27
Il cielo sereno che li aveva accolti al loro arrivo a Cambridge si era rannuvolato e una pioggerella leggera cadeva sull’asfalto. Sul fiume, un gruppo di studenti copriva le barche con l’incerata. Non era la stagione giusta per fare un giro sul Cam e bastava una goccia d’acqua per scoraggiare i pochi turisti. Nei mesi invernali era Starbucks a dominare l’economia locale.
Sarah aveva torto. Hayley non si era fatta risucchiare in un buco nero di fanatici. Sembrava che avesse davvero trovato la pace in quel malmesso centro polifunzionale. Priest aveva conosciuto troppi approfittatori, estorsori e delinquenti per non riconoscere l’onestà quando se la trovava davanti.
Invece Jessica – che era impallidita quando l’insetto morto era caduto sul tavolo – non era affatto d’accordo. «Il reverendo non ha fatto nulla. Hayley era palesemente nei guai e lui non ha fatto nulla!»
«Ha avuto paura. Non a tutti piace fare gli eroi, Jessica.»
«Se questa è l’unica comunità con cui lei aveva dei rapporti, allora è scomparsa da almeno una settimana. Il reverendo Matthew e la sua chiesa fai-da-te avrebbero dovuto provare a rintracciarla.»
«E come?»
«Tanto per cominciare avrebbero potuto denunciare la sua scomparsa alla polizia.» Giocherellò a lungo con le chiavi, prima di infilarle nel quadro della Range Rover con espressione sempre più tesa. Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere sul tettuccio. Per sovrastare il frastuono dovevano quasi urlare. «Mi scusi. Questa faccenda mi sta snervando.»
Priest scrollò le spalle. Non gli importava: la sua mente era da tutt’altra parte, intenta a processare le nuove informazioni ricevute e a smaltire i postumi dell’episodio dissociativo del giorno prima. Cercare di vederci chiaro nelle ultime quarantott’ore era come rimettere insieme una lettera stracciata di cui mancasse metà dei frammenti.
«L’efemera...»
«Secondo McEwen, ne hanno trovata una nella gola di Miles.»
«Non capisco.»
«È un simbolo.»
«Un simbolo di cosa?»
«Non lo so.» Quali erano state le parole del reverendo Matthew? Dio giudicherà tutto ciò che facciamo di giusto e sbagliato, anche in segreto. Prese il cellulare dalla tasca, scorse la rubrica e premette l’icona verde.
«Che fa?» La voce di Jessica tremava leggermente.
«Viveva nei dintorni. Dobbiamo scoprire dove.»
«Che cosa orribile...»
Per un attimo, sconcertato, Priest temette che scoppiasse a piangere. Le prese la mano.
Jessica si irrigidì.
Lui tolse la mano. Sentì una voce in sordina: si era dimenticato del telefono. Lo accostò all’orecchio. «Solly?»
«Salve.»
«Dal profilo Facebook di Hayley puoi risalire all’indirizzo IP?»
Nella risata di Solly non c’era ombra di divertimento. Di fatto lui non rideva mai davvero: si limitava a imitare i suoni che sentiva emettere dagli altri esseri umani in situazioni analoghe. Poteva anche essere un genio, ma era incapace di comprendere l’emotività umana. Era un androide in carne e ossa. «Ecco fatto.» Solly dettò un indirizzo. «Ho trovato la strada e poi ho crackato il sito del catasto. C’è una casa intestata a Sir Philip e Lady Wren.»
Jessica inserì l’indirizzo sul navigatore satellitare della Range Rover e si inoltrarono nella periferia est.
Priest sentì l’ennesima fitta allo stomaco. Aveva un brutto presentimento su Hayley.
«La smetta, per favore.» All’inizio lui non capì a cosa si riferisse Jessica, poi lei accennò al suo piede che batteva contro la portiera. «Mi sta facendo innervosire.»
«Mi scusi, a volte non ci faccio caso.»
Un quarto d’ora dopo, in una strada ad alta densità di case per studenti, suonavano il campanello di una villetta tardo vittoriana. Le alte ringhiere e i bovindi la facevano vagamente assomigliare alla casa di Sarah.
Non rispose nessuno. Un’occhiata nella buca delle lettere rivelò una montagna di posta davanti alla porta. Si sentiva odore di candele profumate. Priest provò a spingere la maniglia. Era bloccata.
«Quando faceva il poliziotto non le è mai capitato di sfondare una porta?»
«Qualche volta.» Priest guardò i due lati della strada. In giro non si vedeva nessuno. Ispezionò la porta. Il legno era antico e la serratura non era mai stata cambiata. Con un calcio ben assestato l’avrebbe spalancata. «Stia indietro.» Con un’ultima occhiata alla strada, si aggrappò al muro; stava per sferrare il calcio quando sentirono un grido.
«Non è in casa!»
Priest e Jessica si voltarono di scatto e sollevarono lo sguardo.
Un uomo sulla trentina si sporgeva dalla finestra del secondo piano della casa accanto. Un sorriso ebete gli tagliava la faccia da un orecchio all’altro. Con il resto del corpo nascosto dai mattoni decrepiti che circondavano il vetro, sembrava il gatto del Cheshire. «Non è in casa» ripeté.
Priest non ebbe bisogno di vedergli bene gli occhi per capire che era un tossico.
«Quand’è stata l’ultima volta che l’ha vista?» chiese Jessica.
«Siete della polizia?»
«Siamo dell’Esercito della salvezza» disse Priest.
Il tossico tirò su con il naso. La pioggia gocciolava dai capelli unti nel vaso vuoto sul davanzale. Lui non sembrava preoccuparsene, forse non se ne accorgeva nemmeno. A un tratto scomparve.
Jessica spostò una ciocca bagnata dalla fronte. Aveva l’aria stanca e scettica. «L’Esercito della salvezza?»
Priest alzò le spalle.
Sentirono scricchiolare una porta. Il tossico posò la schiena contro lo stipite, il ghigno ancora stampato sul volto. Indossava un gilet che doveva aver conosciuto tempi migliori e pantaloni larghi di cotone infilati negli stivali marroni.
«Siete quelli della Salvezza, eh?» Fece loro segno di entrare. «Allora devo ringraziarvi per ’sti scarponi che mi avete regalato l’anno scorso.»
Nel salotto del tossico sembrava ci fosse stato un bombardamento. Il pavimento era coperto di palline di stagnola e Priest dubitava che fossero servite per incartare le patate al forno.
Priest si accontentò di uno sgabello. Jessica rifiutò l’invito a sedersi sul pouf e rimase in piedi accanto al muro. Ogni tanto dava occhiate sospettose in giro, come se la casa fosse infestata.
Ricevettero una tazza ciascuno – una camomilla per Jessica e, in assenza di Earl Grey, tè verde per Priest – e si accostarono a una vecchia stufa elettrica per asciugarsi.
Il loro anfitrione si chiamava Binny. Fortunatamente sembrava nutrire un sommo rispetto per l’Esercito della salvezza. «Non è che ci siamo già visti?» Da sotto la poltrona estrasse un vassoio su cui cominciò a rollare una canna.
Priest sorrise. «Secondo me sì, ma dev’essere passato un bel po’ di tempo. Lei come sta?»
«Oh, be’, meglio. Sa, mi sono trovato un lavoretto alla discarica.»
«Ho sentito dire che sta facendo un ottimo lavoro.»
Binny fece un gran sorriso e accese la canna. L’odore di marijuana si sparse subito per la stanza. «Quindi cosa volete dalla mia vicina?»
«Hayley, intende?»
«Esatto, proprio lei.»
«Vuole entrare nell’Esercito.»
«Sul serio? Non mi state prendendo in giro, vero?»
«Non crede che sarebbe un’ottima recluta?»
Binny tirò su con il naso e ci pensò su, tra un tiro e l’altro. «Immagino di sì. Però se ne sta sempre per conto suo. E voi dovete essere socievoli, giusto?»
«Quand’è stata l’ultima volta che l’ha vista?» chiese Jessica.
«Quand’è stata l’ultima volta che l’ho vista?» ripeté Binny in tono meditabondo. «Mi lasci fare mente locale. Ah, naturalmente, se volete un po’ d’erba... È Purple Haze, non troppo forte ma fa il suo lavoro.»
«No, la ringrazio.»
«Come non detto. Allora, vediamo un po’. Hayley. Quand’è stata l’ultima volta che l’ho vista? Mmm... una settimana fa, mi pare.»
«E come le è sembrata? Per caso ha notato qualcosa di strano?»
Binny fece una smorfia di concentrazione. Data la velocità con cui fumava, forse sarebbe stato meglio non dare troppo credito alla sua memoria. «Se n’è andata in macchina. Ho visto la scena dalla finestra. Quando mi sparo una canna, mi affaccio sempre a guardare la strada. Il vento mi schiarisce le idee.»
«E non si ricorda che macchina fosse?»
«Mi sa di no. Non ci ho fatto proprio caso.»
«Più o meno che ore saranno state? È successo di mattina o di pomeriggio?»
«Be’, dato che ero ancora sveglio, era di sicuro giorno.»
«Era buio?»
«Quasi. È successo subito dopo che qualcuno le ha lasciato un messaggio.»
«In che senso?» chiese lentamente Priest. «Un messaggio di che tipo?»
«Un messaggio.»
«E chi glielo avrebbe lasciato?»
«Boh. Suo padre, mi sa. Nella segreteria telefonica.»
Priest e Jessica si guardarono.
«Come fa a saperlo, Binny?» chiese Priest con dolcezza.
«Ce l’ho registrato.» Binny sembrò comprendere la stranezza della propria affermazione e aggiunse con un certo imbarazzo: «Non costa mica poco avere un telefono. Soprattutto ora che gli immigrati ci rubano il lavoro. Quindi mi sono allacciato alla linea della mia vicina. Stessa cosa per il riscaldamento. E l’elettricità. Insomma, per farla breve, ricevo i suoi messaggi in segreteria».
«Potrebbe farcelo sentire, per favore?» chiese Jessica.
Stupito che la sua confessione non avesse suscitato nessun rimprovero, Binny si voltò verso di lei con un sorriso sdentato. Si alzò e incespicò verso la porta.
Jessica e Priest lo seguirono nel corridoio ingombro di pubblicità di pizzerie da asporto e vecchi cataloghi Avon.
Binny individuò il telefono sotto una montagna di giornali ingialliti e premette alcuni pulsanti. «Eccolo qua.»
Dopo qualche secondo, la registrazione partì. Priest si chinò per ascoltare.
Spettrale e disperata, una voce gracchiò sopra il ronzio: «Hayley. Sono tuo padre. Se sei in casa, per favore, rispondi... Hayley? Quante volte ti ho detto che devi rispondere al telefono? Hai il cellulare spento. Ascoltami, va’ alla stazione, prendi un taxi e torna a casa. Subito. Non fare nemmeno la valigia; devi partire subito. Lì non sei più al sicuro. Io... Io devo sapere che stai bene. Chiamami quando sei sul taxi. Mi dispiace. Ti ho delusa».