9

Era già quasi buio. Avrebbe tenuto acceso il riscaldamento per un’oretta, per rendere la temperatura più sopportabile. Chiuse la porta a chiave e abbassò due o tre volte la maniglia per accertarsi che tenesse. La mano non gli sembrava sua, ma c’era abituato.

La derealizzazione, come la chiamavano gli psichiatri, gli era ormai familiare. Il mondo sfumava in un sogno nebbioso. Gli oggetti cambiavano dimensioni e forma, le persone si trasfiguravano in caricature distorte, in automi. Sempre secondo gli psichiatri, l’inizio di un’emicrania era una passeggiata, al confronto. Era una patologia incurabile e imprevedibile, per cui non c’erano medicinali.

Priest era andato da uno psichiatra soltanto una volta. Gli era bastato.

Quando alla fine Sarah era tornata dalla lavanderia, le aveva rivolto delle scuse un po’ fiacche. Lei le aveva accettate, gli aveva dato un bacio e aveva promesso che, finché non si fosse sentito pronto, non gli avrebbero organizzato nessun appuntamento con l’amica commercialista. Chissà cosa voleva dire, «pronto».

Priest non sapeva se lo faceva imbestialire di più la sua abitudine a ferirla o la capacità della sorella di perdonargli ogni passo falso. Non meritava tutta quella bontà, quell’amore infinito. Da quando Sarah aveva rimosso William dalla propria vita, scollegandolo e gettandolo via come un elettrodomestico rotto, non sembrava più in grado di serbare rancore nei confronti dell’altro fratello, per quanto lui la provocasse.

Durante il tragitto verso casa si era chiesto se non avesse commesso un errore a rifiutare l’appuntamento combinato. Sebbene fosse solo ormai da cinque anni, non aveva perso l’appetito sessuale. E Sarah sapeva meglio di lui qual era il suo tipo. Lo aveva avvertito fin dall’inizio che con Dee non avrebbe funzionato. Quindi dov’era il problema? Aveva paura di fallire? Forse. Non faceva altro che perdere, quando si trattava di donne.

No, la questione è più complicata. Ho paura di me stesso. Dei fantasmi del mio cervello.

I suoi genitori erano morti nel 2002. Il loro volo da Berlino partiva in ritardo e loro avevano fretta di tornare in Inghilterra. Alla fine avevano accettato l’offerta di una collega ed erano saliti sul suo jet privato. Sulla Manica il piccolo aereo si era imbattuto in una tempesta e non era mai giunto a Londra. I rottami erano ancora da qualche parte in fondo al mare. Da allora, Priest aveva cercato – invano – di riempire il vuoto che i loro genitori avevano lasciato nella vita di sua sorella.

Il processo a William era cominciato nel 2010, quando Tilly aveva un anno. Aveva ucciso almeno otto persone. Fu dichiarato non colpevole per motivi psichiatrici: la cosiddetta infermità mentale. Da allora William era rinchiuso in un ospedale psichiatrico di massima sicurezza, ignorato dalla sorella, che lo riteneva una macchia indelebile sul buon nome della famiglia. Non c’era da stupirsi se dopo la sentenza Sarah aveva fatto di tutto per dimenticarlo. Tilly non aveva mai sentito parlare dello zio William, ed era meglio così. Sarah l’aveva letteralmente cancellato dalla propria vita: aveva strappato le sue fotografie, bruciato le sue lettere senza aprirle, buttato i suoi regali e qualsiasi cosa glielo ricordasse. Una specie di damnatio memoriae .

Sarah si aspettava che lui facesse altrettanto. Ma non ne era stato in grado. Lo aveva preso il dubbio sulla propria condizione, sulla tara mentale che condivideva con il fratello pluriomicida. Quell’incertezza lo seguiva ovunque, come uno spettro.

No, non sono pronto per un appuntamento. Non fino a quando sarò riuscito a esorcizzare i miei demoni.

Prese una confezione di mais dalla dispensa e la aprì. Ponderò se cucinare qualcosa, ma poi decise di non avere voglia e mangiò direttamente dalla scatoletta.

Accese la televisione. Al telegiornale c’era un servizio sulla morte di Miles, Priest alzò il volume e la voce del giornalista di Sky News riempì la stanza: «Questa mattina all’alba, il cadavere di Miles Ellinder – figlio ed erede del magnate Kenneth – è stato rinvenuto nel seminterrato di un magazzino nel Sud di Londra. Si pensa che il magazzino sia di proprietà dell’azienda familiare. Le forze dell’ordine non hanno diffuso dettagli sul decesso, ma hanno dichiarato di aver avviato le indagini per omicidio.

«Nel pomeriggio Kenneth Ellinder, presidente della Ellinder International, ha espresso il proprio cordoglio per la morte del figlio, che ha definito un imprenditore molto stimato, e ha poi chiesto di rispettare il lutto privato della famiglia. Le circostanze della morte di Miles rimangono avvolte nel mistero, ma fonti vicine alla famiglia ne parlano come di un uomo turbolento, la cui ultima apparizione ufficiale risalirebbe ormai a più di un anno fa...»

Priest tolse il sonoro. Non voleva sentire una parola di più. Accese il bollitore e, quando l’acqua bollì, la versò in una tazza con una bustina di Earl Grey. Nell’attesa che il tè fosse pronto, andò in camera e prese una scatola da scarpe da sotto il letto. Tolse il coperchio e frugò tra vari pacchetti. Alla fine estrasse una Glock e controllò che il caricatore fosse pieno. La armò e si accertò per tre volte che la sicura fosse inserita. Lasciò la scatola sul copriletto, gettò la bustina nel bidone, prese la tazza bollente e tornò in soggiorno. La stanza oscillava. Non come una trottola impazzita, bensì beccheggiava lentamente come una nave. Sorseggiò il tè. Ustionarsi la lingua gli piaceva: per un attimo aumentava la realtà delle percezioni. Diede da mangiare allo Pterois nell’acquario e all’improvviso provò il desiderio di sedersi.

Spostò da davanti al televisore la poltrona di cuoio rosso e la sistemò sulla soglia della cucina. Si lasciò cadere a corpo morto. Ormai la stanza vorticava. Si posò la pistola su un ginocchio. Un’ora dopo, sprofondò in un sonno senza sogni.

Lo svegliò lo squillo del cellulare. All’inizio non riconobbe la suoneria. Trovò il telefono sul pavimento, lo raccolse e rispose.

«Priest. Dormito bene?» chiese Okoro.

Lui si grattò il naso. «No.»

«Mi dispiace. Passi in ufficio, più tardi?»

«Vediamo. Che ore sono?» Si alzò e la pistola cadde sul pavimento. Si irrigidì, ma la sicura era ancora inserita. Esalò un lungo sospiro.

«Le nove e mezzo. Allora, vieni in ufficio o no?»

«Ti rimando alla risposta precedente.»

«Ci sono due persone che vorrebbero parlarti. Sembrano importanti.»

«Capito... Dammi il tempo di fare una doccia. Tra un’ora sono lì.»

«Gli dico che arrivi tra venti minuti.»

Con la testa che pulsava, Priest vide due persone in sala d’attesa: un anziano e una donna sui quarant’anni. Urlò nella sua mente. Non appena ebbe varcato la porta, l’anziano si alzò per salutarlo. Erano entrambi vestiti in maniera impeccabile, quindi forse lavoravano per la banca.

Priest fece del suo meglio per fare finta di non aver visto niente. Mentre sgattaiolava via, Maureen gli lanciò uno sguardo di disapprovazione. Lui ignorò anche l’occhiataccia. Consapevole di aver fallito entrambe le interpretazioni, andò verso l’ufficio.

«Charlie...» lo chiamò Maureen.

«Buongiorno!» gridò lui senza voltarsi, poi sbatté la porta dietro di sé.

Accese il computer e controllò le mail: centosette messaggi non letti, un nuovo record. Cominciò a inoltrarli a Solly, anche se non avrebbe dovuto: sapeva che, pur di non lasciare la propria casella intasata, il collega avrebbe risposto a tutte. Sarebbero seguite otto scansioni di antivirus, una deframmentazione completa, e infine una ripulitura manuale della scheda RAM con una salvietta asettica. Ma non c’erano alternative.

Chiamò Georgie e lei arrivò nello studio un istante dopo. Aveva i capelli sciolti sulle spalle. Priest pensò che li preferiva legati. Le diede l’indirizzo di Ryan Boatman. «Scopri tutto quello che puoi.»

«Va bene. C’entra con Miles Ellinder?»

«No.»

«E come mai ti serve?»

Priest ci pensò su. «Così. Voglio farmi un’idea.»

Per un attimo Georgie restò interdetta. Per anticipare ogni possibile domanda, lui seppellì la faccia in una pila di carte sulla scrivania. Quando rialzò lo sguardo, era scomparsa.

Suonò il telefono. Prima di rispondere, guardò lo schermo. Attese qualche altro squillo e poi alzò il ricevitore. «Ciao, Maureen.»

«Ci sono due persone che vogliono vederti.»

«Lo so.» Riattaccò e lo rialzò subito per trascrivere un numero dal proprio iPhone. Suonò a vuoto per un tempo che gli parve infinito, poi sentì una voce imbronciata.

«Charlie Priest! Porca troia!»

«Giles. Ho bisogno di un favore.»

«Come, scusa?»

«Ho bisogno di un favore.»

Giles sembrava al contempo sospettoso e brillo. «Tu hai bisogno che io faccia un favore a te

«Esatto.»

«’Fanculo.»

«Dai, sii ragionevole.»

«Ragionevole? L’ultima volta che ti ho fatto un favore mi hai messo nei guai e sono finito tre mesi in galera in Russia.»

«Era una cella di detenzione temporanea in una centrale di polizia e sarà stata al massimo una settimana, sai che roba.»

«Puzzava di vodka.»

«A maggior ragione, ti sarai sentito a tuo agio. Lo prendo come un sì?»

Per un po’ tacquero. Priest non avrebbe saputo dire se a causare il ronzio fosse la cattiva ricezione oppure gli ingranaggi mentali dell’amico che giravano.

«Dai, sputa il rospo.»

«Ti ringrazio. Due notti fa, a Londra, pare sia stato ucciso un certo Miles Ellinder. Ne sai qualcosa?»

«Ho sentito delle voci. Sembra una faccenda piuttosto brutta. Ma tu cosa c’entri?»

«Ho bisogno di qualsiasi documento tu riesca a trovare. Dichiarazioni di testimoni, referti autoptici, stralci di dossier. Ogni singolo pezzo di carta su cui riesci a mettere le mani.»

«Cosa? Sai che non posso toccarla, quella roba, nemmeno per farti un favore.»

«È davvero importante.»

«Anche non farmi licenziare è importante.»

Giles faceva parte della SO15, la cellula antiterrorismo della polizia britannica. Quando si erano conosciuti, vent’anni prima, spacciava eroina. Era curioso pensare che ormai rientrava nello sparuto novero di prescelti che difendeva la capitale britannica dall’ISIS. Avevano dei trascorsi insieme e Priest sapeva perfettamente chi di loro due era in debito di diversi favori.

«Tu intanto vedi cosa riesci a fare, va bene?»

«Dammi una sola ragione per cui dovrei...»

«Posso sempre raccontare ai russi la verità.»

All’altro capo della linea ci fu una breve pausa. «Va bene, vedrò cosa posso fare.» Clic.

Arrivò una mail di Maureen, con oggetto Gente in sala d’attesa . Priest non lesse oltre. La banca può aspettare. Tutti possono aspettare, cazzo. Nel cassetto della scrivania trovò un analgesico e ne prese tre pasticche. Probabilmente li produceva la Ellinder Pharmaceuticals. Stava peggio del giorno prima e non aveva ancora bevuto la prima tazza di tè. Tuttavia, per uno che nelle ultime quarantott’ore ne aveva dormite al massimo otto, si sentiva piuttosto concentrato e carico di energie. Non sapeva da dove provenisse quella riserva di forze, ma qualcosa cominciava a sovrastare l’atroce dolore alla nuca.

Proprio quando pensò che fosse meglio smetterla di rimanere lì seduto a compiangersi, il telefonò squillò di nuovo. Era Solly. Sembrava terrorizzato, ma lui non si scompose.

«Sono sommerso dalle mail!»

«Lo so, scusami» disse Priest, nel tono più paziente che riuscì a tirar fuori.

«Quante ce ne sono ancora?»

«Un po’, mi sa.»

«Non potresti almeno scaglionarle? Magari, se mi arrivano una alla volta...»

«Non c’è problema, Solly.»

«Grazie a Dio.»

Priest posò la cornetta e gli mandò le nuove mail tutte assieme. Attese che il telefono ricominciasse a squillare e, quando non lo fece, tirò un sospiro di sollievo. Bene. Solly avrà da fare per il resto della giornata. Chiamò Georgie, che gli rispose al primo squillo.

«Georgie, per caso ti ho detto che il tizio trovato morto ieri, Miles Ellinder, è stato impalato?»

«Cioè, intendi... infilato su un palo?»

«Sì.»

«Ma veramente?» Sembrava stranamente emozionata. «Vuoi che faccia una ricerca sul significato di questa pratica?»

«Ti ho chiamata per questo.»

«Ottimo!» Clic.

Prima di rimettere il telefono a posto, Priest lo fissò per qualche istante. Georgie era entusiasta. Ma forse questo era un vantaggio.

A un tratto si accorse che Okoro era seduto di fronte a lui. Priest trasalì. Non l’aveva visto né sentito entrare. «Ma tu hai...»

«Bussato? Certo. È da quando sei arrivato che busso. Alla fine mi sono stufato e ho deciso di entrare e basta.»

«Scusami. Sono un po’ distratto.»

«Ho avuto anch’io questa sensazione.»

«Non è che c’è del tè, o...»

«C’è gente che aspetta.»

«Sono della banca, vero? Non abbiamo firmato nessun affidamento. Le nostre riserve di liquidi ammontano a più di un milione di sterline e l’ufficio è tutto di nostra proprietà. Qual è il problema?»

«Non sono della banca.»

«Non saranno mica quelli dell’assicurazione dell’indennità civile?»

«Sono il padre e la sorella di Miles Ellinder.»

Grattandosi il mento, Priest si rese conto che non si radeva da un po’, il che a sua volta gli ricordò che se il giorno prima aveva un aspetto terribile, la situazione in quel momento doveva essere peggiore. Il padre e la sorella di Miles Ellinder. Sono qui per vedere me. Questo sì che è un colpo di scena. Merda. Prima di uscire ho dato da mangiare ai pesci?

«Quindi?»

«Eh.»

«Finora sono riuscito a tenerli buoni dicendo che non ti aspettavi una loro visita e hai dovuto organizzare i vari incontri della mattinata per non mandarli via, ma ora sono stufi. Sono quasi certo che nessuno abbia mai costretto Kenneth Ellinder ad aspettare così tanto in vita sua.»

«Già. Forse ha a che fare con le palate di soldi che ha.»

«Può darsi. Adesso mi alzo, poi te li porto qui e chiudo la porta. Hai circa trenta secondi per trasformarti in qualcuno che non è stato l’ultimo a vedere vivo suo figlio.»