20

Anche se era il compleanno della sua coinquilina, Georgie Someday non aveva voglia di uscire. A essere sinceri, non aveva quasi mai voglia di uscire, soprattutto non con i suoi coinquilini, Li, Fergus, Martin e Mira, la festeggiata. Ciononostante, in un attimo di debolezza aveva acconsentito, sperando che l’invito «al Theatre» comportasse una serata culturale, quando in realtà Mira si riferiva a uno squallido locale del centro.

Georgie si guardò attorno. Fuori faceva freddissimo e, ogni volta che la porta si apriva di fronte all’ennesimo cliente barcollante, la investiva una raffica gelida che avrebbe fatto rabbrividire perfino un esploratore artico. E allora perché era l’unica a indossare cappello, sciarpa e guanti? Erano tutti pazzi?

Qualche ora prima, nel vedere Mira ingollare l’ennesimo shot di quello che sembrava detersivo, avrebbe forse dovuto capire che non sarebbero andati a vedere il Don Chisciotte recitato dalla Royal Shakespeare Company. D’altro canto Mira avrebbe dovuto immaginare che, data la passione di Georgie per Wagner, una serata con i Pearl Jam in sottofondo non sarebbe stata di suo gradimento. Alla fin fine, anche se avevano studiato tutti assieme a Oxford, Georgie non poteva dire di conoscere davvero i propri coinquilini... con l’eccezione di Li, che lei trovava sopportabile.

Martin continuava ad avvicinarsi a Mira. Quando le accostava la bocca all’orecchio, lei scoppiava a ridere. Georgie si era accorta di come la guardava e le sorrideva. Gli piaceva essere osservato, si rese conto Georgie. Si crogiolava nelle sue attenzioni, nel suo disagio silenzioso. Il suo imbarazzo per quello che era successo l’avvolgeva come un mantello visibile soltanto da lui.

Georgie si strinse il cappotto addosso e distolse lo sguardo. Aveva un nodo allo stomaco.

Erano al bancone e Fergus contrattava con il barista. Un altro giro – aveva detto – e poi dritti al Dojos, uno squallido buco di discoteca. Georgie aveva deciso di andarsene senza salutare prima che accadesse. Per quella sera aveva già dato.

Fergus tornò con un vassoio di shot, lo posò sul tavolo, si sedette accanto a Georgie e le passò un bicchierino di liquido blu. «Come va al lavoro?» le chiese, con il suo marcato accento irlandese.

«Bene.» Georgie mise fine alla conversazione sul nascere e studiò il drink dall’aria malsana.

In realtà, i primi sei mesi alla Priest & Co. erano stati i migliori della sua vita. Aveva finalmente trovato un lavoro che la faceva sentire utile e la metteva al di sopra dei suoi ex compagni di Giurisprudenza. Mira faceva il praticantato in un importante studio di Sutton. Sosteneva di occuparsi di questioni fiscali, ma di fatto preparava il tè e stendeva verbali. Fergus era disoccupato. Li aveva trovato un lavoro a tempo determinato tramite un’agenzia. Martin continuava a non combinare nulla.

A Oxford Georgie era stata una delle migliori del suo anno, e a differenza dei suoi coinquilini non aveva sprecato nessuna occasione. Ce l’aveva fatta senza l’aiuto di mamma e papà, al contrario di Mira – figlia di un’amministratrice delegata e di un medico di base –, che li considerava dispensatori di prestiti senza interesse. La famiglia di Georgie invece era molto più modesta. Sua madre l’aveva avuta quando era già in pensione e suo padre era morto quando aveva dodici anni. Avevano passato momenti molto difficili – Georgie aveva discusso più volte sulla porta di casa con gli ufficiali giudiziari –, ma l’anno prima avevano avuto un colpo di fortuna: sua madre aveva vinto alla lotteria e riceveva millecinquecento sterline al mese, più l’adeguamento all’inflazione, per il resto della vita. Non era molto, ma sommato alle due modeste pensioni sarebbe bastato a mantenerla.

La madre di Georgie non aveva mai partecipato prima a una lotteria, e si era dimenticata di aver vinto. Era dai tempi della laurea che Georgie non vedeva la madre entusiasta come quando le arrivavano i bonifici. Per impedirle di rintracciare l’origine del denaro, Georgie aveva aperto un conto bancario in cui ogni mese trasferiva parte del proprio stipendio.

«È un Puffo Sporco» spiegò Fergus.

«Scusa?»

«Il drink. Si chiama Puffo Sporco.»

«Per il colore o perché sa di furetto mutilato?»

Fergus rise e prosciugò il bicchierino.

Georgie fissava il bancone, dove delle ragazze dagli abiti succinti ridacchiavano attorno a un cellulare, il bagliore artificiale dello schermo che sbiancava i loro sorrisi falsi. Fergus le stava raccontando una barzelletta – c’entravano un vescovo e un dildo –, ma non riusciva ad ascoltarlo. Vicino all’ingresso c’era un uomo dalle spalle larghe, in jeans firmati e giacca elegante, che sembrava un pesce fuor d’acqua quasi quanto lei. Aveva appena salutato una bella donna bionda che poi aveva imboccato l’uscita.

Georgie non aveva mai visto Charlie Priest sorridere in quel modo. Gli era cambiato completamente il volto: il suo corpo irradiava affetto. Ma lei chi sarà mai? Era snella e ben vestita; l’aveva baciato con sicurezza e familiarità. Okoro le aveva fatto capire che Priest era single, ma forse era una bugia.

Lei guardò Martin. Aveva messo un braccio sulle spalle di Mira. Le parve così insignificante. Così patetico. Strano che sembrasse tanto innocuo. Mira aveva un’aria perfettamente rilassata. Non si era ancora resa conto di chi aveva a fianco?

Martin era un poveretto. Non valeva nemmeno metà dell’uomo per cui Georgie aveva la fortuna di lavorare.

Priest si voltò verso di lei e i loro sguardi si incrociarono. Con gran gioia di Georgie, lui le sorrise. Non era certo il sorriso con cui aveva salutato la bionda misteriosa, ma era comunque magnifico.

«Ciao» le disse all’orecchio, dopo essersi fatto largo tra la folla.

Martin sembrava aver deciso che fosse il momento migliore per mostrare interesse nei suoi confronti e si chinò in avanti sul tavolo. Fergus sembrava deluso, ma colse la palla al balzo e si spostò verso Li.

«Non sembra il posto giusto per te» disse Georgie al suo capo.

«Perché, quale sarebbe invece il posto giusto per me?»

Lei arrossì. Priest aveva l’infallibile capacità di costringerla a dire sciocchezze. E sembrava trovare la cosa divertente. «Be’, sai com’è... magari un posto meno...»

«Rumoroso?»

Nel tentativo di trovare la parola adatta Georgie fece una smorfia. «Meno adolescenziale

Lui fece un sorriso malizioso. «Ah. Capisco. Hai ragione. Non è il posto giusto per un vecchio come me.»

Per la seconda volta, si sentì avvampare. «No! Non intendevo in quel senso!»

«Georgie, tranquilla. Comunque hai ragione: non è il posto adatto a me. Le canzoni che conosco sono tutte rifatte con il sintetizzatore, quelle che non conosco sembrano bassi privi di melodia.»

«Sono perfettamente d’accordo» si intromise Martin.

«Come è andata con il procuratore generale?»

«Male. È morto.»

Georgie si mise una mano davanti alla bocca. «Il procuratore generale è morto?»

«Esatto.»

Georgie si chinò verso di lui. Forse era per via dei bassi, ma a un tratto sentì il cuore galopparle nel petto. «Che cos’è successo? È un grosso problema, vero?»

«Mah, non direi. Morto un papa se ne fa un altro.»

«No, intendevo per te. Mio Dio! Hai trovato la chiavetta che ti ha spedito? Nella lettera diceva di averla mandata a casa tua. Quanto ci metterà la posta? Non posso credere che con tutto quello che sta succedendo noi ce ne stiamo in questo posto orrendo. Lo sapevi che questo drink si chiama Puffo Sporco?»

Priest alzò le mani per arginare il flusso verbale. «Georgie, devi imparare a respirare mentre parli.»

«Scusami. È che penso troppo in fretta... sai... soprattutto quando sono nervosa.» Fece una pausa. «L’hanno impalato come Miles Ellinder?»

«Si è impiccato.»

«Ah... davvero? Perché? Scommetto che c’è qualcosa sotto. Tutta questa storia è così assurda!» Poi si fermò, comprendendo che il proprio entusiasmo avrebbe potuto farla sembrare poco sensibile. «Cioè... nel senso...»

«Tranquilla.» Priest le lanciò uno sguardo obliquo, come un genitore che tenga d’occhio un bambino iperattivo. Georgie non avrebbe saputo dire se la cosa le piacesse. «Senti, io domani devo alzarmi presto.»

«Ma certo! In realtà noi stiamo per andare da Dojos.» Quando vide l’espressione vuota di Priest, aggiunse: «È una discoteca qui in zona. Il posto è orribile, ma naturalmente sei il benvenuto.»

«Mi stai invitando in un posto orribile?»

«Sì. No. Cioè, sì.»

Il gruppetto era pronto a uscire. Fergus giocherellava con la cerniera della giacca e gli altri, ormai in piedi, raccoglievano borse e telefoni.

«Noi andiamo, Georgie» le gridò Li dal lato opposto del tavolo. «Chiedi al tuo amico se vuole venire con noi!» Ridendo le fece l’occhiolino.

Accanto a lei, immobile, il volto simile a una maschera, Martin guardava Georgie. Andarsene alla chetichella non sembrava più fattibile.

Priest le sfiorò la spalla. «Grazie mille dell’invito, ma domattina devo alzarmi prestissimo. Mi sa che me ne torno a casa.»

Pur sapendo fin dall’inizio che non sarebbe mai andato con loro, Georgie provò comunque una certa delusione.

Si mossero tutti assieme come marionette. Gli altri erano quasi alla porta, Mira già barcollava nel caleidoscopio notturno di Londra. Georgie guardò Priest. Aveva gli occhi azzurri più belli che lei avesse mai visto, due cristalli. Lo baciò sulla guancia e rimase stupita dall’espressione sul suo volto. Forse perché era stato un impulso spontaneo, o forse perché non era riuscita a centrare la guancia e gli aveva sfiorato le labbra, fu un momento molto imbarazzante. Mentre i coinquilini brilli la portavano fino al Dojos, Georgie aveva ancora sulle labbra il suo sapore.

Priest guardò Georgie sparire nella fiumana di gente che passava davanti al bar. Quando si voltò di nuovo per controllare che stesse bene, la strada l’aveva già inghiottita. Georgie gli piaceva: ammirava il suo sarcasmo, la sua mancanza di tatto, la sua innocenza. Gli ricordava com’era lui anni prima.

Il frastuono nel bar aumentava. I gruppetti di studenti fuori sede cedevano il passo ai londinesi. Priest stava per lasciare il bicchiere vuoto sul tavolo appena disertato dagli amici di Georgie, ma c’erano buone probabilità che qualcuno ballando lo facesse finire a terra o che lo usasse come arma in una rissa. Perciò si fece largo tra la folla e lo appoggiò sul bancone. Poi sentì una voce familiare e il suo cuore sprofondò. Insomma, non è proprio la mia serata.

«Non sapevo che venissi a bere in questi posti. Non pensavo nemmeno che bevessi!» Con un bicchierino vuoto e un sogghigno, suo cognato Ryan fissava dritto davanti a sé.

Il suo problema era il mento, aveva stabilito Priest anni prima. Era così sporgente da poterci prendere il sole. «Ciao, Ryan.»

Era con i suoi amici, tra cui un tizio pelato con gli orecchini più alto di Ryan di due teste. Aveva le labbra carnose strette in una smorfia malevola e, a differenza del cognato, ricambiò lo sguardo di Priest. Sembrava voler litigare. Un altro continuava a ridere e lanciare occhiatine. Avevano tutti meno di quarant’anni, e anche il loro quoziente intellettivo doveva aggirarsi su quella cifra.

«Bella giacca, Charlie.»

La battuta di Ryan suscitò l’ilarità di un terzo uomo.

«Sarah ha detto che doveva tornare a casa presto. Sei venuto a spiarla?»

«No. Non sapevo fosse qui anche lei. È stata una pura coincidenza.»

«Quindi non sei a casa con Tilly?»

«No, la guarda qualcun altro.»

Il punto era che la guardava sempre qualcun altro. Priest odiava gli uomini che, invece di essere grati di avere dei figli, eludevano le proprie responsabilità. Che si trattasse di suo cognato non faceva che peggiorare la situazione. Ryan era un buffone, un buono a nulla, non meritava la sua famiglia. Priest strinse i denti. La birra gli pulsava nelle vene. Non aveva bevuto troppo, ma la combinazione di alcol e disturbo dissociativo era sufficiente a sfumare i confini della realtà. «Dovresti esserci tu a casa con lei.»

«Perché? Hanno inventato le mamme apposta, no? Rilassati, Charlie. Beviti qualcosa con noi.»

«No. Me ne stavo giusto andando.»

Ryan non l’aveva ancora guardato negli occhi e non aveva smesso per un attimo di sogghignare. Nell’alzarsi gli diede una pacca sulla spalla troppo forte per essere considerata amichevole. «Attento a come parli, fratello. Prima di sbattermi tua sorella devo ubriacarmi un po’ di più.»

Il terzo uomo scoppiò in una risata etilica.

Priest guardava il tizio pelato. Era il problema, ma al contempo la soluzione. Tolto di mezzo lui, gli altri non sarebbero più stati un problema.

Immaginò la scena. Si vide prendere Ryan per il colletto e scagliarlo oltre il bancone, per poi affondare il gomito nell’addome del pelato, sul plesso solare. Un colpo ben assestato al diaframma avrebbe causato convulsioni e lo avrebbe messo fuori gioco. Poi avrebbe afferrato Ryan per la nuca e avrebbe cominciato a sbattergli la testa sul bancone, dislocandogli la mandibola e spaccandogli i denti. Sangue, sangue ovunque. Gente che correva verso la porta. Il terzo uomo, il simpaticone, indietreggiava con lo sguardo fisso sul pugno di Priest sollevato per caricare... Le luci...

«Ehi!» Ryan gli schioccò le dita davanti al volto.

Priest sbatté le palpebre. Il cognato sembrava perplesso e un po’ divertito, ma era incolume. Avvertì un’ondata di sollievo.

«Si può sapere che cazzo di problema hai? Eri svenuto o cosa?»

Priest si passò una mano sul viso. Si voltò e uscì dal bar, frastornato dall’aria gelida.