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Il furgoncino rallentò e Georgie riconobbe il rumore inconfondibile degli pneumatici sulla ghiaia. Si sedette e guardò l’orologio. Il tragitto era durato quasi un’ora e Georgie aveva passato gli ultimi venti minuti in uno stato di dormiveglia, raggomitolata in un angolo, sballottata dai periodici rimbalzi del veicolo sull’asfalto. Faceva così freddo che non si sentiva più le mani.

Sentì lo scatto del freno a mano, poi le portiere anteriori si aprirono. Scesero due persone. Trattenendo il fiato, Georgie cercò di calcolare le chance di buttarsi fuori e mettersi a correre. Dov’era? Sarebbe riuscita a seminarli? Forse erano armati. In tal caso, dopo al massimo dieci metri le avrebbero crivellato la schiena.

Provò a calmare il respiro. Era in iperventilazione, aveva la nausea e si sentiva invasa dall’adrenalina.

La portiera si spalancò. Due uomini robusti bloccavano il passaggio, le teste nascoste da cappucci simili a quelli del Ku Klux Klan, ma dalla sommità meno sporgente e dagli spiragli per gli occhi allungati invece che rotondi. Immobili, fissavano Georgie.

Un’ondata di paura le gelò i muscoli. Non aveva mai provato tanta paura. «Ch... Chi siete?»

Uno di loro le fece cenno di scendere. Georgie esitò: non sapeva se le gambe l’avrebbero retta. Dopo qualche istante, il tizio che le aveva indicato di uscire abbassò la mano e infilò un piede nel furgoncino.

«Va bene» balbettò Georgie, allargando le braccia. «Va bene, ora scendo.»

Fuori dall’abitacolo la temperatura era quasi identica, ma il vento gelido le trafisse la pelle come una lama. Mentre la spingevano sulla ghiaia vide che avevano parcheggiato vicino a una gigantesca villa barocca.

Man mano che si avvicinavano alla casa, Georgie notò una fila di macchine accostate a un’ala della costruzione. Porsche, Jaguar, Range Rover: una sfilata lussuosa di carrozzerie scintillanti. Raggiunsero una porta di servizio.

«Dove mi state portando?» chiese Georgie.

Per tutta risposta le spinsero qualcosa di appuntito contro la schiena per farla avanzare nell’ingresso buio.

Un tappeto rosso consunto occupava il centro del pavimento di pietra. C’erano una rampa di scale a sinistra e varie porte chiuse a destra. L’aria era pesante, ma Georgie era grata per il calore. C’era uno strano odore, come di muffa: forse era soltanto puzza di vecchio, forse di marcio.

La condussero verso una delle stanze che si aprivano sul corridoio, uno studio dalle pareti ingombre di libri rilegati in cuoio, con un divano verde e due scrivanie. La spinsero nel mezzo e Georgie rimase ferma e silenziosa, l’espressione determinata sebbene avesse il cuore in gola. Finché fosse riuscita a controllarsi, non avrebbe dato a nessuno la soddisfazione di vederla spaventata.

Si voltò e vide che gli uomini avevano preso posizione ai lati della porta a braccia incrociate, in perfetta simmetria. Georgie li fissava sconcertata. «Dove siamo? Che cos’è questo posto?»

Loro rimasero immobili. Sembravano statue di pietra.

Georgie sentiva il coraggio scemare. «Perché non parlate?»

«Li paghiamo apposta per tacere.»

Georgie si voltò di scatto, sorpresa dalla voce.

In un angolo, su una chaise longue, un uomo era stravaccato, con le gambe distese e un libro in mano.

«Lei chi è?» chiese Georgie, con un filo di voce.

L’uomo posò il volume su un tavolino lì accanto, aperto per non perdere il segno, poi si alzò e cominciò a stiracchiarsi. Era privo di cappuccio e Georgie poteva vederlo in volto. Le parve malato. Aveva più o meno l’età di Charlie, ma i lineamenti erano emaciati, scheletrici. I capelli, che sembravano bagnati, spuntavano dal cranio in ribelli ciocche scure.

A Georgie mancò il respiro. Si guardò intorno, ma l’unica via d’uscita era la porta sorvegliata dalle due guardie. Forse avrebbe potuto fare un ultimo, disperato tentativo, ma le sembrava di avere gli arti di piombo. Altro che fuggire in corridoio: probabilmente non sarebbe nemmeno riuscita ad arrivare alla soglia.

«Avrei un nome, ma saperlo non servirebbe a nulla.»

«Il mio è Georgie Someday, piacere» replicò lei, in tono velenoso. Non ti farò vedere che ho paura!

«Lo so. Grazie di essersi unita alla nostra combriccola, signorina Someday.»

Georgie provò a deglutire, ma aveva la bocca così secca che rischiò di vomitare. «Non che mi abbiate lasciato molta scelta.»

L’uomo sorrise al pavimento tra le gambe di Georgie. «No, temo proprio di no. Chiedo scusa se l’abbiamo dovuta sedare, anche se per poco, e per la sgradevolezza del tragitto. Nonché per averle arrecato tanto disturbo.»

«Per avermi arrecato tanto disturbo?»

Sempre sorridendo, l’uomo alzò le braccia. «Naturalmente ci rendiamo conto di quanto lei debba essere terrorizzata, tuttavia non c’è necessità di adoperare parole forti. Dunque perché non chiamarlo semplicemente disturbo ?» Avanzò finché non fu a circa un metro da lei. Non era alto né robusto, ma era comunque più grosso di lei.

Georgie avrebbe voluto indietreggiare, ma una strana forza la inchiodava al pavimento. Quindi si limitò a fissarlo senza sbattere le palpebre. «Che cosa succede?»

«Stiamo riscrivendo la Storia, signorina Someday. Festeggiamo la rinascita di una tradizione antichissima. E lei avrà l’onore di giocare un ruolo fondamentale.»

«Perché io?»

Lui scrollò le spalle. «Diciamo per un’intuizione.»

«Quale?»

«Lei sembra una di quelle persone che per tutta la vita cercano di non farsi notare, ma che loro malgrado spiccano ovunque vadano... E poi mi auguro che la sua presenza aumenti le probabilità di far comparire anche un nostro comune amico.»

Lei lo guardò con tutto l’odio che riuscì a racimolare. In tutta la sua vita, soltanto un’altra volta si era servita di un simile sguardo. Poi comprese. «Charlie! Quindi mi state usando come esca?»

L’uomo fece un sorriso orrendo. Georgie gli sentiva il fiato, che puzzava di alcol e tabacco. Quando le carezzò una guancia, il suo cuore saltò un battito e per poco lei non cadde. Provava un irresistibile desiderio di scappare.

«Come se la cava a urlare, Georgie?» le sussurrò dolcemente nell’orecchio. «Spero bene. Perché sta per arrivare un bel po’ di gente che ha pagato profumatamente per sentirla urlare.»