoco la avvolgeva ma bruciava soltanto la pelle ai due lati del cavo. Un tremore colse l’avambraccio e investì il polso. Priest era giunto al limite della sopportazione. Sputò e bestemmiò; il corpo stava per avere la meglio, l’impulso a rilassare le dita era ormai irresistibile. Nell’aria si diffondeva un debole odore di carne bruciata.

Già pensava che avrebbe dovuto rinunciare al piano di fuga ma, nell’istante in cui decise di arrendersi al dolore, avvertì le prime avvisaglie di reazione chimica nella plastica. Pur con una lentezza straziante, si stava ammorbidendo. Le lacrime gli colmarono gli occhi, come se tutto il corpo si stesse liquefacendo.

Era al limite. Il fuoco lambì la manica. Se la stoffa avesse preso fuoco, c’erano buone probabilità che lui bruciasse vivo. Ora so come si sentiva la sogliola al limone...

Poi il cavo schioccò e la plastica cadde sul pavimento. Mentre i due capi brillavano, un filo di fumo si arricciò verso il soffitto. Priest non osò guardarsi i polsi. Gli sembrava di avere un pugnale conficcato nella carne.

Anche l’accendino era finito a terra, ma non importava. Con la mano libera, Priest riuscì ad aprire un cassetto della scrivania e ad afferrare un tagliacarte. Era appartenuto a suo padre: una lama dritta con le iniziali FP intagliate sull’osso curvo del manico.

Infilò il coltello tra il cavo e l’altro polso e in un secondo riuscì a liberarsi. Poi passò alle gambe e al nastro adesivo attorno al petto. Quando finì, barcollò ansimando e si accasciò sul tavolo. Dovevano essere passati due minuti, forse meno. Non male, Houdini. Anche se forse hai appena detto addio per sempre a una carriera da pianista. Aveva tempo per pensare. Strinse le palpebre. La stanza girava. Doveva avere una commozione cerebrale. Non si sentiva , in cucina. Ma quel senso di straniamento da sé non gli era affatto nuovo. Quindici secondi. Prima della prossima mossa, si sarebbe concesso quindici secondi di respirazione lenta e controllata.

Quindici secondi esatti dopo, si riscosse.

La scatola era ancora sul tavolo, insieme al manganello. Priest lo prese. Quando strinse l’impugnatura, il dolore gli risalì il braccio, ma non mollò la presa. Per un attimo pensò al tagliacarte o ad altre lame presenti nel cassetto della cucina. No. I coltelli sporcavano ed erano inutili contro un avversario determinato, soprattutto se si aveva fretta. Con il manganello, invece, bastava un colpo ben assestato.

Lo teneva per la maniglia laterale, con il retro a proteggere il braccio e l’asta principale puntata in fuori. In quel modo, sarebbe stato più preciso e la parte posteriore fungeva da scudo. Impugnato nella maniera classica, era uguale a qualsiasi altro bastone, ma in quel modo diventava un’estensione dell’avambraccio.

Per un istante tese le orecchie, immobile. Non sentiva battere sulla tastiera né cliccare con il mouse. E nemmeno il ronzio della vecchia ventola. L’intruso era ancora nell’appartamento?

Si tolse le scarpe per spostarsi in silenzio sul pavimento della cucina. Anche facendo molta attenzione, le suole avrebbero fatto rumore. La porta era socchiusa. Priest teneva d’occhio una parte del soggiorno, ma l’angolo gli impediva di vedere la scrivania. Non c’era modo di sapere se il falso poliziotto era ancora lì. Aguzzò l’udito ma non sentì nulla.

Quando la spinse lentamente con il manganello, la porta non scricchiolò. La stanza si rivelava per gradi. Un divano reclinabile in pelle rossa attorno a un tavolino da caffè con il ripiano in vetro. Un televisore al plasma da cinquantadue pollici appeso al muro sopra un finto camino. A coprire un’intera parete, file di scaffali ingombri di libri di qualsiasi genere. Thriller, horror, classici. Testi accademici di psicologia, sull’ipnosi, sull’arte della guerra. Biografie di personaggi storici, qualche graphic novel. Una biblioteca eccentrica, apparentemente disordinata.

L’unica illuminazione proveniva dai faretti sopra il divano e dall’acquario: più che rischiarare, creavano atmosfera. La parete di fronte alla libreria era interamente di vetro. Le tende tirate offuscavano il profilo della città. C’erano porte che conducevano in altre stanze. Due camere da letto, un guardaroba, uno studio e una rampa di scale che portava a un giardino sul tetto con vista su Covent Garden. L’intruso poteva essere ovunque.

Priest diede un’altra spinta alla porta. Era teso, ogni muscolo contratto come una molla nell’attesa di colpire. Ogni battito del cuore echeggiava come i passi di un esercito in marcia nella tundra. Ma non era l’unico rumore. Nonostante i nove piani dell’edificio, le doppie finestre non riuscivano a bloccare il mormorio della gente in strada che entrava o usciva dai negozi e dai bar, il rombo del traffico, le melodie dissonanti dei musicisti di strada. Spesso Priest rimaneva seduto nel giardino sul tetto ad ascoltare quel concerto di suoni, quasi fosse lo stridore di un gigantesco macchinario costantemente all’opera nel dedalo di vie sottostanti.

Dietro la scrivania non c’era nessuno. Il computer era spento. La stanza era immersa nel silenzio. Per due o tre secondi Priest si sentì risucchiare nel vuoto. Avanzò verso il centro del soggiorno, il manganello teso per parare un eventuale attacco. Tutte le porte erano chiuse. Priest raddrizzò la schiena. Ne era passata di acqua sotto i ponti da quando pattugliava le strade, ma il passaggio da agente a detective, e infine ad avvocato, non aveva intaccato la sua prestanza fisica. Restava un atleta nato, magro e con le spalle larghe. Ma in quel momento doveva fare i conti con una commozione cerebrale e il braccio gli faceva così male che doveva lottare per mantenere la presa sul manganello. Comprensibilmente, per la seconda volta quella sera, reagì una frazione di secondo troppo tardi.

Sollevò il manganello per proteggersi il volto, ma il falso poliziotto strisciò alle sue spalle e gli strinse una corda al collo, mandandolo lungo disteso sul fianco. Priest ansimò cercando di respirare, ma con orrore si accorse di avere la trachea schiacciata. Il panico lo travolse. Soffocava, in preda ai conati. La situazione peggiorò. Drammaticamente. I due uomini vorticarono in un abbraccio mortale e Priest cercò di scrollarsi l’intruso di dosso. Andarono a sbattere contro la libreria. Priest inchiodò l’aggressore contro gli scaffali, ma l’altro mantenne la presa, aumentando la stretta attorno alla sua carotide.

Priest sentì il fiato caldo sul collo e un gemito di trionfo nell’orecchio. Mentre il cervello, appannato dall’assenza di aria, cominciava a rallentare, gli occhi gli si riempirono di scintille. A uno a uno i muscoli cedettero e Priest cominciò lentamente ad arrendersi. Per un attimo pensò a suo padre. Al suo sorriso intelligente e ai suoi imperscrutabili occhi azzurri. Azzurri come i suoi. Lo guardava con insolenza, lo chiamava. Gli diceva di non darsi per vinto. Non indietreggiare mai. Non chinare mai il capo. Non lasciarti mai mettere i piedi in testa, Charlie. Per nessun motivo.

Con il manganello menò un fendente alle costole dell’assalitore. Sentì il metallo che colpiva la carne e il falso poliziotto per un istante mollò la presa sulla fune. Bastò a fargli prendere una boccata d’aria. Poi lo colpì di nuovo, più forte, nello stesso punto. L’uomo guaì di dolore. Balzò di lato e riuscì a rimanere in piedi, ma Priest aveva guadagnato abbastanza spazio per colpirlo con lo sfollagente sul fianco, con tutta la forza che aveva. Finalmente avvertì le ossa che si spezzavano.

Si girò e abbatté il manganello sulle braccia del suo aguzzino, cercando di arrivare alla testa. Poi, con la sinistra, sferrò il pugno più forte che avesse mai dato. Lanciò in aria lo sfollagente e lo riprese al volo. Ormai la precisione non serviva più. Per un momento rimase con il braccio alzato a fissare l’uomo. Sanguinava: sembrava che l’ultima manganellata gli avesse asportato metà faccia. Sarebbe stato facile finirlo. Sollevò l’arma, ma qualcosa lo fermò. Esitava.

Basta, Charlie , disse il padre. Non sei mica tuo fratello.

Priest abbassò il braccio. Non sei tuo fratello, Charlie. William Priest non ci avrebbe pensato due volte: avrebbe fracassato il cranio dell’uomo per vedere cosa c’era dentro.

Per questo William non sarebbe mai uscito dal manicomio criminale di Fen Marsh.

«Chi sei?»

«Cosa te ne frega?»

«Ti ho mentito. Non ho nessuna chiavetta con dei file che ti riguardano.»

«’Fanculo!» L’intruso tossì un grumo di saliva rossastra. «Lui mi ha giurato che ce l’avevi.»

«Lui chi?»

Il falso poliziotto non rispose e Priest fece un passo verso di lui. Voleva sollevarlo di peso e inchiodarlo al muro per ottenere delle risposte. Ma non andò così.

L’uomo aveva ancora energie per combattere: si gettò in avanti, gli afferrò una gamba e gli affondò i denti nella caviglia. Per un attimo, mentre il dolore gli risaliva il polpaccio, Priest temette che gli avesse mozzato il piede. Fu abbastanza per fargli perdere l’equilibrio. Nell’istante in cui cadde sul pavimento, l’altro corse in cucina e poco dopo Priest sentì la porta spalancarsi.

Per strada, un musicista improvvisò un blues strascicato.