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24 marzo 1946
Una fattoria isolata nell’Inghilterra Centrale
Trasportarono di peso il macellaio nazista al tavolo, di fronte a Ruck. Poi due soldati con un fucile Lewis a tracolla lo costrinsero sulla sedia, gli legarono i polsi dietro la schiena e gli tolsero la benda dal viso. Infine indietreggiarono, come se il prigioniero fosse infetto.
Mentre il nuovo arrivato si abituava all’ambiente circostante – una stalla di venticinque metri quadrati, sgombra degli aratri e degli altri macchinari che un tempo ospitava – il colonnello lo teneva d’occhio. L’interno era anonimo, vuoto salvo che per il tavolo a cui sedevano Ruck e il prigioniero. Appese alle travi le catene oscillavano, tintinnando sinistre nella brezza che entrava dalle fessure nelle pareti.
Ruck si scostò i capelli dagli occhi. Alcune ciocche bionde gli ricadevano sulla fronte, ma per il resto il taglio era perfetto. Anche il completo era impeccabile, fatto su misura, senza dubbio a Savile Row. Nello squallore della stalla, debolmente illuminata dalle lame di luce che tagliavano il pavimento, sembrava un pesce fuor d’acqua.
Il nazista indossava una divisa da prigioniero di guerra a brandelli, più un sacco che un indumento, eppure sedeva dritto, a testa alta. Un atteggiamento dignitoso, nonostante la sua situazione. Non aveva mai distolto lo sguardo da Ruck. Il colonnello si chiese quante pupille si fossero spente implorando pietà a quegli occhi azzurri. Conosceva bene quel tipo di disperazione: ci si era imbattuto più di una volta.
Kurt Schneider era più alto di lui e magro in modo impressionante. Non quanto gli scheletri liberati dai lager, ma da settimane Ruck gli impediva di dormire e di mangiare, e cominciava a vedersi. Schneider non sembrava ancora spezzato. Le rughe profonde sul viso e le ciocche grigie che spuntavano dalla fronte troppo alta lo invecchiavano in maniera innaturale. Mentre un occhio insolente penetrava quelli di Ruck, l’altro puntava in un’altra direzione. Il colonnello accese una sigaretta. Davanti a me c’è il volto della follia. Tendeva a evitare contatti visivi prolungati: non voleva essere il primo a distogliere lo sguardo. Spinse il pacchetto verso Schneider, poi si ricordò che aveva le mani legate. Ruck scrollò le spalle e rimise le sigarette in tasca. Restò in silenzio per un po’, nella speranza che Schneider parlasse. Ma sapeva che non sarebbe accaduto.
No, non il volto della follia. Il volto del male.
E invece si sbagliava. All’improvviso Schneider si mosse, sollevandosi dalla sedia per poi lasciarsi cadere di schianto. Non era un tentativo di fuga. Frustrazione. Rabbia. Forse un segnale di protesta.
Ruck sollevò un sopracciglio.
«Crede di spaventarmi portandomi in una baita, porco?»
Come Ruck aveva previsto, parlava bene inglese, ma l’accento era inequivocabile. Il timbro roco della razza dominante. La lingua del diavolo. Tacque.
«Dove siamo?»
«In una fattoria. Piuttosto distanti da Londra. Lontanissimi da Berlino.»
«Non ho mai nutrito un grande affetto per nessuna delle due capitali.»
«Ottimo. Entrambe sono state sfigurate, anche se ce n’è una che brucia meglio dell’altra.» Ruck colse un barlume di interesse nello sguardo di Schneider. «Non ha saputo, dottore? La guerra è finita. Hitler è morto. La Russia è ancora un arretrato Paese comunista.»
«Non ha grande importanza. Se lei mente, a meno di rapidi capovolgimenti, morirò. Se dice la verità, morirò comunque.»
Quando aveva annunciato la morte di Hitler, Ruck aveva colto un luccichio impercettibile nella pupilla vagante di Schneider. Chissà se aveva imparato da lui a guardare con un occhio in un’altra direzione... Si era macchiato di perversioni ben più morbose, d’altronde. «Perché non è fuggito da Buchenwald quando ne aveva la possibilità, dottor Schneider? Sapevate che la partita era perduta giorni prima dell’arrivo della divisione di Ainsworth. Perché non ha pensato... a mettersi in salvo?»
«Se l’avessi fatto, non avrei avuto il piacere di conoscerla.» Schneider continuava a fissarlo. Su quel maledetto occhio non sbatteva nemmeno la palpebra.
Ruck aspirò dalla sigaretta. Per due anni aveva lavorato nell’unità di isolamento di Kensington detta «la Gabbia», un carcere segreto dove torturavano prigionieri di guerra nazisti per carpire informazioni. Faceva riferimento direttamente al Reparto interrogatori prigionieri di guerra, una divisione dei servizi segreti che ufficialmente non esisteva. Ruck era uno specialista nell’acquisire confessioni nel più breve tempo possibile. Dopo la fine della guerra, le sue abilità erano migrate all’MI5, per estrarre quante più informazioni possibili dalle rovine fumanti dell’Europa. Sepolte sotto le ceneri del conflitto potevano esserci gemme preziose. «Mi chiamo Ruck. Lavoro per il governo britannico, servizi segreti, quinta divisione. Anche se me ne servo di rado, ho il rango di colonnello. Sono esperto di interrogatori, raccolta segreta delle informazioni e spionaggio. L’unica traccia del nostro colloquio, un rapporto a uso e consumo di un piccolissimo gruppo di persone, verrà distrutto appena dopo essere stato letto. Se al processo, o in qualunque altra occasione, lei provasse a fare cenno a questi nostri incontri, le garantisco che da parte nostra negheremo tutto. Sono stato chiaro?»
Per qualche istante Schneider fu pensieroso. «Ha tutta la mia attenzione, Herr Ruck. Per ora, almeno.»
Alle spalle di Schneider la porta della stalla si aprì. La luce allagò il pavimento. Due soldati scortarono dentro una donna. Altri due portarono una piccola scrivania e una sedia, e le sistemarono vicino all’ingresso, a una decina di metri dal colonnello. La donna si sedette.
Nel frattempo Schneider non aveva mosso un muscolo. «Profumo» disse a occhi chiusi, inspirando. «Dev’essere francese.» Aprì gli occhi e guardò estasiato il colonnello. «La nostra dattilografa. Sarà lei a stendere il rapporto! Ho indovinato, vero?»
Ruck non disse nulla. La donna alzò lo sguardo. Era molto più giovane di quanto si aspettasse: non doveva avere più di vent’anni. Per l’operazione aveva richiesto una ragazza poco appariscente, eppure non riuscì a impedirsi di darle una seconda occhiata. Gli bastarono pochi secondi. Capelli castani lucidi, occhiali spessi con la montatura nera. Un visino a forma di cuore. Un bel visino. Al collo un filo di perle. Gonna a tubino. Sembrava del tutto inadeguata, come peraltro il resto dell’organico. Aveva l’aria di una ragazza in procinto di attraversare Oxford Street diretta in banca, non di trascrivere un interrogatorio in una stalla.
Ruck annuì e lei cominciò a battere a macchina. «Qual era il suo incarico a Buchenwald, dottor Schneider?»
«Lavoravo come medico nell’ospedale del campo.»
«Ospedale? È così che lo chiamavate?»
Schneider tacque.
«Hanno convocato una giuria. A Norimberga. Lo considerano il primo tribunale militare internazionale. A ottobre ufficializzeranno le imputazioni. Ci sarà anche il suo nome. Come si sente, al pensiero?»
«A Norimberga? Ha visto in che stato versa la città, Herr Ruck? Una discarica. Gli aerei di Churchill l’hanno rasa al suolo.»
«Gli americani l’hanno ricostruita. Vedesse com’è bello il tribunale.»
Schneider si schermì. «Non ho commesso alcun crimine. Non ho nulla da temere.»
«In quanto membro delle SS, la condanneranno a morte.»
«Non ho mai fatto parte delle SS.»
«Come vuole. E comunque la sua fede politica non ha alcuna importanza, per me. Peraltro hanno dichiarato le SS un’organizzazione illegale, dunque forse fa bene a negare la sua affiliazione, anche se immagino che gli americani non impiegheranno molto a mettere assieme qualche pezzo di carta e costruirci un’accusa.»
Per qualche secondo Schneider sembrò sovrappensiero, o forse voleva dare il tempo alla segretaria di mettersi in pari. In ogni caso, per un po’ l’unico suono fu quello dei tasti della macchina da scrivere. Poi il dottore guardò Ruck con rinnovato interesse.
Il colonnello annuì e lasciò aleggiare un sorriso agli angoli della bocca. Il nazista era a disagio. Per il primo giorno, era già un bel risultato. Ruck prese una pila di fogli da una cartellina e la posò sul tavolo. «Anche se lei sostiene di aver lavorato come medico all’ospedale, sappiamo entrambi che ha preso parte a vari esperimenti su esseri umani. Mi sbaglio?»
«Assolutamente no.»
«Bene.»
Ruck mise di fronte a Schneider varie fotografie in bianco e nero che mostravano una stanza da diverse angolazioni. Al centro c’era un tavolo operatorio in metallo. Lacci di cuoio pendevano ai lati. C’erano strumenti sparsi dappertutto. Sembrava un macello. Il pavimento era costellato di macchie scure. «Era la sua sala operatoria, vero?»
«No.»
«Queste sono le Stanze Infernali. Così le chiamano gli americani. Un nome adatto, secondo me. Nessuna delle vittime si è sottoposta volontariamente alle torture che lei infliggeva. Giusto per sapere, come avrà intenzione di spiegarlo alla corte di Norimberga? Sosterrà di aver agito per il bene dell’umanità?»
«Crede che mi consentiranno di avere un avvocato? E su quali prove si baseranno, per questo processo di cui parla?»
«Prima dell’esodo da Buchenwald, lei ha distrutto la documentazione relativa ai vostri esperimenti. È rimasto apposta, su ordine di Himmler, per eliminare ogni traccia. Penso che sia questo il motivo per cui, quando hanno liberato il campo, lei era ancora lì. Ho indovinato?»
Una folata di vento fece vibrare la porta della stalla. Ruck vide la dattilografa sistemarsi la giacca sulle spalle. C’era qualcosa in lei che non lo convinceva fino in fondo. Forse era la posizione in cui sedeva, o l’espressione concentrata. In ogni caso, lo metteva a disagio.
Schneider rimase impassibile.
«Le Stanze Infernali erano tre. Nelle prime due abbiamo rinvenuto prove di operazioni compiute sui prigionieri, soprattutto da lei ma anche dai suoi sottoposti. Asportavate loro degli arti, ma non ho compreso a che scopo. Un secondo tipo di esperimenti comportava l’uso di gas mostarda e altri agenti tossici. In un caso, sappiamo per certo che avete sparato a bruciapelo nella coscia di una donna per poi studiare l’efficacia di vari trattamenti per curare le ferite da proiettile. Chi entrava in quelle stanze non ne usciva quasi mai vivo.»
«Comincio ad annoiarmi, Herr Ruck.»
«Per caso la imbarazza parlare del suo lavoro, dottore? Strano, per un pioniere del suo calibro.»
Schneider liquidò il commento come se scacciasse una mosca. «Mi ha chiesto di ascoltarla. E a che pro? Gli americani vogliono condannarmi a morte. Ma le mie scoperte vivranno per secoli. Non so quale titolo mi affibbierà la Storia. Assassino? Scienziato? Rivoluzionario? Immagino che dipenda da chi scriverà i libri di scuola. Ma la Storia si ricorderà di me. E del mio lavoro. Che cosa c’è di più importante? Chissà in che modo invece la Storia si ricorderà di lei . Un nome? Un grado? O forse niente. Un misero granello di polvere a margine del capitolo dedicato al sottoscritto. Niente di più. Perciò faccia pure i suoi comodi finché può. Se la goda. Cerchi di farla durare il più possibile. Mi interroghi su qualunque mio esperimento. Anche tutti, se crede. A me non importa. Nel giro di qualche anno, le assicuro che non importerà più a nessuno.»
Per un momento tutto tacque, tranne la macchina da scrivere.
Ruck si accarezzava il mento con aria meditabonda. «Come dicevo, c’erano tre Stanze Infernali.»
Schneider aprì la bocca, poi la richiuse e si piegò in avanti fino a tendere la corda che gli legava i polsi. «Sa una cosa? Mi ricordo che una volta stavo esaminando i nuovi arrivati. Non pensavano che facessi caso a loro. Che li considerassi esseri umani. Ma non è vero, anzi, non è nemmeno giusto. Li studiavo tutti con attenzione. Controllavo ogni cicatrice, ogni voglia, ogni rigonfiamento. Ero molto meticoloso nella scelta dei pazienti. A modo mio, li amavo . Naturalmente loro sapevano chi ero. Come un sassolino lanciato in uno stagno, lanciavo qualche pettegolezzo sul mio lavoro. Soltanto a vedermi passare, alla ricerca di un prescelto, si facevano piccoli piccoli.»
Ruck scrollò la cenere della sigaretta e aspirò a lungo. La dattilografa aveva rallentato e premeva i tasti con precisione assoluta. Ruck si chiese a cosa stesse pensando. Ma che cosa c’era in lei che lo metteva tanto in imbarazzo? Poi finalmente mise a fuoco la risposta. Ecco cosa non quadrava. Non ha paura. Non ha nemmeno un briciolo della paura che dovrebbe avere. Staccò a fatica gli occhi da lei. «Mi racconti dei suoi esperimenti con i veleni. Erano la sua specialità, vero?»
«Ah, dunque lei è anche chimico?»
«Abbiamo sentito strane voci. Pare che stesse sperimentando un veleno così potente che le vittime si strappavano gli arti da sole nel tentativo di arginare la diffusione del dolore.»
Schneider non rispose e fissò Ruck con un’espressione di quieta indifferenza.
«Da altre fonti, sappiamo che gli ufficiali delle SS e le guardie del campo si riunivano per assistere alla somministrazione del veleno. Come mai lo facevano?»
«Non capirebbe.»
«Mi metta alla prova.»
Schneider rise. «Si sopravvaluta. Come potrebbe comprendere qualcosa di cui non è mai stato testimone?»
«Che cosa c’era in ballo? Che cosa provava il pubblico degli esperimenti? Piacere? Divertimento? Conoscenza?»
«Vuole sapere come produrre il veleno? Va bene, le mostrerò i passaggi. Mi dia la penna. Per favore, scrivana, un foglio di carta.» Schneider fece un cenno alla donna.
Ruck attese qualche secondo, mordicchiando la sigaretta. Non aveva intenzione di liberargli le mani e armarlo di penna senza prima ponderare la decisione. Si voltò verso le due guardie e annuì. Mentre la prima teneva il fucile Lewis puntato su Schneider, l’altra gli slegò i polsi e mise un foglio sul tavolo. Il dottore lanciò uno sguardo al colonnello, che esitò, prima di spingerlo verso di lui. Schneider lo prese, scribacchiò qualcosa e restituì la penna.
Ruck lesse con attenzione. «Una variante della stricnina. Come mai? Non si tratta di un veleno già letale?»
«Troppo letale.»
Ruck fece una smorfia. Aveva avuto la sfortuna di assistere a un avvelenamento prodotto da un alcaloide naturale estraibile dai semi della pianta della stricnina, di origine indiana. Pur agendo in fretta, la sostanza causava una morte atroce: le vittime si contorcevano in convulsioni orrende, come possedute.
«E qual era lo scopo delle modifiche?»
«Il prolungamento massimo dell’agonia.»
«Una tecnica fallimentare per condurre degli interrogatori. Se era questo l’obiettivo.»
«Niente affatto.»
«E allora qual era?»
Schneider sembrava vagamente divertito. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. »
«Giovanni 3:16.»
«Dunque conosce la Bibbia. Curioso.»
«Mio padre era un pastore. Era un uomo buono e onesto. Almeno finché una delle vostre bombe non gli è esplosa davanti, facendolo a pezzi.»
Schneider scrollò le spalle. Il suo volto era una maschera. La pelle attorno a occhi e bocca era tesa al punto da cancellare qualsiasi espressione. Si chinò in avanti e indicò il soffitto, sussurrando: «Che rapporto ha con Lui?»
«Con Dio?»
«Certo. Con Dio.»
«Be’, diciamo che mi sento abbastanza in confidenza con l’Altissimo da sapere che a Buchenwald era di sicuro assente.»
Schneider scosse solennemente la testa. «No. È molto ingenuo da parte sua. Le mie scoperte hanno permesso a chi credeva nella Sua esistenza di lasciare temporaneamente questo mondo per guardare in faccia la Santa Trinità.»
«Ha visto Dio? Nell’agonia di un essere umano?»
«Un mangiatore a ufo, non un essere umano.»
Ruck si appoggiò contro lo schienale, rimuginando. Diede un’occhiata alla dattilografa. Per la prima volta, le dita le scivolarono sui tasti. Le guardie si mossero a disagio. Fuori, una raffica di vento scosse l’intelaiatura della stalla: stava arrivando una tempesta.