2
6 aprile 1945
Campo di concentramento di Buchenwald, Germania
Il capitano Ainsworth era fuori dal cancello principale, la sigaretta penzolante tra le labbra. Da circa un’ora aveva smesso di piovere e qualche raggio di sole iniziava a bucare la coltre di nubi.
L’89a divisione fanteria era arrivata da due giorni. Era pronta a dare battaglia, ma invece aveva trovato il campo in mano ai prigionieri. Notizie dell’avanzata angloamericana avevano raggiunto il lager quasi una settimana prima e i tedeschi si erano lanciati in una ritirata frettolosa. Dopo la disgregazione dei quadri di comando e il suicidio o la fuga di quasi tutti i secondini, un manipolo di detenuti si era impadronito delle torri di guardia. Alcuni coraggiosi, in gran parte comunisti, per anni avevano tenuto nascoste delle armi che a quel punto, finalmente, erano tornate utili. Avevano perfino avuto la forza di non giustiziare gli aguzzini nazisti che li avevano sempre trattati come bestie, facendoli invece prigionieri.
I soldati di Ainsworth non erano preparati alla scena che si erano trovati davanti a Buchenwald. Naturalmente avevano sentito parlare dei campi di concentramento e perfino degli eccidi di massa nelle camere a gas. Un avvocato polacco di origine ebraica, Lemkin, aveva addirittura coniato un nuovo termine: genocidio. Ma le parole erano assorbite in fretta. Vedere un uomo sopravvivere all’inferno in Terra e venire travolto dal sollievo al punto da stramazzare morto ai piedi dei suoi liberatori non era uno spettacolo che Ainsworth era pronto a vedere.
Per primi avevano trovato i cechi. Stipati a migliaia in spazi progettati per poche centinaia di persone. Coperti solo di stracci. Congelati. Agonizzanti. I corpi raggrinziti dalla malnutrizione al punto da non sembrare nemmeno umani. Non morti dalla pelle giallastra che si strappava con la fragilità della carta, così tesa da poter contare facilmente le costole sottostanti.
Con le ultime energie rimaste, i prigionieri avevano accolto l’89a divisione in modo trionfale. Sebbene fossero a stento in grado di camminare, in qualche modo erano riusciti a sollevare a braccia alcuni soldati – non tutti pesi piuma – e a portarli in parata attorno al campo. Imbarazzati, ma decisi a non offenderli, gli inglesi avevano accettato, anche se alcuni detenuti erano poi collassati per lo sforzo.
Da quanto Ainsworth era riuscito a capire, erano di nazionalità mista. Molti erano cechi, ma c’erano anche polacchi, sovietici, francesi, croati. E donne: quasi tutte trasformate in schiave sessuali per i bordelli del lager. Con una certa soddisfazione, il capitano trovò dei commilitoni, aviatori americani abbattuti nella Francia occupata, e perfino qualche inglese. I documenti falsi che avrebbero dovuto aiutarli a evadere dal territorio nemico si erano rivelati controproducenti. Una volta arrestati, i tedeschi li avevano trattati come spie e imprigionati a Buchenwald insieme agli ebrei.
Ebrei. Un intero popolo che i nazisti avevano decretato «mangiatore a ufo».
Ainsworth sentì un educato colpo di tosse. Perso nei pensieri, non aveva sentito avvicinarsi il caporale Henderson.
Era un buon soldato, piuttosto sveglio per la fanteria, ma in quei giorni aveva un volto pallido e un’espressione nauseata, come d’altronde tutti gli altri. Gli passò dei fogli. «Primo turno, signore.»
Ainsworth li prese senza leggerli. Guardò l’orizzonte, oltre i cancelli divelti, verso la spianata dove si intravedeva il cartello strappato dal muro e rovesciato nel fango. Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Annuì, tetro. «Anche se non si riesce a fermare l’emorragia, bisogna provare almeno ad arginare il flusso.» Sentì una fitta allo stomaco: le pasticche di cloro con cui disinfettavano l’acqua gli causavano frequenti bruciori. «Non ha proprio senso, vero, Henderson?»
«Come, signore?»
«Da mesi ormai Hitler sapeva che gli equilibri della guerra erano cambiati. L’invasione della Russia è stata una disfatta. Aveva bisogno di materie prime, eppure, tra i convogli dell’esercito e i treni che trasportavano gli ebrei nei lager, ha dato la priorità ai secondi. Carri armati, soldati, armi, munizioni. Avrebbero potuto ribaltare la situazione. Non ha alcun senso.»
«C’è chi dice che stessero facendo dei sacrifici agli dei germanici, signore.»
«Lo pensi davvero, Henderson?»
Il caporale esitò. «Forse sì, signore.»
«Quando siamo arrivati, hai visto la Dora?»
«L’abbiamo vista tutti, signore.»
La Dora abbandonata dai tedeschi riposava immobile, ma l’89a divisione aveva oltrepassato l’enorme mitragliatrice su ferrovia con un certo disagio. Pesava 1.350 tonnellate e si spostava soltanto su doppia rotaia. Secondo i meccanici non era armata, ma la sua gittata doveva aggirarsi intorno ai quaranta chilometri.
«Pensi che un popolo in grado di produrre un’arma come quella creda di far risorgere gli dei con una serie di sacrifici umani?»
Il caporale non rispose. Il ruggito di un motore lo aveva fatto voltare. Una macchina si avvicinava sulla strada sterrata, sollevando polvere e fango.
Ainsworth guardò Henderson, che si girò e abbaiò ordini ai soldati nei paraggi. Loro si disposero a ventaglio attorno all’entrata, riparandosi dove possibile, i fucili spianati.
Ainsworth rimase immobile, senza cercare copertura, tenendo la rivoltella nella fondina sulla coscia. Era molto improbabile che fossero nazisti, tornati a recuperare chissà cosa, e che arrivassero in Rolls-Royce.
La macchina si fermò davanti a Ainsworth. Dove non era imbrattato di fango, il telaio scintillava di una pulizia impeccabile. Non era un’automobile civile. Ainsworth alzò una mano, facendo segno a Henderson e al resto dei soldati di abbassare i fucili.
Un uomo alto con i capelli biondi ondulati scese dal sedile posteriore. Si mise il cappello e sopra il gessato infilò un impermeabile, i cui lembi svolazzarono al vento. Per essere appena stato accompagnato da un autista in territorio nemico, sembrava piuttosto giovane. «Lei dev’essere il capitano Ainsworth, o sbaglio?»
Prima di porgergli la mano, Ainsworth inarcò un sopracciglio. Era inglese, ma cosa diavolo ci faceva lì? Il capitano registrò la fermezza della stretta. Dunque non è un giornalista né un politico. «Benvenuto a Buchenwald, signor...»
«Ruck. Colonnello Ruck.» Gli porse delle carte.
Ainsworth le lesse con attenzione. Quando ebbe finito, aveva un’espressione scettica. «Servizi segreti britannici?»
«Esatto. Intelligence militare, quinta sezione, a essere precisi.» Ruck fece un sorriso garbato. I baffetti a punta sembravano una seconda bocca. La voce era piacevole come le sue maniere.
«E che cosa posso fare per lei, colonnello Ruck?»
«Innanzitutto vorrei congratularmi con lei, capitano, per il successo dell’operazione.»
«Grazie. Magari qualche anno fa sarebbe anche potuto servire a qualcosa.»
«La prego, non sminuisca i suoi meriti. La sua sola presenza ha fatto fuggire i crucchi con la coda tra le gambe, o sbaglio? Una vittoria del tutto soddisfacente, secondo me.»
Ainsworth resistette alla tentazione di chiedergli di venire al dunque. Quell’uomo era un burocrate. Aveva imbracciato soltanto la penna. In un campo di battaglia non sarebbe mai sopravvissuto.
«Difficile definirla una vittoria, almeno per me. Perdoni la franchezza, colonnello Ruck, ma per quale motivo si trova qui?»
Ruck gli fece segno di riguardare le carte. «In fondo troverà una lettera che spiega tutto nei dettagli.»
Ainsworth vide la lettera e la esaminò. «Non ho mai sentito nominare queste persone» disse alla fine.
«Forse allora avrà la bontà di cercarle.»
Ainsworth si voltò verso Henderson, che rispose con un’espressione neutra. A siglare la lettera era stato l’ammiraglio di flotta Leahy, capo di stato maggiore di Roosevelt. Il sigillo sembrava autentico. E anche la firma aveva tutti i crismi. Per la prima volta il capitano guardò oltre Ruck, verso la Rolls-Royce con i due soldati americani ai lati del cofano scintillante, i galloni rossi sulle spalle. Erano Black Devils, truppe d’élite. Scortavano un ufficiale dei servizi segreti britannici con una lettera della massima autorità militare dopo il presidente, che ordinava di consegnare al colonnello alcuni individui, nel caso in cui fossero ancora vivi a Buchenwald.
Ainsworth esitò. Meglio prendere un po’ di tempo per schiarirmi le idee. «Non abbiamo ancora una lista completa dei prigionieri, signore. Ci potrebbero volere giorni per trovare queste persone.»
Ruck sorrise brusco. «Legga meglio, capitano. Stiamo cercando dei nazisti, non degli ebrei. Dei medici, per essere precisi.»
«Medici?» Ainsworth non riuscì a soffocare un risolino. «Qui non ci sono medici, colonnello. Questo posto non era pensato per prolungare l’esistenza umana. È un campo di sterminio, o meglio lo era. Decine di migliaia di persone stavano dietro queste mura, alloggiate peggio che in un pollaio. Chi non è morto è in fin di vita. Qui non ci sono medici.»
Ruck scrollò le spalle, poi estrasse un pacchetto di sigarette dal cappotto, ne prese una e la accese. Accanto alla macchina, uno dei soldati si mosse con impazienza. «Per caso ha trovato un ambulatorio?»
«Un ambulatorio? Non c’è assolutamente nulla del genere. Ho visto soltanto enormi camere a gas dove pigiavano centinaia di persone terrorizzate. Poi ordinavano agli altri di trasportare i cadaveri e di gettarli dentro immense fosse comuni. Ecco cosa ho trovato qui. Se si aspettava una sala d’attesa con un bell’acquario e una copia di Punch sul tavolino da caffè, be’, allora forse non si è proprio reso conto della situazione, colonnello.»
Ruck annusò l’aria e per un attimo Ainsworth pensò a un predatore che senta avvicinarsi la preda. «Oltre agli stanzoni, allora. Un locale più piccolo. Magari con degli strumenti. Seghe, bisturi, maschere. Cose di questo tipo.»
Ainsworth scosse la testa. «Solo morte e...»
«Signore?» lo interruppe Henderson, con un colpo di tosse nervosa.
Ruck e Ainsworth si girarono.
«E se fossero le Stanze Infernali?»