39

Tiff Rowlinson non era cambiato. Sembrava immune al passagio del tempo, come se fosse entrato in una distorsione temporale. Più lunghi da un lato, i capelli biondo rossiccio gli scendevano fin quasi sugli occhi. Aveva l’aria del componente più grande di una boy band.

Lo trovarono seduto su una panchina di legno, lo sguardo assente fisso sulla valle punteggiata di fattorie. Se non fosse stato per le turbine eoliche sparse qua e là, il paesaggio sarebbe stato identico a trecento anni prima.

Rowlinson si voltò verso di loro e li salutò senza troppe cerimonie. Aveva il braccio disteso sullo schienale della panchina e una tazza di caffè in mano. Quando vide Jessica, si alzò e le porse la destra. «Come sta? Pensavo che fossi solo, Priest. Non che in tre si sia in troppi, per carità, signorina...»

«Ellinder. Jessica Ellinder.»

Si strinsero la mano. Con una punta di fastidio, Priest notò che di fronte alla bella presenza di Rowlinson, come più o meno chiunque lo vedesse per la prima volta, Jessica si era rilassata all’istante.

«A proposito, William come sta?»

«Sempre fuori di testa.»

«E tu sei sempre più brutto. Troppo brutto per essere in simile compagnia. Se la signorina Ellinder è una tua associata, allora ti consiglio di triplicare le tariffe.»

«È una cliente. Comunque anch’io sono felice di vederti, Tiff.»

«Una cliente?» Rowlinson sollevò un sopracciglio. «Quindi siete venuti fin qui per un viaggio di lavoro? Spero che la signorina Ellinder non ti paghi a ore.»

Si sedettero sulla panchina – Priest si mise in mezzo – ad ammirare le colline. Jessica gli sfiorava la gamba con il ginocchio, facendogli sentire il bisogno di distrarsi. Nella tasca interna della giacca teneva un pacchetto di sigarette. Pensò di prenderne una, ma si ricordò che, dopo averlo usato per carbonizzarsi il polso, non aveva più trovato l’accendino.

«Allora, spiegami tutto» cominciò Rowlinson. «Non ci sentivamo da quanto? Un anno? E poi all’improvviso mi chiami per dirmi che vuoi vedermi questo pomeriggio in un luogo discreto, per parlare di qualcosa di talmente segreto che al telefono non vuoi nemmeno nominare. E arrivi insieme a una cliente. Deduco che non sei qui per farmi una dichiarazione d’amore.»

«Ho avuto una serie di giornatacce, Tiff» disse Priest sbattendo le palpebre e studiando l’orizzonte.

«Raccontami tutto.»

Priest gli passò l’estratto del rapporto trovato da Georgie nello studio di Wren.

Rowlinson sfogliò e gli ripassò il plico. Il suo volto era diventato minaccioso. «Chi te l’ha dato?» chiese, in tono calmo.

«Era nell’ufficio del defunto procuratore generale.»

«Bene, bene.»

«Mi serve una mano, Tiff.»

Una ventata gelida invase la vallata scompigliando l’erba. Chiazze di muschio viola interrompevano qua e là la monotonia verde scuro del prato. Jessica si aggiustò la giacca sulle spalle. Priest pensò di offrirle il proprio cappotto, ma dubitava che lei avrebbe gradito tale galanteria.

«Immagino che la tua non sia una semplice curiosità, Priest» disse Rowlinson dopo qualche istante.

«No, che cavolo. Siamo proprio nell’occhio del ciclone.»

«Capisco. In tal caso ti consiglio di prendere l’ombrello.»

Priest si voltò a guardare l’ex collega. «Cosa sta succedendo?»

«Mi piacerebbe saperlo.»

«Questo caso è tuo. Sei tu l’investigatore con la maggiore anzianità di servizio.»

«Lo ero. Ora non più.»

Priest era perplesso. Rowlinson era un poliziotto di grande talento. Quale commissario sano di mente avrebbe deciso di togliergli un caso? «Quindi chi se ne occupa?»

«Non ne ho idea» disse Rowlinson, appoggiandosi allo schienale e allungando le gambe. «So soltanto che non è più il mio caso.»

«Chi ha deciso di togliertelo?»

«Non so nemmeno questo. E neanche il mio capo, pensa un po’. Mi ha detto solo che l’ordine è arrivato direttamente dalla sede centrale.»

«Ma la sede centrale non...»

«Non si occupa di faccende locali? Dai, su. Dove sei stato negli ultimi dieci anni?» Rowlinson sospirò e lasciò cadere le spalle. «Guarda, secondo voci di corridoio, Sir Philip Wren stava mettendo a punto una specie di squadra investigativa segreta per risolvere casi come quello di cui io avevo l’incarico.»

Priest sentì Jessica spostarsi.

«Wren era un avvocato, non uno stratega della polizia» disse Priest.

«Ma aveva una formazione militare. Forse si occupava di entrambi i settori.»

Priest fece una smorfia. Gli sembrava improbabile. «E dell’omicidio cosa mi sai dire?»

Rowlinson scosse la testa. «Sono arrivato sulla scena insieme alla Scientifica. Punto e basta. Poi ci ha raggiunto il nostro defunto amico.»

«Wren?»

«E chi, sennò?»

«Continua.»

Rowlinson sospirò. «Hanno legato l’uomo a una sedia e gli hanno iniettato varie sostanze chimiche che dopo un po’ l’hanno fatto impazzire e indotto a mutilarsi da solo. Deve avere sofferto in maniera inconcepibile.»

«Che sostanze erano?»

«Non posso darti una risposta sicura, ma la Scientifica ha una certa esperienza in fatto di veleni. Mi hanno detto che ce n’era uno solo in grado di causare un dolore tanto atroce. Si tratta di una versione geneticamente modificata della stricnina.»

«E che cos’è, esattamente?»

«C’è una pianta, presente soprattutto in India, che si chiama albero della stricnina. I semi contengono appunto stricnina, un alcaloide ad alta tossicità passato alla Storia come il veleno preferito dei medici nazisti durante l’Olocausto.»

«Medici nazisti?»

«Sì» proseguì Rowlinson, evidentemente senza rendersi conto della fibrillazione dell’amico. «Somministravano la stricnina ai prigionieri di vari campi di concentramento, soprattutto nel lager di Buchenwald, in Germania. Spesso la mettevano nel cibo. I medici osservavano gli effetti e prendevano nota di quanto tempo impiegavano le diverse varietà di stricnina a uccidere il paziente. Ma alla fine si è scoperto che questi alcaloidi non sono poi così efficaci.»

«A me invece lo sembrano.»

«Non per uccidere.»

«In che senso?»

«Be’, la dose media di veleno contenuta in una rana dorata è in grado di uccidere circa diecimila gatti e dai dieci ai venti esseri umani quasi in tempo reale. Mentre quei simpatici pesci scorpione che tieni in casa – ammesso che tu ti sia ricordato di dare loro da mangiare, e sempre se hai la sfortuna di avere una reazione allergica – possono ammazzarti in un giorno o due. Diciamo che la sostanza data alla vittima sta a metà tra questi due, dunque in questo caso lo scopo dell’avvelenamento non sembra essere la morte. Perlomeno non lo scopo primario. Si può considerare il decesso come un effetto collaterale.»

«E allora lo scopo vero qual era?» Priest sentì un brivido lungo la schiena. Conosceva già la risposta.

«Volevano veder soffrire quel poveraccio» disse Rowlinson a voce così bassa che Priest dovette chinarsi per sentirlo. «Il veleno aggredisce i nervi della colonna vertebrale. Produce una sofferenza indicibile, ma le neurotossine impediscono al cervello di perdere coscienza, che sarebbe la reazione naturale dell’organismo a un trauma eccessivo. Ogni muscolo si tende in preda a spasmi. L’ossigeno non arriva alle estremità, quindi mani, piedi e volto diventano cianotici, cioè raggrinziscono e assumono una tinta bluastra. La vittima vomita, defeca, spesso le convulsioni inarcano la schiena fino a spezzare la colonna. È quanto di più vicino alla possessione demoniaca si possa realmente sperimentare.»

«Dicevi che la stricnina è stata modificata...» osservò Priest.

«Forse sì. Se fosse vero, si tratterebbe molto semplicemente della sostanza più terribile mai prodotta.»

Jessica parlò per la prima volta. «Perché ha usato una terza persona plurale? Ha detto che volevano vederlo soffrire.»

Rowlinson si rovesciò in bocca gli ultimi rimasugli di caffè. «Nella baita c’erano tracce riconducibili ad almeno tre persone oltre alla vittima, e abbiamo motivo di credere che siano rimaste lì a godersi lo spettacolo.»

«Come fate a saperlo?» chiese Jessica.

«C’erano sei sedie disposte a semicerchio, come in un teatro.»

«La verità è che li eccita. Sono dei sadici» mormorò Priest.

«Però sembrano prediligere una forma particolare di tortura. Quella in cui la vittima mutila se stessa.»

«Ha detto sembrano » puntualizzò Jessica in tono saccente. «Presente indicativo.»

«Esatto.»

«Ci sono stati altri casi simili?»

Rowlinson allungò una mano sotto la panchina verso un sacchetto di cui prima Priest non si era accorto. Tirò fuori una pila di carte e gliela passò in silenzio.

Priest le scorse in fretta. «Ah. Quindi avevi già capito il motivo della mia telefonata.»

«Ho indovinato» ammise Rowlinson. «Quando succedono cose strane, hai la curiosa abitudine di farti sentire.»

Priest porse i fogli a Jessica. «Come hai fatto ad averli?»

«Quando il mio capo ha spiegato che ormai l’indagine non era più nelle mie mani e avrei dovuto dimenticarmi tutto, ho cercato di obbedire. Ma poi, facendo qualche chiamata, ho scoperto che c’erano altri investigatori nella mia stessa situazione. Le carte attestano almeno due casi simili, ma ho ragione di sospettare che ce ne siano di più.»

«Si ha l’impressione che dietro ci sia un progetto.»

«Non lo escluderei.»

Jessica tremò. «Ma come... Come fate a sapere che si divertono a guardare? Come fate a essere sicuri che non sia...»

Rowlinson si voltò verso di lei. «Mi dispiace di averlo detto. Dall’istante in cui ho messo piede in quella baita dimenticata da Dio, non ho fatto altro che cercare di pensare ad altro. Sai come sono fatto, Priest. Non ho mai avuto reazioni emotive sulla scena del crimine, ma lì, per la prima volta in vita mia, dopo neanche cinque minuti davanti al cadavere ho vomitato le budella. Ma c’è dell’altro. Abbiamo trovato...» Rowlinson deglutì a fatica. «...dei fluidi corporei sotto una sedia. Oltre al sangue e alla bile della vittima c’erano anche tracce di sperma. Queste non erano della vittima.»

Priest si grattò il mento con aria meditabonda. Accanto a sé sentiva Jessica avvicinarsi. Rowlinson aveva ripreso a fissare le colline.

«Dicevi che uno dei tuoi ha parlato di nazisti» osservò Priest.

«Sì, nello specifico di un medico nazista di Buchenwald, un certo Schneider. Pare che fosse specializzato nell’impiego del veleno sui prigionieri a fini di tortura. Alcuni degli aguzzini restavano a guardare. E io non vedo perché non crederci.» Rowlinson scosse la testa. «Il prevalere del male non smette mai di stupirmi e di nausearmi.»

«Ti piace la musica?»

Sembrava una domanda piuttosto innocua, ma ricevette soltanto un’occhiata sprezzante. Priest prese il silenzio di Jessica per un no e riprese a fissare la strada. I primi venti chilometri del ritorno erano scivolati nel silenzio più totale. Priest era deluso. A lui la musica piaceva.

China sulle carte di Rowlinson, Jessica rileggeva ogni pagina due o tre volte, come affamata, cercando di incamerare tutto. «Hai detto qualcosa sui nazisti» disse infine, senza sollevare lo sguardo.

«Davvero?»

«Te ne ha parlato anche Scarlett.»

«Quindi voi due comunicate ogni tanto?»

«La cosa ti sorprende?»

«Certo che no. Scusami. Non volevo farti la paternale.»

«Tranquillo» disse Jessica in tono impaziente. «I nazisti, quindi.»

«Credi che Miles fosse nazista?»

«Non lo escluderei.» Esitò, come colpita da un pensiero. «Sui social, i suoi username finiscono sempre con la stessa cifra. Ottantotto.»

Priest rifletté. «Non capisco.»

«L’ottava lettera dell’alfabeto è la H.»

«HH. Heil Hitler

«Potrebbe essere solo una coincidenza. Ma queste carte contengono estratti da rapporti di polizia simili a quello che la tua collaboratrice ha trovato nell’ufficio di Wren. Quindi abbiamo almeno tre casi in cui si indaga per un vittima torturata a morte con il veleno. E ogni volta sembra esserci motivo di credere che un gruppo di persone si sia riunito per osservare la scena.»

«L’Ephemera?»

«Forse è così che hanno deciso di chiamarsi.»

«L’impalamento però mi sembra poco in linea con il loro modus operandi» disse Priest.

«Da quanto si riesce a capire da questi rapporti, sembrano operare un po’ come una cerchia di pedofili» disse Jessica ignorandolo. «Sono organizzati, cinici, cauti. Non si sforzano minimamente di nascondere ciò che fanno: si credono intoccabili. Il capobanda, chiunque sia, imbastisce lo spettacolo e – immagino – una manica di pervertiti lo riempie di soldi per guardare.»

Priest aveva un nodo allo stomaco. «Hayley...»

«Parli della figlia dell’uomo che indagava su questa... come possiamo chiamarla? Setta? Quindi...»

«La sua scomparsa non può essere una coincidenza.» Strinse le mani sul volante e premette l’acceleratore a tavoletta. Quando imboccò goffamente la corsia di sorpasso, la Volvo protestò. «Forse c’è ancora tempo» disse, poco convinto. «Ma Hayley Wren è in grandissimo pericolo.»

«Da dove cominciamo?»

Priest estrasse la chiavetta dalla tasca interna del cappotto e la studiò nella luce obliqua che penetrava dai finestrini. «Abbiamo i nomi del pubblico, non dimenticarlo. Anzi, non solo i nomi, anche gli indirizzi e le loro date di nascita. Questo dev’essere l’elenco degli iscritti al circolo, o quel che è. Perciò Miles aveva un disperato bisogno di trovarlo.»

Gli occhi di Jessica si spalancarono. Sembrava pallida, più pallida del solito. Quasi di marmo. «Quindi c’è anche...»

«No» la interruppe Priest anticipando la domanda. «Nell’elenco il suo nome non c’è. E non c’è nemmeno quello di tuo padre.»

«Scusami, ma non ti sembra rischioso tenere un elenco dei presenti a questo genere di spettacoli?»

«Però è un’ottima polizza assicurativa... a patto che si tenga la lista al sicuro.»

«Quindi Miles voleva solo darle un’occhiata, oppure ritrovarla

Priest ripensò agli occhi spiritati che lo fissavano da sopra il trapano. Era quasi sicuro che Miles stesse cercando di riappropriarsi di un oggetto smarrito, non di ottenere qualcosa di cui aveva solo sentito parlare. Forse l’hanno ucciso proprio perché non è riuscito a ritrovarla. Ma in tal caso perché impalarlo? Che senso avrebbe avuto?

Priest gettò uno sguardo a sinistra. Jessica sedeva con un’espressione funerea, la testa contro il finestrino, i capelli ramati che tremavano alle vibrazioni del veicolo.

«Mi dispiace» le disse.

«Per cosa?»

«Per quello che è successo alla tua famiglia.»

«Non è colpa tua.»

Priest tese la mano, poi si bloccò. Pur avendo certamente colto il suo gesto, Jessica era rimasta immobile. Lui cominciò a tirare indietro il braccio, ma qualcosa glielo impediva. Bruciava dal desiderio di capire cosa pensasse davvero di lui, e perché meno di ventiquattr’ore prima avesse accarezzato con disinvoltura la sua pelle nuda e ora non riuscisse a trovare il coraggio di sfiorarla.

Che situazione ridicola.

Con una mano sul volante, Priest le mise un dito sulla spalla. All’inizio lei non reagì, poi lui scese lungo il braccio e allora lei riscuotendosi dal torpore si voltò e gli strinse la mano.