50
Priest prese il telefono dal tavolo. Sembrava uno di quelli che si trovano appesi alla parete nei bagni degli alberghi. Al posto della tastiera aveva un solo bottone con un simbolo familiare. «Carina. Una piccola efemera.»
«Cos’è che hai detto, collega?»
Priest premette il tasto.
Dopo qualche squillo, rispose una voce femminile. «Pronto, signor Ruck, come posso aiutarla?»
«Tra quanto comincia la conferenza?»
«Mancano circa quaranta minuti. Ha bisogno di qualcosa?»
«Prima dell’inizio della conferenza, se possibile, vorrei andare un attimo in bagno.»
L’inserviente arrivò nel giro di due minuti. Era muscoloso e alto quanto lui, ma più magro. Non proprio il tipo di avversario con cui Priest avrebbe fatto a botte a cuor leggero, ma non aveva molta scelta e il tempo passava.
«Mi segua, signore.» L’inserviente fece segno a Priest di alzarsi. Dall’accento sembrava scandinavo, forse danese.
Maledicendolo in silenzio per la lentezza con cui camminava, Priest lo seguì. Dai, su, lumacone che non sei altro; il tempo vola.
Per raggiungere il bagno impiegarono meno di tre minuti. Quindi ne rimanevano trentacinque. L’inserviente spinse la porta ed entrò dietro Priest. Non c’erano urinatoi, soltanto una fila di cinque cubicoli.
«È quello dei maschi?» chiese Priest. Non aveva visto segni sulla porta.
«Questo è il bagno per gli ospiti speciali, signore» disse l’inserviente.
«Quindi non ci sono donne disposte a pagare per una poltrona d’onore?»
«Per quanto ne so, no.»
Priest gli assestò un pugno in pancia il più forte possibile. Non era un colpo mortale, né l’avrebbe mandato all’ospedale, ma era pensato per scongiurare ogni possibile reazione. Lo shock di sentirsi svuotare all’improvviso i polmoni impedì all’inserviente di gridare o contrattaccare, e si accasciò sulla porta.
Mettere qualcuno fuori combattimento è una faccenda delicata. Troppa forza e si rischia di ucciderlo; troppo poca e si finisce per attrarre attenzioni indesiderate.
Priest si inginocchiò. «Ora ascolta. Preferirei non farti male, ma se in qualunque modo cercherai di impedirmi di uscire da qui indisturbato, allora sarò obbligato.»
«M-ma tu chi cazzo sei?»
«Sono qui per le due donne.»
«Cosa? Sei pazzo?»
«Dove sono?»
Tra colpi di tosse e sputacchi, l’inserviente riuscì a fare una risata. «Sei pazzo.» Avendo recuperato un po’ di ossigeno nei polmoni, posò la mano sul muro e fece per rimettersi in piedi.
Priest gli afferrò il polso e lo torse all’indietro.
Con una smorfia di dolore, l’uomo ricadde sul pavimento.
«Dove sono le due donne che avete rapito per la performance di stasera?»
«La casa è piena di guardie... Sei davvero convinto di poterle prendere e scappare come se niente fosse?»
Priest aumentò la pressione sul polso e l’inserviente si contorse sul pavimento. Oltre a pesare qualche chilo in più, aveva ormai il coltello dalla parte del manico. Gli mise il ginocchio sulla schiena e spinse giù con forza.
«Merda! »
«Guarda che soffro di disturbo dissociativo.»
«Cosa...»
«Cosa significa? Significa che non ho pazienza, e che romperti il polso, per poi passare a qualche altro osso a caso, per me sarebbe naturale come bere un bicchier d’acqua.»
I loro sguardi si incrociarono. Priest vide il panico... e la resa. Allentò lievemente la stretta. Un invito, nulla di più.
«In cantina» ansimò l’inserviente. «Le mettono sempre in cantina.»
Priest annuì, lo prese per il colletto e lo trascinò verso i lavandini. Si tolse la cintura, lo legò a un tubo e strinse più forte che poté, fino a bloccargli la circolazione. Nel giro di pochi minuti avrebbe perso completamente la sensibilità negli arti superiori.
Senza cercare di nascondere una smorfia di dolore, l’inserviente rise. «Credi di avere anche solo una minima possibilità di uscirne vivo?»
Priest gli tolse una scarpa e un calzino, poi gli ficcò il calzino in bocca e glielo legò alla testa con il laccio della scarpa. Gli afferrò il mento e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Credo di non poterlo dare per scontato. Ma, se in cantina non c’è nessuno, so dove trovarti.»
Uscendo dalla porta, Jessica superò un gruppetto di figure incappucciate intente a mormorare. Una di loro la guardò. Jessica finse di non accorgersene e proseguì lungo il corridoio. Non aveva idea di dove stesse andando, ma non sarebbe rimasta altri cinque secondi nella stessa stanza di McEwen. Per fortuna l’alcol gli aveva annebbiato la mente.
Quando fu abbastanza lontana da sentire affievolirsi l’eco delle risa e dei discorsi, si tolse il cappuccio. Aveva il volto in fiamme, faticava a respirare ed era spettinata. E c’è gente che paga decine di migliaia di sterline per venire a serate come questa?
Dopo l’ennesima svolta cominciò a orientarsi un po’ meglio. Non riusciva a togliersi un pensiero dalla testa: più tempo vi passava e più le sembrava di esserci già stata. All’inizio aveva archiviato il senso di déjà-vu dicendosi che quel corridoio, con i ritratti a olio e la carta da parati tanto spessa da sembrare velluto, era identico a quello di qualsiasi altro palazzo nobiliare aperto al pubblico.
Ma presto si rese conto che c’era dell’altro.
Si fermò davanti a una porta. La guardò attentamente. Qui dietro c’è una scala che porta di sotto. Ne era certa. Tentò di abbassare la maniglia e la porta si aprì. Di fronte a lei una rampa di legno scendeva nella penombra. Si sentì a disagio. Era già stata lì. Conosceva la planimetria della casa.
Lentamente, scese nell’oscurità. A tentoni cercò un interruttore. In fondo alla rampa incombeva un altro ritratto a olio: una madre con in braccio un bambino dall’orrendo vestito di pizzo. Il quadro era talmente logorato dal tempo che soltanto il volto della madre si stagliava ancora nitido, una macchia pallida e triste sulla tela nera.
Le tornò in mente un ricordo d’infanzia: vide una bambina di sei anni giocare nell’ampia sala a cui si accedeva varcando una porta a doppio battente.
Una porta con un insetto intagliato.
Jessica trattenne il respiro. Non era un déjà-vu. Era già stata lì.
Priest non poteva tornare a prendere Jessica. Un ospite speciale che rinunciava alla postazione pagata a caro prezzo avrebbe subito attratto l’attenzione. Jessica avrebbe dovuto badare a se stessa: ormai rimanevano soltanto ventidue minuti.
Percorse l’ennesimo corridoio tenendosi rasente i muri, dove il parquet scricchiolava meno, il più rapidamente possibile, fino a raggiungere una scala a chiocciola di ferro. Ma si poteva soltanto salire. Strinse i denti e fece dietrofront.
Doveva concentrarsi. Rimanere lucido. Si era lasciato sfuggire un dettaglio importante. Che cos’è? Pensa!
Cercò di ordinare le informazioni che aveva, prima vagliandole una alla volta e poi rimettendole insieme. La fotografia dell’omicidio rituale di Miles Ellinder, la lista dell’Ephemera conservata da Sandra Barnsdale, il testamento di Eva Miller.
Durante la loro ultima telefonata, Giles, il suo contatto all’Antiterrorismo, si era lasciato sfuggire una frase come sovrappensiero. Cosa aveva detto, di preciso? Il diavolo sta nei dettagli.
Guardò sul cellulare il rapporto dell’autopsia inviato da Giles. Poi aprì la lista dell’Ephemera. Cercò un nome con la ricerca automatica. E... Eccolo qui. Come volevasi dimostrare!
All’improvviso sapeva cosa fare. Sulla destra c’era un’altra porta. Un modo per entrare...
Si tolse il cappuccio, lo gettò in un vaso e si passò la mano tra i capelli arruffati. Varcò la soglia e seguì l’eco dei passi e il mormorio della folla. Alla fine arrivò davanti a una porta. Quando i battenti si spalancarono, per poco Priest non andò a sbattere contro un cameriere, che in qualche modo riuscì a non rovesciare un vassoio di tartine.
«Attenzione!» disse il cameriere.
«Chiedo scusa.» Premendosi contro la parete per lasciarlo passare, Priest finse di inciampare e gli rubò lo straccio bianco che pendeva dalla tasca dei pantaloni per infilarlo nella propria.
In cucina fervevano i preparativi per la cena. L’odore di pesce era asfissiante. Sogliola al limone, se non sbagliava di molto. Proprio come quella maledetta sera in cui tutto è cominciato.
«Ricordati che l’olio non dev’essere troppo caldo» disse a un cuoco intento a spostare una friggitrice sui fornelli. «È un attimo bruciare tutto.»
«Ma tu chi sei?» gridò dal lato opposto della cucina smagliante lo chef, un uomo alto con due rughe profonde come trincee.
«Il signor Ruck ha richiesto due bottiglie di Château Mouton Rothschild» rispose Priest.
Naturalmente lo chef si era reso conto che qualcosa non quadrava: all’improvviso era spuntato un nuovo cameriere? Ma Priest puntava sull’umana propensione a evitare deduzioni negative in caso d’incertezza. Gliel’aveva insegnato suo padre.
«Non ce le abbiamo, due bottiglie di Rothschild» disse secco lo chef.
«Allora cosa gli porto?»
«Va bene. Marco, accompagnalo.» Lo chef fece un cenno a un uomo in piedi accanto alla porta, con i capelli a spazzola, le spalle larghe e i bicipiti strizzati nel completo scuro.
Venti minuti, forse meno.
Marco precedette Priest lungo una serie di scale e corridoi. Camminavano in fretta, ma a ogni passo il tempo passava. Priest sapeva con esattezza quanto mancasse all’inizio dello spettacolo. Probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
Quando imboccarono l’ennesima svolta del corridoio, Marco si fermò di scatto e Priest per poco non gli inciampò tra i piedi.
«Cosa c’è?» gli chiese cercando di mascherare il panico.
«Tu non lavori qui.»
Lo stomaco di Priest congelò. Era riuscito a fregare lo chef, ma non un lavapiatti.
«Tu non lavori qui» ripeté Marco.
Priest tese i muscoli.
«Chi sei?»
«Sono quello che ti spaccherà la faccia se non fai esattamente ciò che ti dico.»
Marco annuì come se già sapesse. Priest si sentì a disagio... qualcosa non tornava.
«Sei qui per le ragazze, vero?»
Priest rischiò. «Esatto.»
«Chi ti ha detto che sono in cantina?»
Priest esitò. Marco sembrava perfettamente tranquillo. Priest non disse nulla.
«Hanno l’ordine di dire che sono in cantina. Sai, nel caso arrivi qualcuno sotto copertura» disse Marco.
Priest ripensò all’inserviente legato al lavandino del primo piano. Avrebbe potuto intuire la menzogna, ma non aveva elementi su cui fondarsi. Aspetta un attimo... «Ma tu chi sei, invece?»
Marcò lo guardò e per un attimo tra di loro parve scattare qualcosa. Poi si voltò di nuovo.
«Ehi...» disse Priest, prendendolo per un braccio.
«Laggiù.» Marco accennò a una porta sulla sinistra. «Da lì si arriva al salone. Attraversalo tutto. C’è una scala che porta in una cella. Le ragazze sono lì. Ma devi fare in fretta. Dirò al capo che hai preso il vino e sei andato a portarlo a Ruck.»
Priest andò verso la porta. Era sormontata dall’incisione di un insetto dalle lunghe ali. Quando si girò, Marco non c’era più.