23

Tovagliette di plastica con disegni scoloriti di fragole e lamponi ricoprivano i tavolini di legno. Le posate erano spesse e pesanti, le tazze spaiate e ingiallite.

Jessica era seduta con le mani in grembo. Sembrava intenzionata a non toccare nulla.

Priest studiava il menu e ogni tanto guardava verso di lei. Il suo imbarazzo lo divertiva.

«Non ho fame.»

Lui le lanciò un’occhiata sorpresa. «Ne è proprio sicura? Qui fanno una colazione eccezionale.»

«Non faccio mai colazione all’una e non mi piace il fritto.»

Priest era deluso. «Fanno anche altri piatti. Vuole un panino con il bacon? O magari un tortino di sanguinaccio?»

«Non hanno un menu vegetariano?»

«Forse al posto del bacon possono metterci i funghi, sostituire del pomodoro al sanguinaccio e invece della salsiccia... be’, quella magari è meglio toglierla e basta.»

Jessica fece una smorfia.

Una donna anziana in grembiule si avvicinò sfoderando penna e blocchetto. Dalle gengive le pendevano due incisivi grandi più o meno come carte da gioco. «Cosa vi porto, cari?»

Priest fece un sorrisetto a Jessica, che scosse la testa. «Due menu completi, per favore.»

La cameriera se ne andò e infilò il biglietto in un passavivande dall’altra parte della stanza, da cui spuntò una mano irsuta. Priest non aveva mai conosciuto il suo possessore. Non che ci tenesse molto. Gli bastava sapere che, per qualche strana ragione, quell’individuo preparava delle ottime uova strapazzate.

«È stato gentile a invitarmi» disse Jessica, con un tono che suggeriva il contrario.

Priest annuì e versò il tè. Quel giorno, Jessica portava un anello sul medio. Niente di sfarzoso: la forma era semplice ma, anche all’occhio di un profano come Priest, la pietra emanava ricchezza... proprio come la persona che lo indossava. «Stamattina abbiamo ricevuto visite. Il nostro poliziotto preferito è passato a salutarci.»

«Ah, McEwen. Immagino che per lei sia stato un piacere.»

«Un grande piacere. Sta seguendo la pista di un possibile coinvolgimento suo e di suo padre nella morte di Miles.»

Priest si era atteso una reazione sorpresa, ma Jessica si limitò a scrollare le spalle e ad aggiungere due zollette di zucchero. «Io e mio padre ci eravamo già resi conto dell’incompetenza dell’ispettore McEwen. Perciò ci siamo rivolti a lei.»

«Mi sa che è stata un’idea di suo padre, non sua.»

«Può darsi. Ma mi fido del suo giudizio.» Jessica mescolò il tè con un po’ troppa decisione.

«Gli avete fatto capire che lei e Miles non andavate d’accordo?»

«Sì. In realtà Miles non andava d’accordo con nessuno. Mio padre ha speso una marea di soldi per impedirgli di mandare in rovina le nostre aziende.»

«Quindi era una pecora nera?»

Jessica sorrise. «La mia famiglia è un gregge di sole pecore nere.»

«Suo padre è convinto che Miles si sia fatto coinvolgere in qualche affare pericoloso.»

Lei gli lanciò uno sguardo penetrante. «Questo mi pare ovvio. L’hanno impalato.»

Priest versò una goccia di latte nella propria tazza e mescolò. «Ha mai sentito parlare di Vlad l’Impalatore?»

«Sì. Credo sia il personaggio storico che ha dato a Stoker l’ispirazione per Dracula.»

«Crede che uccidendo Miles in un modo tanto crudele l’assassino abbia voluto lanciare un messaggio a qualcuno?»

«Anche questo mi pare ovvio, ma non sono in grado di decodificare il messaggio.»

«Quindi non avete neanche un vampiro in famiglia?»

Lei bevve un sorso di tè e lo guardò.

Priest non riusciva a fare a meno di pensare che in fondo Jessica avesse un certo senso dell’umorismo. Forse era soltanto una speranza. Se invece ne era sprovvista, allora l’aveva già punta sul vivo un bel po’ di volte, e non avevano ancora cominciato a mangiare.

«So che è un appassionato di film dell’orrore.»

«Non immaginavo che le vostre ricerche su di me fossero così approfondite.»

«Prima di affidare a un estraneo una vicenda che minaccia la sopravvivenza della famiglia, ci siamo documentati a fondo sul possibile candidato.»

Priest sorrise. Eccolo, il senso dell’umorismo.

Quando capì che lui non avrebbe ribattuto, Jessica proseguì: «Perché non mi dice allora chi è l’inventore del mito moderno del vampiro?»

«Questa è facile. Molti risponderebbero Lord Byron, ma in realtà la paternità andrebbe attribuita a John Polidori, il suo medico personale. Non è escluso che Byron fosse la fonte di Polidori, ma non è lui l’inventore della creatura infernale poi resa celebre da Stoker.»

«Bravo. Ho sempre trovato affascinante che i due grandi mostri della letteratura moderna, il vampiro e la creatura di Mary Shelley, abbiano avuto origine nella stessa casa.»

«C’è comunque chi continua a sostenere che fosse Byron» disse Priest.

«Cosa le piace, dei film dell’orrore?»

Priest non rispose subito. Era più abituato a interrogare che a essere interrogato. «Il coinvolgimento, direi. In altri generi cinematografici, si ride quando ci sono scene allegre e si piange per le scene tristi, ma lo spettatore rimane distaccato. Negli horror invece si ha paura come i personaggi stessi. Il coinvolgimento è molto più intenso. Si diventa parte dello spettacolo.» Avrebbe potuto aggiungere che provare un coinvolgimento anche minimo con qualsiasi cosa, per chi soffre di disturbo dissociativo, è un balsamo per la mente.

La cameriera tornò con due splendide colazioni all’inglese – colesterolo puro – e le posò sul tavolo.

Priest si schiarì la gola. «Bisogna trovare Hayley.»

Jessica smise d’ispezionare il proprio piatto. «Come mai?»

«Perché non si hanno sue notizie da una settimana e nessuno la sta cercando.»

«No, questo è il motivo per cui lei la deve trovare. Io le ho chiesto perché noi dobbiamo trovarla.»

Priest cominciò a tagliare una salsiccia spessa quanto il manganello con cui lo aveva colpito Miles Ellinder. «Non credo che Wren si sia suicidato e lei è sparita. Può darsi che sia una coincidenza, ma mi sembra improbabile.»

«È il suo modo di comunicarmi che prenderà in considerazione l’offerta di mio padre?»

Priest studiò la salsiccia. Forse il manganello era un pochino più grosso. «Abbiamo un obiettivo comune. Tanto vale che lavoriamo assieme.»

«Un obiettivo comune? Non lo vedo. Io voglio scoprire chi è l’assassino di mio fratello e mettere a tacere il prima possibile questa vicenda. Lei invece mi pare che stia cercando la figlia del procuratore generale, e nel frattempo abbia bisogno di qualcuno che gli copra le spalle dalla polizia.»

«Le due cose sono collegate. Wren mi ha scritto per farmi sapere che mi avrebbe spedito una chiavetta. Suo fratello si presenta a casa mia e vuole – indovini un po’? – una chiavetta. È quasi certo che fosse la stessa, che peraltro io non ho mai ricevuto.»

«Davvero? Che peccato.»

Non gli credeva. Non poteva fargliene una colpa: già una volta non le aveva detto tutta la verità. «È chiaro che non abbiamo tutte le informazioni che ci servono.»

«E lei crede che trovare Hayley ci sarebbe di aiuto?»

«Finché non ce l’avrò di fronte, non posso rispondere.»

Jessica continuò lo studio della colazione e sfiorò i fagioli con la forchetta. Forse prima di mangiarli voleva accertarsi che non fossero ancora vivi.

«Il sanguinaccio ha intenzione di mangiarlo?»

Sforzandosi di tenere le mani più possibile lontane dal cibo, lei glielo rovesciò nel piatto senza dire nulla.

Priest lo tagliò e lo mischiò al resto delle prelibatezze. Si rese conto che era il suo primo pasto degno di quel nome dalla serata in cui aveva conosciuto Miles. «Dica pure a suo padre che accetto la proposta.»

Jessica si alzò. Prese la borsa di Radley e vi sfilò un paio di occhiali da sole. Fuori faceva ancora freddo, ma aveva quasi smesso di piovere e cominciava a spuntare il sole. «Gli chiederò se l’offerta è ancora valida» gli disse, andando via.

Priest stava tornando a casa. Dopo la colazione con Jessica sarebbe dovuto andare in ufficio ma capì che non sarebbe stata una buona idea. Si guardò la mano. Sembrava una protesi di gomma montata su un braccio artificiale preso da uno spettacolo di marionette. Merda. Anche questo, adesso. Con la coda dell’occhio vedeva il mondo scorrere nel finestrino del taxi in preda a un orrore crescente, consapevole dell’imminente distorsione percettiva. Sono uno spettro. Un maledetto fantasma.

Gli rimaneva un po’ di tempo in cui sarebbe ancora stato in grado di agire razionalmente, anche se i contorni degli oggetti iniziavano a confondersi molto più in fretta del solito. Aveva preso un taxi, cosa per lui inusuale, ma era la maniera più sicura di arrivare a casa. A Oxford Circus però si erano imbattuti in una manifestazione di hippie con tanto di striscioni ed erano stati costretti a fare una deviazione.

«Maledetti anticapitalisti! Intasano le strade con le loro marce contro la gente che guadagna e poi passano la serata a parlarne su Twitter con i loro iPhone di merda. Ipocriti schifosi.»

Priest sentì a malapena il tassista. Gli squillò il telefono. Prima aveva chiamato qualcuno?

«Stai bene?» gli chiese Okoro.

«Benissimo» rispose lui, incerto.

«Ottimo. Dimmi tutto, allora.»

«Eh? Tutto cosa?»

«Priest?»

«Alla fine ho deciso di fermarmi un’oretta a casa. Ma non ti preoccupare.»

«Capisco. Comunque è stata una mattinata proficua.»

«Come mai?»

«Stamattina avevo l’udienza con il giudice distrettuale Burrows, ti ricordi? Ha fatto alcune osservazioni interessanti sul mandato di perquisizione. Dice che non avrebbero mai dovuto concederlo.»

«Già.»

«Immagino la faccia del giudice per le indagini preliminari quando Burrows l’ha chiamato.»

«Eh, sì.»

Okoro fece una pausa. «Mi stai ascoltando?»

«Così così.»

«Mmm. Buonanotte, caro mio. Se entro stasera non ti fai vedere né sentire, mando qualcuno a controllare che tu stia bene.»

Non ricordava nulla del tragitto in taxi, né del momento in cui aveva pagato la corsa. Incespicò verso la porta di casa e si frugò nelle tasche in cerca delle chiavi. Era vagamente consapevole delle persone che gli passavano accanto, ridendo e scostandosi per superarlo sul marciapiede. Distolse lo sguardo. Uno dei passanti aveva la testa di un cane, con la lingua che pendeva da un angolo della bocca.

No, basta...

Oscillante e sfocata, la porta si aprì. Arrivare fin lì era stato come attraversare la cambusa di una nave durante un tifone, e infilare la chiave nella serratura era una lotta impari. Una breve scalinata portava nel seminterrato. Ci sono dei cassonetti, lì. Il posto gli sembrava in qualche modo familiare, ma aveva la sensazione di non essere a casa sua.

Dovette aggrapparsi per non incespicare sugli scalini.

Come previsto, ecco un bidone. Era vecchio, cilindrico, d’acciaio. Non uno di quelli nuovi, colorati e con le ruote. I colori significavano qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa. Da dentro il cassonetto proveniva un orribile rumore. Dopo qualche secondo riconobbe la propria risata.

Pensò a Jessica Ellinder e ai suoi occhi che lo fissavano dietro ciocche di capelli ramati.

«Charlie?»

Conosceva quella voce. Oppure aveva riconosciuto il proprio nome? Seguirono altri suoni, dei passi rapidi si avvicinavano lungo le scale e svoltavano l’angolo.

Un pensiero improvviso gli attraversò la mente: era in trappola.

«Charlie?» La voce dolce e morbida come seta. «Cosa cazzo ci fai nel mio cassonetto?»

Priest guardava da una finestra ricoperta di brina. Una donna china sul ripiano spalmava burro su una fetta di pane tostato. Sembrava ansiosa; c’era qualcosa che la logorava. Al tavolo della cucina sedeva un uomo con la testa posata sul braccio disteso. Guardava fuori dalla finestra, non il proprio riflesso ma oltre, all’orizzonte. La cucina era piccola e pulita, il rosso del bollitore si abbinava al tostapane. L’aria sapeva di caffè: un odore che in teoria avrebbe dovuto piacergli, ma in quel momento gli faceva venire la nausea.

Dopo un po’ sentì una mano bruciare a contatto con la tazza. Faceva male. La osservò per valutare eventuali ustioni. Non c’era un’etichetta che spiegasse come ripararla in caso di danneggiamento. Avrebbe dovuto essere preoccupato, ma non ci riusciva. Pareva proprio la sua mano, soltanto un po’ distorta.

Lei gli stava parlando. La donna che prima preparava il toast. Lei sì che sembrava preoccupata, forse anche un tantino infastidita.

Lui provava un vago accenno di disagio. Conosceva l’uomo seduto al tavolo e la donna accanto al bancone, che ora gli stava accarezzando la mano ferita.

Gli faceva davvero male.

«Mio Dio, Charlie!»

Non si aspettava di sentirla così bene attraverso la finestra. Si accorse che il bollitore era nero. Ma prima non era rosso?

«Devi smetterla di fare così. Mi stai ascoltando?»

La sentiva, ma ora la voce era smorzata, come l’annuncio di un treno in arrivo alla stazione.

Con la coda dell’occhio scorse un punto nero, che poi si mosse lentamente per tutto il campo visivo. Calò l’oscurità. Una fitta gli percorse il lato destro del viso, tanto forte che temette di perdere sangue. Sentiva lo stomaco contorcersi, come se una mano gigante lo stesse spremendo.

«Sono preoccupata per te. Stai peggiorando. È solo che, sai com’è... Non voglio che tu... È che mi preoccupo.»

«Cos’è che ti preoccupa?» le chiese.

«Dici che quando riemergi poi non ti ricordi niente. Hai dei vuoti di memoria lunghi ore. Non ti spaventa?»

«Sì.»

«E come ti senti? Come se stessi sognando?»

Ci pensò su. No, non sembrava un sogno. In un sogno, soprattutto se è vivido, si produce una nuova realtà. Non si ha mai la sensazione che qualcosa non vada. Il palcoscenico è pronto, la scenografia completa. Soltanto dopo, quando ci si sveglia, ci si rende conto di qual è davvero la realtà, con delusione o sollievo. Nel mondo dissociato non c’è nessun senso di realtà, ma solo un vuoto caos incolore.

Si rendeva conto che il tempo passava. «No. Non è un sogno.»

«Ma tu lo sai chi sono io, vero? Te lo ricordi?» Era seduta vicinissimo a lui.

«Sì. Sei Sarah. Mia sorella.»

«Bene.»

Buio.

Quando le tenebre sparirono, Priest si ritrovò ancora vestito su un letto sconosciuto, circondato da pareti rosse ricoperte di librerie.

Merda.

Non aveva idea di che ore fossero e la luce gli feriva gli occhi. La voce di William gli riecheggiava nelle orecchie. Per capire come si sta dopo un episodio di disturbo dissociativo, prendi i peggiori postumi da sbronza della tua vita, moltiplicali per dieci e poi immagina di scolarti una bottiglia di vodka. L’ultima cosa che ricordava era la telefonata di Okoro sul taxi. Gli sembrava di aver bevuto un caffè nella cucina di Sarah. Qualcosa gli diceva che era successo davvero, ma la derealizzazione gli ingarbugliava la memoria.

Cristo. Che schifo, il caffè.

Pensare alle ultime ore era come tentare di descrivere un luogo intravisto una sola volta nella foschia.

Sperava di non essere a casa di Sarah, ma i manuali di marketing confermarono i suoi timori. Nel tentativo di concentrarsi, si prese la testa tra le mani. Provò a sedersi, ma una fitta gli paralizzò la nuca e ricadde sul cuscino. Puzzava di sudore, le gambe gli pesavano. Per l’ennesima volta, si vergognò.

Siamo uguali, fratellino , disse William tra le pareti del suo cranio.

«Ciao, zio Charlie.»

Non avrebbe saputo dire da quanto Tilly lo stesse fissando dalla porta. Nonostante il dolore, si costrinse ad alzare la testa e a farle un sorriso, a cui lei non rispose. In una mano aveva un bicchiere di plastica e nell’altra un coniglietto di peluche. «Ciao, piccolina. Non ti ho mica spaventata?»

Lei attraversò la stanza e posò con cura il bicchiere sul comodino.

I contorni del suo corpo tremolavano per poi rimettersi a fuoco. Priest doveva sforzarsi per mantenere un’immagine nitida di lei.

«Ti ho portato del succo. Mamma ha detto di non darti fastidio, ma forse avevi sete.»

«Sei molto gentile, e poi ho davvero una gran sete.» Prosciugò teatralmente il bicchiere per divertirla, e Tilly ridacchiò. Si sentiva un po’ più calmo. Aveva davvero sete: aveva la gola secca, come se avesse mangiato manciate di sale. Probabilmente era stata Tilly a preparare il succo, aggiungendo allo sciroppo due o tre dita d’acqua. Era così dolce da essere nauseante, ma per Priest fu comunque un toccasana.

Quando ebbe finito di bere, Tilly gli saltò accanto sul letto. Chissà se c’era anche Ryan. Poco probabile, visto che la bambina era lì con lui: meglio così. Al piano di sotto sentiva un tintinnio di piatti e stoviglie: Sarah che preparava la cena.

«Mamma ha detto che sei stato male. Ora sei guarito?» C’era un’espressione sinceramente preoccupata sul visetto innocente di Tilly.

«Sto molto meglio adesso, grazie. Mi sa che il tuo succo mi ha salvato la vita.»

«Bene. Vuoi giocare a bowling, più tardi?»

«Sei molto gentile, ma devo tornare a casa.»

«Oh. Tanto non ci andavamo lo stesso.»

«Come mai me l’hai chiesto, allora?»

«Magari, se tu dici che vuoi andare al bowling, mamma decide di portarci.»

Priest rise e le stampò un bacio in fronte. Lei fece una boccaccia e scoppiò a ridere. Per un attimo vide il volto di Sarah, poi quello di William, prima che cominciasse ad ammazzare la gente.

A un tratto, sua sorella comparve sulla soglia. «Bentornato.»

«Scusami, credo di non...»

«Ha telefonato Vincent Okoro. Era preoccupato per te...»

«L’ho sentito prima di...»

«Me l’ha detto. Strano come tutti passino il tempo a preoccuparsi per te, data la tua scarsa propensione alla gratitudine.»

Priest si morse il labbro e tacque. Non riusciva a trovare una risposta decente. Sarah alzò gli occhi al cielo e tese la mano a Tilly. La bambina esitò, poi la raggiunse.

«Ti faccio un panino.»

«Sorellina, non ti merito» riuscì a dire all’ultimo momento Priest.

Lei si girò e sorrise. «Non posso proprio darti torto.»