48
Priest si guardò allo specchio. Sotto gli occhi scoprì rughe che non sapeva di avere e, anche se non ricordava come se la fosse procurata, una nuova cicatrice sul mento. Si osservò le mani. Quando premeva la pelle tra le dita, sentiva delle piccole fitte. Ma, per quanto forte schiacciasse, non riusciva a provare davvero dolore. Mentre era in bagno gli uscì sangue dal naso e quasi non se ne accorse. Piccolezze simili non contavano nulla, nella grottesca parodia della realtà in cui era confinato.
Gli vibrò il telefono. Era un messaggio da Li, l’amica di Georgie. Ci sono novità? Cosa sta facendo?
Cosa stava facendo? Sistemava i polsini, si abbottonava la camicia, sceglieva la giacca da abbinare? Non aveva scelta. Era in ballo e doveva ballare. In camera prese la Glock e la ispezionò. Era più pesante di quanto ricordasse, parte delle superfici erano consunte dall’uso, il metallo aveva perso lucentezza. Una minuscola porzione del suo cervello anestetizzato registrò il pericolo: si era puntato la canna sul viso e le dita danzavano sul grilletto. Si era già trovato nella stessa situazione, anche se erano passati anni. Quando il giudice aveva stabilito l’infermità mentale di William. Dopo il divorzio, con la carriera rovinata e dopo la morte improvvisa dei genitori, si era messo a bere e sua sorella aveva cominciato a odiarlo. Per molto tempo, prima di dormire, sentiva le urla delle persone trucidate dal fratello.
Priest pensò a tutte le persone che aveva deluso.
Non posso permettermi di generare altra infelicità.
Aveva offerto a Ruck la possibilità di espiare. Ma chissà se qualcun altro l’avrebbe mai concessa a lui.
Gettò la pistola sul letto.
Sulla porta, tornò indietro e rovesciò un’intera confezione di mangime nell’acquario. Se non fosse mai tornato, chissà quanto sarebbe passato prima che Sarah si ricordasse di dar da mangiare ai pesci.
In piedi accanto alla Range Rover, Jessica lo guardò attraversare il parcheggio sotterraneo. Anche lei aveva fatto tappa a casa per una doccia e un cambio d’abito.
La fissò dritto negli occhi e le fece il baciamano.
Lei ricambiò lo sguardo con pari intensità. «Credi che basterà suonare il campanello e chiedere scusa per esserci imbucati?»
«Non siamo imbucati.»
«Andiamo in veste di colonnello Ruck e signora?» Sembrava scettica. «Peccato che lui abbia centotré anni.»
«Non l’hanno mai visto, non sapranno nemmeno che faccia ha. Intanto pensiamo a entrare, poi improvviseremo.»
«Ma come fai a essere sicuro che Georgie e Hayley siano lì?»
«Non ne sono sicuro... ma Cappuccio mi ha detto che Hayley era nella loro residenza speciale . L’indirizzo sul biglietto è quello di una villa in mezzo al nulla. Se è lì che hanno portato Hayley, allora dev’esserci anche Georgie.»
«Bene. Andiamo con la mia.»
Priest lanciò un’occhiata alla Volvo. «Perché?»
«Dubito che la tua macchina si confonderebbe con le altre.»
Priest premette il pulsante d’apertura sulla sua chiave.
Jessica si voltò di scatto. Ad aprirsi non era stata la Volvo, ma un’altra automobile, nascosta nell’angolo più buio del parcheggio. «Hai una Aston Martin Rapide S? 550 cavalli, da zero a cento in quattro secondi netti?»
Priest annuì, anche se non avrebbe saputo dire se i dati erano corretti.
«Ma, scusa, se possiedi una delle macchina più lussuose del mondo, perché ti ostini a guidare quella Volvo decrepita?»
Priest alzò le spalle. «Il baule è più capiente.»
Dalla strada la villa non era visibile, ma dietro gli alberi si intravedeva un tenue bagliore. La notte inghiottiva il resto del paesaggio.
Priest scalò le marce fino a procedere a passo d’uomo. I fari illuminarono i due giganteschi battenti in ferro battuto del cancello. Quando si avvicinarono, tre sagome emersero dall’oscurità.
«Hai portato la chiavetta?» chiese Jessica.
Priest batté sulla tasca interna della giacca. «È la nostra unica merce di scambio.» Si fermò a qualche metro dal cancello e attese che la prima delle tre figure raggiungesse la macchina. Abbassò il finestrino e una grossa testa rasata, circondata da una nube di tabacco, si chinò.
«La posso aiutare?»
«Ruck» disse Priest.
«Benvenuto, signor Ruck. Siamo felici di vederla. Se potesse essere così gentile da darmi le chiavi, penserò io al parcheggio. I miei amici la accompagneranno all’ingresso.»
Jessica lanciò a Priest uno sguardo nervoso. Affidare le chiavi al parcheggiatore implicava l’impossibilità di una fuga rapida.
Lo skinhead aveva captato la loro esitazione. «Signore, le assicuro che la macchina sarà in buone mani.»
Priest fece un cenno a Jessica, che uscì. La seguì e porse le chiavi al comitato di accoglienza. Poi diede un’ultima occhiata alla Aston. Forse era davvero un addio.
«Signori, da questa parte.»
Lo skinhead lanciò le chiavi a uno dei colleghi, superò il cancello e li fece salire su un golf cart. La vettura cominciò a zigzagare tra gli alberi.
Non c’era molto da vedere. Ogni tanto un lampione illuminava una quercia, ma niente lasciava intuire l’orrore in agguato dietro tutto quel verde. Oltrepassarono un’ampia torre di guardia e arrivarono davanti a un complesso di stalle che occupava un cortile di ghiaia grande quanto un campo da calcio. Non si poteva negarlo: il parco era enorme.
L’auto elettrica rallentò, varcò un altro cancello e si fermò in un altro cortile di ghiaia. Quando smontarono Priest strinse brevemente la mano di Jessica. Lei gli fece un sorriso tirato. Lui cercò di concentrarsi sul suo volto, ma scoprì con orrore di fare già fatica. Mentre cercava di rimanere aggrappato alla realtà, si vide scendere dalla macchina e procedere verso l’ingresso di un’enorme villa barocca. Erano finalmente arrivati alla Casa dell’Ephemera.
Il riscaldamento era acceso, ma fornì un sollievo brevissimo. Un’angoscia totale si era impadronita di Priest. Mani e dita gli sembravano quelle di un estraneo. Incapace di rimanere a galla, sprofondava. Cristo, non adesso.
«I signori Ruck» annunciò lo skinhead.
Priest lo sentì come in sordina, come se fosse lontano, lontanissimo da lui...
Un uomo dinoccolato in un completo impeccabile porse la mano prima a lui e poi a Jessica.
Quando la strinse, Priest si accorse di aver perso il senso del tatto. Qui e ora , cercò di intimare a se stesso. Qui e ora.
«Benvenuto, signor Ruck. E anche a lei, signora Ruck. Benvenuti nella Casa dell’Ephemera. Posso prendere i vostri soprabiti?»
Confuso, Priest gli passò il cappotto. Incespicò indietro, poi sentì una mano sulla spalla che lo ancorava a terra. Un istante dopo, era tornato padrone della propria coscienza. Qui e ora.
Jessica si era tolta il cappotto e l’aveva dato al maggiordomo. Sotto indossava una vestito lungo blu che le scendeva fino ai piedi, aprendosi come il delta di un fiume. La stoffa aderiva sinuosamente alle cosce e alla vita. Il collo bianco era impreziosito da una semplice catena d’oro con un’unica perla come pendente. Anche gli orecchini erano semplici perle. Non c’era un solo elemento appariscente o sopra le righe, e la sua bellezza discreta toglieva il fiato.
«Signore?» Il maggiordomo lo guardava in attesa, con una mano tesa.
Priest si accorse con sollievo di vederlo attraverso i propri occhi. Dalla tasca interna della giacca estrasse una busta che passò al maggiordomo, che la aprì, guardò dentro e con un sorriso meccanico la diede allo skinhead. Questi la aggiunse a una pila sul tavolo alle proprie spalle.
«Grazie» disse il maggiordomo. «Posso chiedervi se dopo la conferenza di stasera gradireste fare un salto alla spa?»
«C’è anche la spa?» chiese Jessica.
«Naturalmente. Abbiamo asciugamani in abbondanza, perciò, anche se non vi siete portati il necessario, non dovete rinunciare.»
«Grazie.»
«Devo inoltre annunciare un piccolo cambio di programma. Stavolta la cena si terrà dopo la conferenza.»
«Come mai?» chiese Priest.
Il maggiordomo sorrise. «Preferiamo che gli ospiti si godano la conferenza a stomaco vuoto.»
Jessica sfiorò la mano di Priest. La conferenza. Se Georgie e Hayley erano lì, non avrebbero perso tempo a cercarle. Almeno una delle due, o forse entrambe, avrebbe giocato un ruolo fondamentale.
«Gradite qualcosa da bere?»
«Volentieri.»
«Ottimo. Myers vi accompagnerà al bar.»
Un altro uomo in completo scuro avanzò e fece cenno di seguirlo. Avevano fatto pochi passi quando il maggiordomo li richiamò. «Signori Ruck! Non avete dimenticato qualcosa?»
Con i lineamenti irrigiditi dal terrore, Priest si fermò e si voltò. Nelle mani del maggiordomo vide due cappucci bianchi.
Con in testa il cappuccio troppo stretto, Priest sentì l’angoscia salire di nuovo alle stelle. Oltre a farlo sudare, la stoffa azzerava la sua visione periferica: le due sottili fessure per gli occhi gli permettevano di vedere quasi solo davanti. Perlomeno sono riuscito ad aggrapparmi al presente e a rimanere nel mio corpo.
Myers li condusse in un labirinto di corridoi pieni di mobilio e soprammobili. C’erano animali impagliati e le pareti erano coperte da enormi ritratti vittoriani di nobili arroganti e bambini vestiti da bambola. Nonostante l’innegabile fasto, più che una casa sembrava un set cinematografico.
Dopo l’ennesima svolta cominciarono a sentire una debole eco di voci. Priest immaginò persone intente a brindare, chiacchierare e bere passeggiando, come prima di uno spettacolo teatrale. Nel frattempo le due ragazze erano imprigionate in qualche stanzino buio, sole e terrorizzate. Strinse i pugni fino a farsi male. Quel posto lo disgustava.
Davanti a loro apparve un’ampia scalinata. Quando salirono i primi gradini, l’eco divenne più forte. In cima alla rampa, oltre una doppia porta di mogano, si vedeva un ampio salone con una cinquantina di persone in completo scuro, quasi tutti maschi. In un angolo si era raccolto un piccolo capannello di uomini dall’aria accademica, con giacche dalle toppe di cuoio e jeans firmati che stonavano con l’eleganza generale. Delle poche donne, nessuna vantava la presenza scenica di Jessica. Nell’istante in cui aveva varcato la soglia, tutti gli sguardi si erano puntati su di lei; non potendo vederla in faccia, gli occhi si soffermavano su ogni centimetro del suo corpo.
«Lasciatemi annunciare il vostro ingresso» mormorò Myers.
«Non ce n’è bisogno.» Priest prese Jessica sottobraccio e si fece strada nella piccola folla. Il dado è tratto. «Vuoi bere qualcosa?»
«Dici che devo per forza?»
Priest toccò il bordo del cappuccio. C’era un lembo concepito apposta per far passare liquidi o cibo. «Hanno tutti il bicchiere in mano. Meglio non dare nell’occhio.»
Jessica annuì. Il bar occupava l’intera parete sulla destra, con quattro baristi dietro il bancone. C’era birra alla spina, un’ampia scelta di superalcolici e piatti di noccioline in un angolo. Quando lo raggiunsero compresero che, per quanto imponente, la sala fungeva soltanto da anticamera a un altro salone molto più vasto: in quel momento, di fatto, si trovavano nella galleria di un teatro. Posarono i gomiti sulla ringhiera e guardarono giù. Videro un palcoscenico con un tavolo. Un sipario bianco copriva lo sfondo.
«È lì che...» disse Jessica senza finire la frase.
«Sì. È lì che si terrà la conferenza .»
«La casa mi fa uno strano effetto. È una sensazione assurda, cioè, ancora più assurda della gente con il cappuccio e di tutta questa messinscena. È come se in un certo senso questo posto mi sembrasse familiare ...» Non concluse il pensiero. «E ora cosa facciamo?»
«Non lo so. Ma dobbiamo escogitare un modo per controllare il resto della casa. Le ragazze devono essere qui da qualche parte. Dobbiamo trovarle, e in fretta.»
«Prego» disse sorridendo un barista. Aveva baffi a manubrio da damerino vittoriano e nel complesso sembrava una comparsa cinematografica. Aveva persino uno straccio nella tasca posteriore. «Signora?»
«Un blue margarita.»
«Ottima scelta. E per lei, invece, signore?»
Priest esitò. Cosa cazzo sarà un blue margarita? «Un’acqua tonica, per favore.»
Il barista si mise all’opera fischiettando, indifferente alle atrocità che di lì a poco avrebbero avuto luogo sul palcoscenico.
Priest osservò la sala. L’unico ingresso era quello da cui erano entrati. Oltre la soglia si diramava un reticolo infinito di possibilità: la villa era gigantesca e labirintica. Andare alla ricerca di Georgie e Hayley a casaccio non sembrava una buona idea.
«Charlie.»
«Cosa?» Priest seguì lo sguardo di Jessica. Sul lato opposto della stanza, Myers, il loro cicerone, parlava fitto con due uomini in completo scuro con le fasce dorate. Li stavano fissando. Myers indicò Priest e Jessica, e gli altri due cominciarono ad avanzare verso di loro nella folla.
Priest bevve un sorso d’acqua tonica e si girò verso il bancone. Non voleva sembrare spaventato.
«Charlie? Cosa facciamo?»
«Tu bevi e sta’ tranquilla. Parlo io.» Perlomeno l’acqua tonica gli calmò il bruciore alla gola. Jessica lo prese di nuovo a braccetto. Stringendole per un attimo la mano, Priest sentì che aveva il palmo bollente; l’autocontrollo della donna cominciava a vacillare.
«Signor Ruck?»
«Sì?»
I due uomini presero posizione alla destra e alla sinistra di Priest. Lui si irrigidì e si sentì invadere dall’adrenalina. In caso di necessità, era pronto a battersi a mani nude. Non era arrivato fin lì per scappare con la coda tra le gambe, non con una simile posta in gioco. Georgie non meritava di morire in quel modo ed era stato lui a metterla in pericolo. L’aveva spinta in quella situazione ed era suo dovere salvarla. E non sarebbero stati due criminali incappucciati a fermarlo.
«La sua poltrona è pronta, signore.»
«La mia poltrona ?» ripeté Priest, cercando di non sembrare sorpreso.
«Abbiamo deciso di assegnarle il posto d’onore. Gradirebbe scendere con noi? Quanto a lei, signora Ruck, può godersi la conferenza dalla galleria.» L’uomo che aveva parlato indicò la porta.
Priest guardò Jessica. Lei alzò una mano in segno di assenso.
Priest stava per seguire i due incappucciati, ma Jessica lo fermò mettendogli la mano sulla spalla e si chinò a baciarlo sulla guancia coperta dalla stoffa.