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25 marzo 1946
Una fattoria isolata nell’Inghilterra Centrale
Bertie Ruck mangiava delle uova. Due, in camicia. Le aveva trovate in dispensa la mattina dopo il primo interrogatorio al dottor Schneider. Era arrivato alla fattoria la settimana precedente e aveva passato i primi due o tre giorni a rileggere appunti, documenti, fotografie, resoconti. Qualsiasi cosa potesse aiutarlo a vedere la questione in prospettiva.
Il tedesco era lì da mesi, nascosto dal resto del mondo. Non era una misura punitiva, ma protettiva. Gli edifici che componevano la fattoria erano stati adattati alle esigenze del confino. Inferriate alle finestre, serrature e lucchetti alle porte. Non ci avevano messo molto a trasformarla in un carcere. Avevano assegnato al luogo una pattuglia di sei soldati, ma non facevano quasi nulla. Schneider non sembrava affatto propenso alla fuga. A cosa serviva diventare un latitante tedesco in Inghilterra dopo la fine della guerra? Avevano temuto che si togliesse la vita come Himmler, ma il dottore aveva mostrato scarsa inclinazione anche verso il suicidio.
Ruck dormiva poco e male. L’inverno non voleva finire. Il materasso era umido e bitorzoluto, ma almeno la cucina della fattoria aveva soddisfatto le sue aspettative: pavimento in pietra, forno caldo, pentole e padelle appese a ogni scaffale. E la luce del sole inondava le superfici.
Il caporale Fitzgerald fumava una sigaretta rollata a mano con la schiena appoggiata allo stipite. Era così alto e dinoccolato che non sembrava a suo agio da nessuna parte. Il suo corpo era costretto a continui aggiustamenti. Anche se la voce stridula di Fitzgerald cominciava a infastidirlo, fino ad allora Ruck era riuscito a ignorarlo. «Be’, racconti, allora» disse allegro, guardando Ruck come in attesa che facesse un gioco di prestigio. «Come è andata?»
Ruck emise un lungo sospiro. Un’altra settimana di questo delirio, poi torno a Londra e addio nazisti e ritardati. «Come lei ben sa, caporale, non mi è permesso rivelare nulla dei miei colloqui con il dottor Schneider...»
«Schneider?» Fitzgerald sembrava sinceramente sconcertato. «No, io parlavo di Eva!»
Ruck finì di masticare e alzò lo sguardo. «Chi?»
«Eva! Eva Miller. Miss Culo Sodo, e chi, sennò?» Fitzgerald fece un sorriso idiota. Aveva denti lunghi e storti come il resto del suo corpo.
Ogni suo atteggiamento dava sui nervi a Ruck. Non avrebbe dovuto permettere a quello stronzetto di parlargli in quel modo. Avrebbe dovuto imporgli maggiore rispetto, mantenere la disciplina, ma era stufo delle gerarchie militari, e poi lì cosa importava, visto che sulla carta l’operazione non esisteva nemmeno? «Intende la dattilografa?»
«Sì. Proprio lei. Cioè, è uno schianto di donna o no? Non so come fa a concentrarsi con lei nella stanza. Dorme qui anche lei, sa? Nell’edificio di fronte. Ha una singola accanto alla mia. È arrivata ieri. Qualcuno l’ha accompagnata con una macchina civile.»
«Ma davvero?»
«Bello, no? Averne almeno una nei dintorni, cioè. Qualcosa a cui pensare durante le fredde notti d’inverno... Scommetto che tra quelle tettone c’è un bel calduccio...»
Si sentì un educato colpo di tosse e Fitzgerald tacque. Poi balzò via dalla porta come se fosse diventata incandescente.
Nel passargli davanti, Eva non sembrò imbarazzata né infastidita, bisognava dargliene atto. Fitzgerald provò a dire qualcosa, ma la sua bocca riuscì a produrre soltanto un gemito di sorpresa. Ruck continuò a mangiare le sue uova. Alla fine il caporale mormorò una frase sconnessa e fuggì.
Il volto di Eva era di una bellezza devastante. Pelle bianca, quasi trasparente, rossetto scuro, capelli castani perfettamente acconciati. Ma non era finita lì. Ruck se n’era accorto già il giorno prima, anche se l’aveva vista solo da lontano: aveva un presentimento che non sarebbe riuscito a definire. Se ne rendeva conto dal modo in cui lei esitava, con una certa insicurezza, dall’altra parte del tavolo. Era di un’eleganza squisita. Sotto il cappotto blu, ogni curva della camicetta sembrava inamidata alla perfezione, ogni piega della gonna esattamente simmetrica alle altre. Sembrava una bambola appena estratta dalla confezione. «Colonnello Ruck» disse, con un cenno educato.
«Lei è americana.»
«In parte. Come fa a saperlo?»
«Da come è vestita.»
Eva si guardò i piedi. «Sono di Boston, anche se mia madre è nata a Cheltenham.» Tirò fuori una sigaretta dalla borsa. «Ha per caso un fiammifero, colonnello?»
Lui si frugò nella tasca interna della giacca, tirò fuori una scatola di fiammiferi e ne accese uno per lei.
Nell’accostare la sigaretta, Eva coprì la fiamma con le mani. Il fumo luccicava nel sole nascente. «La conversazione non è il suo forte.»
«No» ammise lui.
Eva si sedette e accavallò le gambe.
Ruck tornò alle sue uova, ma all’improvviso aveva perso l’appetito. Cambiò posizione e, anche se il tè era freddo, bevve un sorso dalla tazza sul tavolo. I nazisti erano brutte gatte da pelare, ma le donne erano molto peggio. Voleva dire qualcosa, ma ogni commento o battuta intelligente gli aveva temporaneamente disertato il cervello. Alla fine optò per una domanda. «Come si trova nella sua stanza?»
«Bene. La notte fa piuttosto freddo, ma almeno le lenzuola sono pulite. Hanno fatto di tutto per accoglierci al meglio, anche se non ho capito a che scopo.»
«Sono d’accordo con lei.»
«Le piace il tè freddo?»
Ruck sollevò lo sguardo dalla tazza. Fuori l’aria era gelida e, nonostante il bel tempo, anche all’interno la temperatura era rigida. E tuttavia il liquido ambrato non emanava vapore. Lei è un’ottima osservatrice, signorina Miller. «Credevo fosse un’abitudine americana, o sbaglio? Quella di servire ghiacciate bevande tradizionalmente bevute calde.»
La battuta suscitò un sorriso sul volto di Eva, trasformandolo completamente. Era la personificazione della classe e dell’eleganza, ma dietro i suoi occhi verdi c’era sempre quel sentore di mistero. E di inquietudine.
Ruck bevve un altro sorso di tè.
«Nell’assegnarmi qui, mi hanno raccomandato di non fare domande su... sull’operazione in corso. Mi hanno parlato anche di lei, colonnello. Ho dovuto giurare che non l’avrei infastidita con la mia curiosità...»
«Buono a sapersi.»
Eva annuì. «Ottimo. Se non erro, tra un’ora comincia il prossimo interrogatorio.» E uscì.
Ruck si guardò attorno: senza di lei, la cucina sembrava molto meno interessante.
Ruck attraversò il cortile e proseguì verso la stalla dove lo attendeva Schneider. Lo fece aspettare qualche minuto, poi ordinò ai soldati di accertarsi che fosse legato alla sedia nella maniera più scomoda possibile, non perché tormentarlo gli procurasse particolare piacere, ma per tentare di ammorbidirlo, anche soltanto facendogli venir voglia di tornare in cella il prima possibile.
Aveva pensato di telefonare a Londra e farsi mandare un’altra dattilografa, ma qualcosa l’aveva bloccato. Gli sembrava assurdo chiedere una sostituzione per... per quale motivo? Perché Eva lo metteva disagio? Che idea ridicola.
Quando arrivò davanti alla porta della stalla si accorse di aver dimenticato la penna nell’ufficio di fortuna che avevano messo insieme per lui sopra la cucina. Imprecando tra i denti, si voltò verso la fattoria. Mentre tagliava a passo svelto il cortile, vide il profilo filiforme di Fitzgerald dietro la porta della cucina, in una nebbiolina di fumo che si alzava e si disperdeva nel vento.
Ruck aspettò che la sigaretta sparisse tra i ciottoli e Fitzgerald tornasse dentro. Il caporale riusciva sempre a farlo imbestialire; l’ultima cosa che desiderava era ricominciare a sentire i suoi piagnistei. Per fortuna, quando Ruck varcò la soglia della cucina, se n’era già andato.
Salì le scale senza fare rumore. Il primo giorno si era impresso nella memoria ogni singola asse scricchiolante della fattoria, perciò poté salire in un silenzio pressoché totale. Era una precauzione inutile – la località era segreta e circondata da una gran quantità di soldati –, ma per principio Ruck usava sempre la massima cautela. Anni di pattuglia nei corridoi della Gabbia lo avevano abituato ad aspettarsi sempre il peggio.
Quando raggiunse la porta dell’ufficio, la trovò socchiusa. Immobile, rimase in ascolto. Posò d’istinto una mano sulla fondina. Forse aveva sentito un rumore, ma non ne era certo.
Spinse lentamente la porta e guardò nell’ufficio.
Eva era al centro della stanza, con le mani dietro la schiena. Non sembrava stupita, né colta con le mani nel sacco. Incrociò il suo sguardo con espressione serena. Aveva l’aria di aspettare qualcosa.
«Che cosa ci fa qui?» Chiuse la porta dietro di sé e incrociò le braccia.
«Mi serviva un nastro per la macchina da scrivere.»
Ruck ispezionò rapidamente il piano della scrivania, dietro di lei. Ogni cosa sembrava al suo posto. Anche i cassetti erano nelle stesse posizioni di prima, quello centrale lievemente scostato. Nastro per la macchina da scrivere. «Provi nel magazzino. Dall’altra parte del cortile.»
«Ma certo» disse Eva senza voltarsi.
Ruck fece un passo verso di lei. Eva rimase immobile, con un’espressione obbediente che lo fece infuriare. Tutta quella tranquillità era una maschera. Ruck vide oltre il finto broncio, le tumide labbra rosse e gli occhi socchiusi, fin dove ardeva l’inequivocabile scintilla dell’intelligenza.
Troppo curiosa per essere una semplice dattilografa.
«Per essere un colonnello, lei è piuttosto giovane.»
«E lei è molto sfacciata, per essere una dattilografa.»
«Mi scusi.» Gli lanciò un’occhiata così sfrontata da fargli accapponare la pelle. «Non volevo offenderla, ma lei... Non saprei. Non sembra il tipo che si diverte a interrogare la gente.»
«Facciamo tutti il nostro dovere per il Paese» replicò lui, con scarsa convinzione. Avrebbe dovuto impedirle di trattarlo con quella confidenza, ma ormai era troppo tardi. E forse Eva non aveva tutti i torti.
Lei avanzò finché Ruck non sentì l’odore della sua pelle. Era molto tempo che una donna non gli faceva un effetto simile. Si irrigidì, cercando di non reagire alla vicinanza dei corpi e all’intimità improvvisa, ma sentì qualcosa sbocciargli alla bocca dello stomaco: l’improvvisa coscienza della propria fragilità, la sensazione che in qualche modo lei fosse riuscita ad aprirgli il cranio e a leggere i pensieri e i sentimenti più reconditi. Vedeva tutto, ne era certo: ogni segreto, ogni desiderio impronunciabile. «La smetta» disse, voltandosi dall’altra parte.
«In che senso?»
«La smetta con questi trucchetti. Abbiamo un lavoro da fare.»
Lei allungò la mano, rendendo esplicite le proprie intenzioni. Per Ruck sarebbe stato così facile intrecciare le dita con le sue e trascinarla... dove? Sulla scrivania? Sul pavimento? Arrossendo, cercò di darsi un contegno. Aprì la porta, la spinse fuori e chiuse a chiave.
Sulle scale, con voce di seta, lei gli disse: «Mi dispiace, colonnello. Ma non possiamo fuggire da noi stessi».