29
Seduta alla scrivania di casa, Georgie annusò il piatto pronto che aveva appena riscaldato. Crema di asparagi. Così almeno recitava la confezione. In ufficio aveva passato la giornata a compilare pratiche e a riordinare le carte di alcuni casi recenti. Non era un lavoro urgente, ma aveva bisogno di fare qualcosa che non fosse una ricerca su despoti del Quattrocento. Scusami, Vlad, ma per il momento mi hai stufato.
Era stata un’altra giornata punteggiata da strane rivelazioni. Mentre mescolava il terzo caffellatte del mattino, Charlie l’aveva chiamata da Cambridge, tra tutti i posti possibili. Era in compagnia di Jessica Ellinder, e l’idea di quei due assieme la metteva un po’ a disagio. Anche se, ovviamente, non sono affari miei. Comunque dubitava che Jessica fosse il suo tipo. Non avevano trovato Hayley, però avevano individuato un possibile legame tra la sua scomparsa e la morte di Miles. Qualcuno le aveva spedito per posta un’efemera, lo stesso insetto che – stando a McEwen – avevano rinvenuto nella gola di Miles.
«Pensi che sia una specie di biglietto da visita dell’assassino?» aveva chiesto Georgie, mascherando il più possibile l’emozione.
«Non è affatto escluso. Ora, per favore, potresti metterti d’impegno e fare almeno finta di essere preoccupata?»
Ma Georgie era davvero preoccupata. C’era una ragazza nei guai. Alla polizia, e soprattutto a McEwen, sembrava che non importasse. Un uomo era morto in modo orribile. E Charlie Priest, insieme a Jessica, stava andando alla villa fuori Londra della famiglia Ellinder.
Georgie sperava che non restasse lì a dormire.
La sua stanza all’ultimo piano era la più piccola della casa, ma lei era l’inquilina con meno mobili. Come premio di consolazione, la sua finestra si affacciava sul Tamigi. D’estate poteva godersi il traffico fluviale: pescherecci coperti trasformati in traghetti per turisti, squadre di canottieri che solcavano l’acqua a velocità incredibile, chiatte gremite di rifiuti. A Georgie piaceva osservare la danza del sole sul fiume, il riflesso del cielo oscurato dal passaggio delle barche come una tela su cui cala il pennello del pittore.
Georgie era arrossita quando aveva preso nota delle parole di Priest. Aveva una nuova missione: parlare con Lady Wren e – sebbene Charlie non le avesse fornito una spiegazione – fotografare l’ufficio del defunto procuratore generale. Data la massiccia presenza della polizia nella villa dei Wren, l’impresa non sarebbe stata facile, tuttavia Priest le aveva promesso di chiamare Terri per avvertirla. Il peso di un compito tanto importante la faceva quasi rabbrividire. Era il suo momento.
Le serviva qualcosa in cui mettere le proprie carte, ma non aveva una borsa. Non conosceva una donna che ne fosse sprovvista. Le bastavano le tasche. Le borse andavano bene per le ragazze che volevano assomigliare alle altre, non per Georgie. Mira ne aveva un armadio pieno. Li doveva aver affittato apposta un magazzino per riporre la propria collezione. Avrebbe potuto chiederne una in prestito – a Li, di certo non a Mira –, ma in quel momento non aveva voglia di rivolgere la parola a nessuno dei suoi coinquilini.
Prese un bloc notes, una stilografica con una cartuccia di riserva, cinquanta sterline in contanti e il cellulare.
Nel corridoio vide che la porta di Martin era chiusa. In sottofondo si avvertiva il lieve rimbombo della musica. Anche se non sembrava proprio il genere di Martin... una specie di elettronica. Un ritmo veloce e ripetitivo. Forse l’aveva scelta Mira? Non gliene fregava niente.
«Georgie!»
Per un orribile attimo pensò che fosse Mira.
«Ho rotto il phon» disse invece Li, con tristezza ostentata.
«Il mio non funziona granché. Ma perlomeno non è ancora nella scatola.»
«Posso prenderlo? Scusami, con tutta la roba che mi presti, magari dovrei pagarti l’affitto.»
«È nel cassetto del comodino» disse Georgie, lanciandole la chiave.
«Grazie!»
«Dopo ricordami di riprendere la chiave. Stasera sei a casa?»
«Forse viene uno, ma non preoccuparti, basta che bussi prima di entrare. Tu stai fuori tutta la sera? Hai un appuntamento?»
«Ti sembro una che va a un appuntamento con il blocco per gli appunti?»
«Assolutamente.»
«Mmm. In effetti potrebbe essere una buona idea. Ci vediamo dopo.» Georgie la salutò con una mano senza darle il tempo di rispondere e corse giù per le scale fino alla porta.
Fuori, il Tamigi sembrava più scuro e ostile del solito.
Li guardò Georgie scomparire lungo le scale e attese finché sentì lo scatto della porta.
Non è normale, come cammina . Per la prima volta Li ipotizzò che Georgie non sapesse camminare. È davvero insicura. Anche se, in realtà, non aveva nessuna ragione per esserlo. Se solo la smettesse di vestirsi come una missionaria, sarebbe davvero carina. Di sicuro poteva trovare di meglio di quel cretino di Martin. Il motivo per cui Georgie si era invaghita di lui restava un mistero, per Li, anche se sospettava che la questione fosse più intricata di quanto appariva.
Erano passati due anni da quando Martin aveva tentato di metterle la lingua in gola e lei gliel’aveva quasi mozzata a morsi. Non ci aveva più provato. Da tempo ormai era venuta a patti con la confusione, avendo padre inglese e madre giapponese. Era costretta a vivere tra due culture, nessuna delle quali sentiva come propria. Se avesse voluto, sarebbe potuta diventare come Georgie: ambiziosa, lavoratrice, intelligente. Avrebbe potuto farsi assumere in qualche studio come praticante e ottenere un posto da associata intorno ai trent’anni: nel frattempo i genitori le avrebbero dato una mano. Invece aveva deciso di fare la escort.
Aveva incontrato la signora White a Oxford, all’ultima festa prima della laurea e del ritorno a Londra. A pensarci bene, forse era la stessa sera in cui aveva mandato Martin in infermeria con la bocca insanguinata. La signora White era una donna straordinaria. Aveva quasi sessant’anni e gambe che molte modelle le avrebbero invidiato. Indossava uno stupendo vestito bianco di Jovani che si stagliava in perfetto contrasto sulla sua pelle liscia color mogano. Li ricordava la scena con precisione.
«Ah, però» aveva detto la signora White mentre il barista spingeva il cocktail verso Li. «Non si vedono tutti i giorni ragazze vestite con tanto gusto.»
«Grazie.»
«Raccontami un po’, cara: studi ancora o sei una giovanissima professoressa?»
La signora White era abituata a ottenere ciò che voleva. E in quel momento voleva Li. Dal canto suo, Li aveva scoperto di essere il tipo di ragazza che per cinquecento sterline non aveva problemi a farsi venire sul seno un dirigente di mezza età. E, date le cifre che percepiva, non era costretta a lavorare tutte le sere, e nemmeno tutte le settimane. Bastava essere disponibile ogni volta che la signora White le telefonava per annunciarle un cliente («Un nonnetto davvero adorabile. Ha sessantadue anni, probabilmente non gli si alza nemmeno, ma se ti lasci masturbare pagherà il doppio»).
«Sei sempre stata una delle mie preferite» le aveva detto una volta la signora White con un sorriso. «Sono il tuo aspetto orientale e le lentiggini. Li fai impazzire, quei poveracci. Se potessi fartene tre contemporaneamente e fossi in grado di trattenere il respiro per un’ora, non avrei bisogno di nessun’altra.»
Risalendo le scale verso camera di Georgie, Li sorrise a sua volta. Non si aspettava che le lasciasse la chiave. Chissà dove deve andare così di fretta stasera... Magari se la faceva davvero con quel figo del suo capo. L’altra sera, quando l’aveva visto al bar, Li si era accorta di come all’improvviso era arrossita... e in fondo cosa c’era di male? Era un gran bell’uomo e, stando alla tonicità delle braccia, doveva passare molto tempo in palestra.
«Sono contenta per lei» disse ad alta voce, girando la chiave nella serratura.
La stanza sapeva di Georgie. Non era un odore sgradevole, però era umano. Non come la camera di Li, o quella di Mira, che profumavano come saloni di bellezza. In un angolo c’era un portatile, ma non aveva intenzione di ficcanasare. Le serviva soltanto il phon. Però se la sarebbe presa con comodo, senza fretta.
C’erano quattro scaffali di libri. Riconobbe molti dei manuali universitari su cui aveva studiato. Alcuni erano suoi: li aveva regalati a Georgie quando aveva deciso di cambiare carriera. I volumi trattavano gli argomenti più disparati e non lasciavano dedurre alcuna specializzazione. Per l’ennesima volta, pensò che Georgie era l’unica persona più sveglia di lei che avesse mai conosciuto.
Non vide nessun altare a Martin. Peccato. Non che godesse della sofferenza delle persone, ma sperava almeno in una ciocca di capelli, qualche pezzo di unghia, magari un calzino spaiato. Quindi anche la morbosità di Georgie aveva un limite.
Sulla scrivania erano accatastate alcune buste. Tre lettere: due dovevano sicuramente essere circolari, l’altra invece...
Prendi il phon e vattene, Li. Ma stava già tastando le pieghe della busta. Non sarà mica una fattura della Avon? Compra prodotti Avon? Assurdo! Quanti anni ha, cinquanta?
Ma non era finita. Vide una busta priva di affrancatura con nome e indirizzo di Georgie in inchiostro sbiadito. Curiosa, la prese tra le mani. Conteneva qualcosa, una specie di rigonfiamento. Un lato del bordo sigillato sporgeva, la banda adesiva non aveva retto. Scosse la busta e un’altra porzione di carta si scollò.
Qualcosa cadde sul tavolo.
Li fece una smorfia. Si guardò bene dal toccarlo. Disgustata, lasciò cadere la busta. Perché qualcuno avrà deciso di spedire a Georgie un insetto morto?