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La sede della Priest & Co. occupava quattro piani di un edificio classificato come monumento di secondo livello, distante meno di un quarto d’ora a piedi dal palazzo reale di giustizia, in una viuzza di nome Nook. L’unica funzione del vicolo era collegare la strada principale allo Strand. Oltre allo studio legale, l’unico altro punto d’interesse era il minuscolo Piccolo Café, dove Priest andava tutti i giorni. Con sommo disgusto dell’invadente barista, ordinava quasi sempre tè.

Priest salì gli scalini dell’ufficio due per volta, superò la piccola targa di bronzo sul muro – unico segno rivelatorio della natura dello studio – ed entrò nell’anticamera. C’era odore di cuoio vecchio. I mobili erano in mogano scuro e quercia. Un’intera parete era tappezzata di caricature a china di avvocati e giudici celebri, un’altra di schedari dal pavimento al soffitto. C’era anche un poster scolorito della famigerata sentenza Carlill v. Carbolic Smoke Ball.

Priest odiava l’anticamera e detestava ogni petalo dei fiori finti sul caminetto, ma dovevano piacere ai clienti, non a lui.

Da dietro la scrivania, Maureen gli lanciò uno sguardo che significava: Dove cazzo eri finito? Le aveva appena chiesto di posticipare un incontro con i rappresentanti della banca. Naturalmente loro non l’avevano presa bene. Ciononostante Priest non aveva mutui sul palazzo, non era mai andato in rosso e gestiva un conto separato molto modesto. Non era certo la prima preoccupazione della banca.

Rivolse un’occhiata di scuse a Maureen e, prima che lei potesse aprire bocca, entrò nel suo ufficio e chiuse la porta.

Sebbene fosse la stanza più grande dello studio, la occupava più per caso che per gerarchia aziendale. Aveva solo bisogno di più pratiche da archiviare di tutti gli altri.

Si lasciò cadere sulla sedia dietro l’ampia scrivania moderna. Davanti a lui c’erano due schermi e un guazzabuglio di carte. Appeso al muro alla sua sinistra, un televisore al plasma era sintonizzato su Sky News, a volume spento. Priest guardò dentro una tazza nascosta tra i due monitor e scoprì che si era trasformata in un ricettacolo di muffe non meglio identificabili. Prima o poi dovrò fare un discorsetto alla donna delle pulizie. Magari proporle di pagarla in base ai risultati.

Sfiorò il mouse. I due monitor tornarono in vita e mostrarono le schermate di blocco. Digitò la password con il pilota automatico. Aveva bisogno di tempo per pensare. La notte prima qualcuno aveva rischiato moltissimo nel tentativo di ucciderlo e rientrare in possesso di una chiavetta che lui non aveva. O non sapeva di avere. C’erano gli estremi per definirla una serata da dimenticare. Inoltre l’aggressore era ancora a piede libero, nascosto tra le ombre della metropoli. Priest fu scosso da un brivido. Riusciva a malapena a muovere il polso ustionato.

Ovviamente avrebbe dovuto chiamare la polizia. Ma non ne aveva la minima intenzione. Per otto anni della sua vita, prima di macchiarsi di quello che i suoi ex colleghi avevano ritenuto il più terribile dei tradimenti, Priest era stato un eccellente poliziotto. Come se la naturale sfiducia tra piedipiatti e azzeccagarbugli non fosse già un problema, i lauti guadagni di Priest come avvocato non avevano fatto altro che spargere sale sulla ferita.

Per fortuna non me ne frega nulla di cosa pensa di me la gente. Quella che non cerca di uccidermi, perlomeno.

Dubitava che sporgere denuncia sarebbe servito a qualcosa. Inoltre poteva contare su risorse molto più efficaci della polizia locale. Se doveva trovare qualcuno, ci avrebbe pensato da solo. Sempre che il mio mal di testa non me lo impedisca. Un po’ di tè bollente in una tazza senza muffa potrebbe essere un buon punto di partenza.

Qualcuno bussò ed entrò senza attendere risposta. Era un gigantesco uomo di colore, con un completo lustro – ma senza cravatta – e una camicia verde di sartoria intonata al fazzoletto che sbucava dal taschino. Al polso gli sfavillava un Rolex.

La carriera di Vincent Okoro, associato della Priest & Co., era notevole quanto la sua figura. Iscritto all’albo nel 1995, l’avvocato di origini nigeriane era arrivato tardi nei tribunali, proprio come Priest. Dopo aver gestito per dieci anni una società di pubbliche relazioni, aveva accettato un posto al tribunale di Lincoln’s Inn. Lì aveva fatto il bello e il cattivo tempo, specializzandosi in cause commerciali complesse. Si diceva che fosse uno stratega geniale, imbattibile nei controinterrogatori.

Okoro chiuse la porta dietro di sé e prese posto sulla sedia davanti a Priest, che scricchiolò sotto il suo peso. Non era grasso, bensì una montagna di muscoli. Una montagna dall’aria tetra, quella mattina. «Sono stato ore al telefono con Monroe.» La sua voce era sontuosa come il suo abbigliamento mentre parlava con un caldo e preciso accento nigeriano.

«Chi?»

«Il direttore della banca.»

«Ah, certo.»

«Vogliono un’altra previsione di bilancio.»

«Cosa c’era che non andava nell’ultima che avevo fatto?»

«Non l’hai fatta. In realtà, da quando ti conosco, non ne hai mai fatta una.»

«Quindi non ne vogliono un’altra . Ne vogliono una

Okoro sorrise e annuì paziente, come se stesse ascoltando una melodia rilassante. «Hai una cera bruttissima.»

«Ho passato una nottataccia.»

L’altro sollevò un sopracciglio. «Una nottataccia in settimana. Cavoli, come ti sei ridotto.»

«È già mezzogiorno?» Si guardò il polso, ma vide solo le brutte ustioni.

«Cosa?»

Priest frugò nell’ultimo cassetto e tirò fuori una bottiglia di whisky di malto. Non sapeva com’era finita nella scrivania – il regalo di un cliente soddisfatto, forse –, ma era felice di essersene ricordato. Riempì due bicchieri e ne spinse uno verso Okoro. Scolò il proprio e se ne versò un altro, che fece la stessa fine, e se ne versò un terzo. Quando ebbe buttato giù anche quello, guardò Okoro in attesa.

Il collega studiò il bicchiere con sospetto. «È una nuova politica aziendale? Sbronzarsi prima di mezzogiorno?»

Priest prosciugò il quarto bicchiere. Con l’alcol non aveva un rapporto quotidiano, anzi, non era nemmeno un bevitore occasionale. Molto probabilmente una tredicenne avrebbe retto meglio di lui, ma in quel momento aveva spigoli da smussare.

«C’è qualcosa che non va?»

Lui scosse la testa, ma la mano rimase sulla bottiglia.

«Cos’è successo ieri sera?»

«Niente di che. Una serata come tutte le altre. Ho visto qualche replica del Santo , mangiato pollo fritto da asporto, dato da mangiare ai pesci, suonato un po’ il piano. Poi all’improvviso un tizio mi ha legato alla sedia e mi ha puntato un trapano in faccia.»

Mentre Priest si tastava la nuca nel punto in cui l’aveva colpito il manganello, calò il silenzio. I due bernoccoli erano grandi come palline da golf, ma il cranio pareva miracolosamente intatto.

«Tu non suoni il piano.»

«Ti sembra un particolare rilevante?»

«Vuoi raccontarmi come è andata o preferisci continuare a delirare? La settimana prossima ho un processo.»

Priest sospirò e bevve un altro sorso. Il liquore ambrato gli bruciò la gola e generò un pensiero: Odio il whisky. Scrollatosi il disgusto di dosso, fece un resoconto della notte precedente, scena dopo scena, attento a non omettere dettagli. Quando finì, seguì un altro silenzio.

Okoro sospirò. «E tu questo tizio proprio non lo conoscevi?»

«No.»

«Mai visto in vita tua?»

Priest scosse la testa.

«E non hai idea di cosa stesse cercando?»

Priest percepì il suo scetticismo. «Una chiavetta.»

«Con dentro cosa?»

«Non lo so.»

Okoro si accarezzò la pelata. «Va bene. Perché pensava che ce l’avessi tu?»

«Qualcuno glielo ha detto, ma non ha specificato chi.»

Okoro annuì lentamente. La sua grande occasione era arrivata nel 2003, quando gli avevano proposto di diventare viceprocuratore della Corte Penale Internazionale: un tribunale sovranazionale appena fondato, concepito per processare i colpevoli di genocidi o altri crimini contro l’umanità che le giurisdizioni statali non avevano il diritto o il coraggio di giudicare. Okoro aveva fatto parte di una ristretta cerchia di avvocati il cui compito era far rispettare la legge in ambiti che ne erano del tutto privi, a individui che trattavano i propri simili con il massimo disprezzo. Non era la prima volta che si trovava faccia a faccia con la crudeltà. «E tu stai bene?»

«Riesco a malapena a muovere il braccio e mi sento come se il mio lobo frontale fosse un circo. Mi bruciano gli occhi. Stamattina mi è uscito per due volte sangue dal naso. Sento sapori strani quando mangio.»

«Ma stai bene?»

Priest lo guardò per qualche secondo. Dietro il mezzo sorriso vide sincera preoccupazione negli occhi del collega, che manteneva un’espressione calma e lo sguardo fermo. Priest trovava sempre rilassante passare del tempo con quel gigante gentile, e mai come quel giorno era felice di usufruire della sua saggezza. «Sì, sto bene. Mi dà abbastanza fastidio il fatto di essermi lasciato prendere alla sprovvista. È riuscito a fregarmi raccontandomi due cazzate. Anche se la divisa falsa era fatta bene, devo ammetterlo. Chissà dove l’avrà presa.»

«Se conosci le persone giuste, Priest, puoi trovare di tutto. Lo sai anche tu. Ma questo significa che non è un cane sciolto. Forse dovresti riconsiderare la decisione di non chiamare la polizia.»

«Come facevi a saperlo?»

«Conosco il grande Charlie Priest meglio di quanto lui conosca se stesso.»

«Mmm.» Ma non aveva intenzione di cambiare idea.

Sul computer comparve la notifica di una nuova mail. Per fortuna non era una settimana molto impegnativa. La Priest & Co. lavorava soltanto per un ristretto gruppo di clienti remunerativi: multinazionali che volevano estirpare la corruzione tra i quadri di comando, start-up il cui direttore intascava bustarelle, brand che volevano accusare gli avversari di pratiche illegali, appalti in nero, creazione di monopolio. Ogni tanto qualche parlamentare disonesto.

Il loro punto di forza era l’efficienza. Mantenevano ogni promessa che facevano al cliente, e senza un giorno di ritardo. Il segreto per avere sempre successo era molto semplice: vagliare con attenzione le offerte da accettare, non lavorare contemporaneamente a più di due casi e stanziare le risorse in modo efficace. Perciò Priest accettava solo cause che era certo di saper gestire e vincere.

In un certo senso, aveva avuto fortuna. La visita del falso poliziotto era avvenuta durante la bonaccia tra la fine di un processo importante e l’inizio del successivo. L’ultimo respiro prima del tuffo dal trampolino. Il loro ultimo successo era la Theramere International Plc, una società quotata tra le prime cento nel ranking FTSE che vendeva cofanetti regalo: biglietti per corse automobilistiche, viaggi in mongolfiera, cene in ristoranti stellati. L’azienda era cresciuta e mutata talmente in fretta che i fondatori avevano affidato il timone a un amministratore delegato strappato a una compagnia rivale, che però guadagnava più di quanto lo pagassero. Dopo tre settimane di udienza, la Priest & Co. aveva dimostrato che in realtà l’amministratore aveva esteso la propria influenza su altre tre ditte che offrivano servizi analoghi in Marocco, Germania e Olanda e le aveva messe l’una contro l’altra per arricchire se stesso. La sentenza lo costrinse a restituire alla Theramere i propri introiti segreti, e avrebbe impiegato tutta la vita a estinguere quel debito.

Okoro cambiò posizione, e la sedia gemette di nuovo sotto il suo peso. «Quindi questo tizio spende una barca di soldi e spreca un bel po’ di tempo per riprendersi qualcosa da casa tua – dei file non meglio specificati – e non trova nemmeno quello che cerca...» rifletté ad alta voce.

«Esatto. Perciò una volta o l’altra ci riproverà.»

«Devi stare attento.»

«Dobbiamo stare attenti.»

«Perché dobbiamo

«Sapeva un sacco di cose su di me, Okoro. È probabile che conosca anche te.»

Lui ridacchiò. «Sono in grado di guardarmi le spalle. Sei tu che mi preoccupi, invece. Hai intenzione di raccontare agli altri quello che è successo?»

Priest lasciò che la domanda aleggiasse nella stanza. Con «gli altri» Okoro intendeva gli altri due associati della Priest & Co.: Simon Solomon, detto Solly, e Georgie Someday. Priest aveva già deciso di dire a Georgie la verità. A venticinque anni, era la più giovane dell’ufficio, ma compensava la differenza anagrafica con una straordinaria agilità mentale. Forse Priest non si era mai imbattuto in un’intelligenza giuridica tanto spiccata.

Invece Solly, il commercialista, era un altro paio di maniche. Asociale, funestato da un’inettitudine dialogica prossima all’autismo, Solly era un mago dei numeri e – come amava far notare nei momenti di maggiore lucidità – «le persone non sono numeri, Priest». Per fortuna: Solly era in grado di notare una discrepanza di una sterlina in otto conti bancari in quattro diversi regimi fiscali, spalmati in una revisione dei conti lunga seicento pagine.

Se le persone fossero numeri, Simon Solomon sarebbe stato il più grande psicologo della storia dell’umanità. Ma non era così, e Priest preferiva non affliggerlo con storie su pazzoidi armati di trapano. «Magari lo accennerò a Georgie. Poi penseremo a Solly.»

«Glielo accennerai? Come se fosse una ricetta per la torta al limone?»

Lui scrollò le spalle.

Okoro si alzò, e fu come se un fronte di nuvole si fosse addensato nell’ufficio. «Comincerò a fare qualche ricerca. Nel frattempo, se hai bisogno di un posto dove stare...»

«No, grazie. Me la cavo da solo. E poi tua moglie mi odia.»

«Mia moglie odia il fatto che sei asociale, maleducato a tavola e presuntuoso. Ma non ha nulla contro di te come persona.»

«Comunque è una bella lista.»

«Sì, e la condivido in pieno. Guardati le spalle.» Okoro uscì.

Priest si voltò verso la finestra dietro la scrivania e fissò l’entrata del Piccolo Café. Rimuginava su una possibile vacanza. Un posto caldo ma non torrido. Spiaggia dorata, oceano cristallino. Cocktail serviti da cameriere discinte. Magari, una volta che si fosse assicurato che il visitatore notturno non si rifacesse vivo per un’altra sessione di trapanamento, sarebbe passato in un’agenzia di viaggi a sfogliare brochure. Ecco a cosa serve flirtare con la morte. A ricordarti le gioie che non hai mai vissuto.

L’alcol gli fasciava la testa. Non si sentiva tanto confuso dal periodo del divorzio. Ormai Dee Auckland sembrava appartenere a una vita precedente, ma avevano preso la decisione giusta. Soprattutto perché lui era un sociopatico e lei una stronza lunatica.

Non faceva freddo, eppure rabbrividì.

Dal cassetto ingombro di fogli in cui aveva trovato la bottiglia estrasse una fotografia ingiallita, con gli angoli strappati e una piega al centro. Pensò che avrebbe dovuto tenerla meglio. Eccoli, i tre Priest: William, lui e Sarah. Quanto potenziale, in quei volti pieni di meraviglia innocente. Ma tutto era andato a rotoli quando William si era dichiarato colpevole dell’accusa di omicidio plurimo e l’indomani i giornali avevano strillato: Il nuovo Jack lo Squartatore fratello di un veterano della polizia.

Da quel momento uno stuolo di domande gli aveva invaso la testa. Come aveva fatto William, con il suo dottorato in psicologia, a trasformarsi in un assassino a sangue freddo? Con quali stratagemmi era riuscito a sfuggire per tanto tempo alla giustizia? Perché aveva ucciso? Perché le diagnosi psichiatriche si erano rivelate tutte sbagliate? Cosa lo faceva sprofondare nella follia?

Oppure era una tara genetica?

Priest si guardò il polso ustionato; una macchia nera purulenta aveva cominciato a gonfiarsi e gli mandava fitte lungo il braccio ogni volta che muoveva la mano. Sottopelle, un ricamo di vene trasportava il sangue... lo stesso sangue di...

Bussarono alla porta. Priest rimise la fotografia nel cassetto.

Okoro rifece capolino. «C’è uno che vuole vederti.»

«Chi?»

«Non saprei. Però il suo distintivo non mi piace.»