37
Lo sparo catapultò Priest indietro di due decenni. Dopo quattro anni da semplice poliziotto di quartiere, aveva ottenuto il diritto di entrare in un nucleo armato e si era iscritto al centro nazionale di addestramento per le armi da fuoco. Aveva passato sei settimane nel Kent a sparare con una Glock 17 a bersagli sempre più piccoli, finché un giorno, quando ormai i superiori avevano notato la sua perizia balistica, non lo avevano chiamato da Scotland Yard. C’era un posto vacante da agente investigativo. Da allora, Priest non aveva più premuto un grilletto.
Nella frazione di secondo che impiegò per scrollarsi il passato di dosso, si rese conto di un altro fatto.
Era ancora vivo.
Il proiettile si era conficcato nel muro alla sua destra, mancandolo di almeno un metro. L’arma era scivolata sul pavimento della cucina quando una sagoma imponente, in preda a un furore selvaggio, aveva aggredito Cappuccio con una grossa mazza di legno. «Che cosa credevi di fare, eh? Che cosa credevi di fare?»
«Fagin?»
Priest impiegò qualche secondo per capire che si trattava del giardiniere. Fagin era in pensione, ma quarant’anni di lavoro all’aria aperta gli avevano dato un fisico così robusto che, contro ogni aspettativa, aveva la meglio su Cappuccio.
L’uomo mascherato parò con le braccia i primi due colpi di mazza. Fagin ne vibrò un terzo dall’alto in basso. L’intruso balzò di lato, evitando di pochissimo di farsi spappolare il cranio. Il colpo a vuoto fece perdere l’equilibrio al giardiniere e Cappuccio lo scaraventò di peso addosso a Priest.
Caddero all’indietro e Priest colpì il pavimento con una spalla e la schiena. Tutta l’aria gli uscì dai polmoni. «Fagin, la pistola!»
Con agilità inaspettata, il giardiniere balzò in piedi e si gettò sull’arma. Ma fu tutto inutile. Presentendo una sconfitta inevitabile, Cappuccio aveva levato le tende. Quando si rialzarono, l’intruso era scomparso.
Non si chiamava davvero Fagin. Il suo vero nome era Brian. Erano stati il volto segnato, il lungo cappotto spesso e l’abitudine di portare sempre con sé un grosso bastone di legno a fargli guadagnare quel soprannome dickensiano, che lui non aveva mai cercato di scrollarsi. Sarah lo considerava un vecchiaccio viscido con un’ossessione vittoriana per il rango e la disciplina. Ma Priest aveva sempre avuto un debole per lui. Non che lo trovasse granché simpatico, ma gli veniva naturale trattarlo con un rispetto che, in fondo, era reciproco.
Quando aveva ereditato la casa, Priest aveva deciso di tenerlo come custode. Non sarebbe mai riuscito a sopportare la vista della villa completamente in rovina, né aveva intenzione di licenziare un pensionato che curava la conifere e tagliava l’erba. Nonostante le riserve di Sarah, la scelta si era rivelata ispirata.
«Cosa diavolo ci fai qui, Charlie? E quello chi era?» chiese Fagin.
«È una lunga storia» mormorò lui.
«Non ne dubito. Tu nella tua vecchia cucina con un morto per terra e una pistola puntata addosso: di certo non dev’essere una storia breve.»
Priest ansimava. Si sentiva ancora pervaso dall’adrenalina. «Sono nei guai, Fagin.»
«Davvero? E chi l’avrebbe mai detto?»
«Temo di essermi invischiato in una brutta faccenda.»
«Mmm. Tuo padre non riusciva a tenersi fuori dai guai. E mi sa che pure tu sei dello stesso ceppo. Be’, in qualsiasi cosa tu ti sia ficcato, non lo voglio sapere. Non mi riguarda. Per come la vedo io, uno che va in giro incappucciato per non farsi riconoscere non è certo una brava persona.» Fagin si chinò, prese la pistola e la guardò da vicino. «Un’arma d’importazione. Una Desert Eagle. Ora capisco perché il tuo amichetto qui ha mezza testa spappolata.»
«Sei riuscito a fargli del male?»
«Temo di no. Stai tranquillo che quello torna, se era questo che volevi chiedermi.»
Priest scrollò le spalle. Sperava che le ferite infertegli da Fagin lo mandassero all’ospedale per poi provare a rintracciarlo. Si inginocchiò e ispezionò il cadavere che inondava di sangue il pavimento della cucina. Si mise la mano davanti alla bocca: l’odore era nauseabondo. Era diverso dal fetore di decomposizione percepito in molte altre scene del crimine. Era la puzza del sangue fresco.
«Questo qui invece era un soldato semplice» disse Fagin, sfiorando il corpo con il bastone.
Priest gli frugò le tasche ma trovò solo sigarette e accendino. Non aveva portafogli. Doveva essere un barbone, reclutato per quattrocento sterline. «Ma reclutato per quale causa?» mugugnò.
«Guarda che mica ti risponde. I morti non parlano, non lo sapevi?»
«Mmm.» Priest si alzò e andò verso la finestra. La grande quercia attirò la sua attenzione: aveva radici nodose sprofondate nella terra ad ancorare il tronco possente. Conosceva bene quell’albero. Sotto le sue fronde aveva sposato Dee.
«Charlie?»
Priest si voltò e il ricordo svanì. «Scusa, cos’hai detto?»
«Niente. Secondo me è meglio se vai a riposare. Di questo casino me ne occupo io. In modo riservato, naturalmente.»
«Fagin, non devi...»
Il vecchio alzò una mano. «Non sarebbe la prima volta che aiuto uno della tua famiglia a disfarsi di un cadavere.»
Priest esitò. Forse scherzava, eppure già anni prima aveva ipotizzato che qualcuno avesse dato una mano a William con almeno uno degli omicidi. Ma non era il momento di ricominciare con i sensi di colpa. «Allora ti ringrazio tantissimo.»
Fagin annuì. «Tu stai bene?»
«Certo. Mi dispiace solo che sia scappato, tutto qui.»
«Ti ha rubato qualcosa?»
«Sì. Una cosa importante.»
«Un piccolo microchip?»
«Qualcosa del genere.»
«Mmm.» Fagin annuì di nuovo, con solennità. Infilò la mano nel pozzo senza fondo della tasca, la scosse un po’ avanti e indietro e sotto lo sguardo attonito di Priest ne estrasse una chiavetta. «Non è che potrebbe essere questo?»
«Dove...» Priest si sentiva come se gli avessero appena rovesciato in testa dell’olio bollente.
«Perché diavolo credi che mi chiamino Fagin?»
Priest salì i gradini dell’ufficio tre per volta.
Tornando a casa dalla villa aveva provato a chiamare Jessica quattro volte, ma c’era sempre la segreteria telefonica. Frustrato, le aveva lasciato un altro messaggio. «Jessica? Sono io. Dove sei? Ho la chiavetta. Chiamami appena puoi.»
Attraversò di corsa la sala d’aspetto e imboccò le scale. Maureen aveva a malapena aperto bocca che lui la interruppe: «Scusami! Di’ a tutti che sono in vacanza».
Accese il computer, infilò la chiavetta nella porta USB e attese che in un angolo comparisse la conferma dell’installazione di un nuovo dispositivo. Dai, muoviti! Dall’impazienza si mise a tamburellare le dita sulla scrivania.
«Buongiorno, grande capo.»
Priest fece un salto sulla sedia. Non aveva sentito Okoro arrivare.
Da dietro la sua spalla, Georgie sbirciò nell’ufficio con un gran sorriso. «Scusaci. Abbiamo bussato, ma...»
«Ho recuperato la chiavetta.»
Loro si sedettero. Georgie teneva la biro a pochi centimetri dal quaderno, come per prendere appunti a lezione.
«E quindi voi due vi siete appena guadagnati una bella vacanza.»
«Cosa?» chiese Georgie sorpresa.
«Date le attuali circostanze... Io ormai ci sono dentro per forza, ma voi non c’entrate nulla. Ed è una situazione pericolosa, molto più di quanto pensassi. Non siete pagati per rischiare la vita. Fino a quando non avrò risolto tutto, basterà Maureen a tenere in piedi l’ufficio.»
«Invece sì che c’entriamo anche noi» disse Okoro.
Lui sollevò una mano. «No. Assolutamente no.»
Georgie sembrava delusa. «Non posso tirarmi indietro adesso , Charlie.»
«Georgie, guardami. Le vedi queste macchie bianche sul bavero del cappotto?»
«Sì.»
«Indovina cosa sono.»
Lei si chinò a ispezionare il tessuto. «Calamari?»
«Materia cerebrale, Georgie. Umana.»
«Cosa ?» Georgie balzò indietro.
«Piantala di fare l’eroe. Non ti libererai di noi, punto. Ora, cosa significa materia cerebrale ? Di chi? » chiese Okoro.
Priest provò a formulare una risposta credibile, ma qualcosa lo trattenne. Il senso di colpa lo divorava. Se non era la loro battaglia, be’, in realtà non era nemmeno la sua. Qualcuno lo aveva costretto a partecipare e lui a sua volta aveva tirato dentro gli altri. Forse il modo migliore di proteggere Georgie, Okoro e Solly era tenerli all’oscuro.
«Priest?» lo chiamò Okoro.
Con la penna ancora sospesa sul foglio, Georgie sembrava un ritratto della purezza e dell’innocenza.
«No» disse Priest, scuotendo la testa. «Non voglio sobbarcarmi anche la responsabilità di voi due.»
Georgie fremette, pronta a protestare, ma lui alzò la mano.
«No, Georgie. Basta così. Non voglio trattarti come una bambina. So che sai che non è un gioco. Lo sapete entrambi. Ma in giro c’è qualcosa di così malvagio che la gente muore per proteggerlo, per servirlo, per sfidarlo. Qualsiasi cosa sia, è più grande di noi: più grande di voi. Tornate a casa e dite a Solly di fare lo stesso. Finché questo casino non si risolve, l’ufficio rimane chiuso.» Priest si aspettava che Georgie provasse a convincerlo, ma lei si limitò a fissare la scrivania con espressione desolata. Poi estrasse una pila di carte che posò davanti a lui. «Che cos’è?»
«Una copia del rapporto che ho trovato nello studio di Philip Wren, più qualche mia ricerca sull’argomento.»
Priest mise una mano sopra i fogli ed esitò di nuovo. In qualche modo gli sembrava che prenderli significasse concedere qualcosa, ma non poteva non farlo. Cominciò a sfogliare le prime pagine. Quando incrociò il suo sguardo, il sorriso di Georgie rimase confinato alle labbra. «Grazie.»
Lei alzò le spalle.
«Ti proteggeremo noi» disse Okoro.
«Non avevo dubbi.»
Si alzarono e cadde un silenzio imbarazzato.
«Dirò a Maureen di avvertire i clienti che rimarremo chiusi fino a data da destinarsi» disse Okoro.
«Grazie.»
«In bocca al lupo, Charlie» disse Georgie. Quella volta anche i suoi occhi sorrisero.
Lui si alzò e strinse loro le mani. «Vi terrò aggiornati.»
La porta si chiuse.
Priest si risedette e chiuse gli occhi, ma la tregua era destinata a finire presto. Il file aveva finito di scaricarsi. Sullo schermo campeggiava una cartella denominata semplicemente Ephemera .
Dentro c’era un pdf. Cliccò due volte sull’icona. Era un database. Una lunga lista di nomi e indirizzi. Li scorse in fretta, il cuore in tumulto. Tutto qui? Tutto quest’odio, tutto questo spargimento di sangue per un semplice elenco di indirizzi?
Anche se la stragrande maggioranza dei nomi non gli diceva nulla, ne riconobbe qualcuno. Un politico piuttosto noto, un ufficiale di polizia con cui un tempo aveva avuto a che fare, due o tre avvocati che esercitavano nei suoi stessi tribunali. Tra quegli individui non sembrava esserci alcuna connessione. C’era soltanto una certezza. Qualcuno aveva un bisogno disperato di mantenere segreti quei nomi.
Priest attraversò il parcheggio sotterraneo e, prima di arrivare alla Volvo, rallentò. Qualcuno lo aspettava appoggiato con disinvoltura alla sua auto. Priest si fermò a qualche passo di distanza, le chiavi in mano. La luce le illuminava i capelli ma le lasciava il volto nell’oscurità. Anche se non riusciva a vederla bene in faccia, i tratti eleganti erano indubbiamente quelli della donna con cui la sera prima era andato a letto.
Per un attimo rimase immobile. Voleva farle credere di non provare nulla. Voleva farlo credere anche a se stesso. In silenzio, premette il pulsante di apertura ed entrambi salirono in macchina.
Fu solo dopo qualche chilometro che Jessica parlò. «Dove stiamo andando?»
«Non lo sai?»
«Certo che lo so.»
Lui la guardò con la coda dell’occhio. «Tua madre non ti ha insegnato che non bisogna salire in macchina con gli sconosciuti?»
«Mia madre non mi ha insegnato granché. Comunque ho colto l’allusione, ma avevo il cellulare scarico.»
«Dov’eri finita?»
«Avevo bisogno di riflettere.»
Priest decise di non farle altre domande, ma incontrando il proprio volto nello specchietto fu sorpreso di vedersi sorridere. Era contento di vederla. Ipotizzò di parlarle della sera prima, ma ormai la conosceva abbastanza da sapere che, se Jessica avesse voluto toccare l’argomento, non ci avrebbe pensato due volte. Tuttavia il silenzio non aiutava a schiarirsi le idee. Chissà se era pentita... o addirittura si vergognava? Ma soprattutto, per venire al sodo, ha intenzione di ripetere la performance? «Stiamo andando a trovare un mio vecchio amico. Lavora per la polizia del Galles Meridionale, ma in questi giorni è in città per una specie di corso d’aggiornamento. Ci metteremo al massimo un’ora.»
«Ottimo.» Il suo tono suggeriva l’esatto contrario.
«Hai ricevuto il mio messaggio su McEwen?»
«Sì.»
«L’hai detto a tuo padre?»
Jessica esitò. «No.»
«Hai fatto bene. In questa fase, meno lo coinvolgiamo meglio è.»
Il traffico era intasato. Una serie di semafori rossi si estendeva fino al limite del campo visivo di Priest. Una pioggia leggera tamburellava sul parabrezza a ritmo con il suo cuore.
«Mentre faceva un sopralluogo nello studio di Wren, Georgie ha trovato degli estratti di un rapporto su un omicidio avvenuto in un bosco a trenta chilometri da Cardiff. Il caso mi è subito sembrato interessante perché, nonostante fosse la perfetta notizia da tabloid, nessuno ne ha parlato.» Tacque, improvvisamente consapevole del profumo di Jessica nell’abitacolo.
«E quindi?»
«Scusami. Mi sono distratto un secondo. Il rapporto è incompleto, ma parla di una baita abbandonata in mezzo al bosco. Hanno trovato la vittima su una sedia. È morta per avvelenamento.»
«Per avvelenamento?»
«Sì, ma non si trattava di un veleno comune. Era una sostanza molto particolare. Nel rapporto non ci sono analisi chimiche, ma, qualsiasi cosa fosse, ha fatto impazzire la vittima.»
«E qual è la causa della morte?»
Priest ripensò al contenuto del rapporto e alla foto della vittima. Era la seconda grottesca parodia di un corpo umano che vedeva in pochi giorni. Lo stomaco gli fece una capriola. «Si è scorticata da sola.»
«Ah.»
Priest attese. «’Ah?’ Tutto qui?»
«E quale sarebbe invece secondo te la reazione emotiva appropriata?»
«Qualunque cosa, ma non ’ah’. Magari una risposta più... ecco... empatica.»
«E secondo te qual è il modo corretto di mostrare empatia per qualcuno che si è scuoiato da solo?»
«Io...» Dietro di loro suonò un clacson; il traffico aveva ricominciato a muoversi. La Volvo riprese a brontolare e avanzarono di qualche metro. Priest si voltò verso Jessica, che sedeva perfettamente composta, immobile, gli occhi fissi sulla strada e le mani in grembo. Fremette sul sedile. Che cosa c’era in lei che lo turbava tanto?
«Quindi alla fine hai recuperato la chiavetta?»
«Wren l’aveva spedita alla villa dei miei genitori, non dove vivo adesso.»
«E quindi?»
«C’era un elenco di nomi e indirizzi.»
«Tutto qui?»
«Sì.»
«Pensi che i nomi significhino qualcosa?»
«Temo di no. Qualcuno l’ho già sentito, ma di rilevanti non mi pare che ce ne siano, e stando all’anagrafe alcune delle persone sono morte.»
«Quindi siamo al punto di partenza.» Priest sentiva la frustrazione nella sua voce.
«Ma quei nomi devono significare qualcosa per qualcuno . Magari potremmo chiedere a tuo padre di dargli un’occhiata... Forse lui ne riconosce molti più di me.»
Lei annuì. Per un po’ proseguirono in silenzio.
«A casa vostra tua sorella mi ha fatto vedere una stanza» disse Priest, cauto. «Quella dove tuo padre tiene gli insetti.»
«È sempre stata una persona fin troppo ospitale» fu la sarcastica replica di Jessica.
«E perché tu non mi avevi detto nulla, invece? Cioè, tuo padre colleziona insetti, tra cui efemere. Come la farfalla trovata nella gola di Miles.»
«E basta questo a farne un potenziale sospetto?»
«Non necessariamente.»
«E allora come mai ti sembra importante? Ha passato la vita a collezionare insetti.»
Priest strinse i denti. La conversazione aveva imboccato il verso sbagliato. Nel frattempo, perché non infilare un bel commentino sulla scopata animalesca di ieri sera, tanto per acuire un po’ l’imbarazzo? Sarebbe stato un lungo tragitto. Certo che rimarremo chiusi in macchina per un bel po’. Sarà in grado di eludere l’argomento per un’ora intera? Priest fece un respiro profondo e cominciò. «Posso solo chiederti una cosa su...»
«Sulla scopata di ieri?» lo interruppe lei.
«Brava.»
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Mi chiedevo solo se volessi parlarne.»
Lei scrollò le spalle, come se Priest si fosse appena reso ridicolo. «In che senso? Vuoi un’analisi tecnica?»
«No, non intendevo questo.»
«E cosa volevi dire, allora?»
«Voglio dire...» Esitò. A metterla in quei termini, non sapeva più come affrontare la questione. Provò a riformulare il pensiero. «Cioè... tu... che cosa provi?»
«Che cosa provo ?»
Priest non avrebbe saputo dire se lo stesse prendendo in giro oppure non avesse davvero capito la domanda. «C’è qualcosa che non ti è chiaro nel mio modo di esprimermi?»
«Cioè, mi stai chiedendo che cosa provo per te?»
Priest si irrigidì. L’imbarazzo era palpabile. «Temo di sì.»
Jessica parve pensierosa, ma Priest sospettava che lo stesse prendendo in giro.
«La situazione in cui ci troviamo ci costringe a considerare quello che è successo ieri sera come un errore.»
«Jessica... Per caso sei un androide?»
Lei riprese a guardare la strada. Per minuti interi si protrasse un silenzio agonizzante.
«Forse sarebbe meglio parlare. Non per forza di ieri sera, ma di qualsiasi cosa.»
Jessica fece una serie di gesti, come se volesse evocare un argomento di conversazione. «Va bene» disse, dopo una lunga pausa. «Come mai sei divorziato?»
«Questo sarebbe il tuo contributo per una conversazione leggera? ’Come mai sei divorziato?’»
Lei scrollò le spalle.
«Quantomeno è conciso.»
Grazie a Dio il traffico cominciava a scorrere. In cima alla coda c’erano delle luci blu lampeggianti e più in là la strada pareva più sgombra. Stavano per emergere dal collo di bottiglia.
Priest avrebbe voluto ritentare con maggior impegno, ma non trovava le parole giuste. Inoltre Jessica era stata molto chiara: preferiva evitare l’argomento. Perciò decise di soprassedere. «Stiamo andando da Tiff Rowlinson. È l’ispettore capo della polizia del Galles Meridionale. Abbiamo lavorato assieme a Londra. Tiff è un investigatore eccezionale e tra le altre cose si sta occupando dell’avvelenamento di cui ti parlavo. Voglio capire se c’è un legame tra questo caso, la morte di Philip Wren e quella di tuo fratello.»
«Credi davvero che possa esserci una connessione?»
«Be’, già Wren in sé basterebbe come trait d’union. Quindi almeno un punto di partenza ce l’abbiamo.»
Lei annuì.
Priest manteneva una presa salda sul volante. Sentiva sempre di più il suo profumo. Ripensò ai gemiti dolci e rochi della sera prima, al modo in cui gli aveva affondato le dita nella nuca, a come a ogni suo tocco aveva tremato di piacere. Scacciò l’immagine dalla mente. Il lavoro prima di tutto. «Mia moglie se n’è andata» disse, dopo un silenzio lungo mezz’ora. Ormai si erano lasciati Londra alle spalle.
«Perché?»
Priest rifletté. «Forse perché nel corso degli anni aveva iniziato a odiarmi.»
Jessica annuì. Poi sorrise.