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Era uscito di casa alle ventitré, con indosso abiti scuri e un cappellino nero con visiera, calzato in modo da celare la testa calva e il volto.

Doveva trovare la ragazza.

Non avendo un accesso a internet, non c’era modo di sapere se sulla cronaca locale ci fosse qualche riferimento all’incidente di quella mattina. Perciò non sapeva nemmeno in quale ospedale l’avessero portata. L’unica possibilità era controllarli tutti. Era già stato a Menaggio, che era quello più vicino al luogo dell’annegamento, e anche al Valduce, senza esito. Verso l’una meno dieci del mattino, salì su un autobus vuoto per raggiungere il Sant’Anna. Davanti al nosocomio c’era una fermata ma, per prudenza, scese a quella successiva e tornò indietro a piedi.

All’ingresso dell’ospedale era radunato un piccolo drappello di fotografi e cameramen. Bivaccavano in attesa di qualcuno. Doveva essere accaduto qualcosa, si disse. La loro presenza lo rendeva inquieto, ma forse era anche il segno che finalmente fosse nel posto giusto.

Evitò l’entrata principale perché sul lato est dell’edificio c’era un accesso secondario per i camion che venivano a prelevare i rifiuti speciali. Imboccò il varco di sicurezza riservato al personale, mostrando il tesserino dell’azienda municipalizzata alla guardia notturna rintanata nel gabbiotto che, senza bisogno di altri controlli, azionò il tornello meccanico e lo lasciò passare.

Era stato altre volte lì, anche di notte. Per lavoro o per rubare farmaci e materiale medico, come il filo collageno che adesso gli suturava la ferita alla mano. Entrò da uno dei magazzini e si diresse allo spogliatoio degli addetti alla sanificazione. Il locale era deserto. Scelse un armadietto a caso, estrasse dalla tasca un cacciavite e ne forzò il lucchetto. Scambiò i propri abiti con la divisa azzurra di un inserviente. Indossò i copriscarpe e anche una cuffietta di plastica, sistemandosi gli elastici sulle orecchie in modo da occultare le cicatrici. Richiuse lo sportello. Recuperò da uno sgabuzzino un macchinario per le pulizie dei pavimenti e prese uno degli ascensori per le barelle.

Confidava nel fatto che di notte in ospedale ci fosse meno movimento. Ma non aveva molto tempo per trovare la ragazza.

Concentrò la ricerca al reparto di terapia intensiva e rianimazione.

L’ambiente era sterile e gli addetti all’unità portavano mascherine chirurgiche. Giunto al piano, li imitò, così avrebbe anche evitato che qualcuno lo vedesse in faccia.

Accese la macchina lavapavimenti. Le spazzole rotanti producevano un basso ronzio che, a sua volta, andò subito a mescolarsi alla perfezione con la percussione cadenzata dei respiratori e il battito cristallino dei monitor cardiaci.

Mentre puliva per terra, passò in rassegna le stanze. Alcune accoglievano fino a quattro pazienti, per lo più maschi e anziani. Sembravano sul punto di volare via, come palloncini. Guardandoli bene, si poteva intravedere il filo sottile che li legava ancora a questo mondo.

Tuttavia, l’ospite più giovane di quella specie di parco giochi per fantasmi aveva una camera tutta sua, in fondo al corridoio.

Non era sola: un’infermiera stava annotando i parametri vitali su una cartellina. Quando ebbe terminato, l’appese al letto e uscì passandogli accanto. Si accorse a malapena di lui. L’uomo che puliva attese che si allontanasse verso l’astanteria, poi attivò il blocco di sicurezza del macchinario, senza spegnerlo, per non turbare di nuovo l’armonia dei suoni che permeava quel posto.

Entrò nella stanza.

Sembrava che la ragazza col ciuffo viola dormisse, serena. Probabilmente era sedata. Sulla sua bocca, una mascherina per l’ossigeno. L’apparecchio elettronico che monitorava i battiti del cuore lo avrebbe avvertito nel caso la paziente si fosse risvegliata. Ma per il momento il suono emesso era regolare, così poteva avvicinarsi al letto.

La testa sollevata e i capelli neri sparsi sul cuscino. Indossava un camice leggero. Le braccia magre, posizionate lungo i fianchi. A quello sinistro erano collegate due flebo. La linea del collo sottile che scendeva lungo le spalle, il torace avvolto da una fascia che comprendeva anche la clavicola che le aveva lussato per trascinarla fuori dal lago. Sicuramente le aveva fratturato qualche costola mentre le premeva con forza sullo sterno per farle espellere l’acqua dai polmoni. La caviglia era rotta ed era custodita in un tutore ortopedico.

Avanzando verso di lei, notava altri particolari. La pelle diafana era piena di lividi: erano i segni lasciati dalla lotta per liberarsi dall’abbraccio mortale della corrente. La osservò meglio in volto. Si accorse di non ricordare bene il suo aspetto. Si domandò ancora perché avesse avuto l’istinto di salvarle la vita. Non era solo perché all’inizio l’aveva scambiata per se stesso da piccolo: resosi conto dell’errore, avrebbe potuto abbandonarla sulla spiaggia senza cercare di rianimarla. Era ancora tutto molto strano, confuso. Si era sempre tenuto ai margini, rifiutando ogni contatto umano non necessario. Perché allora aveva fatto un’eccezione per quella ragazzina? Non aveva nulla di speciale. Si rese conto che quei pensieri erano pericolosi. Micky non avrebbe dovuto sapere che lui macerava un simile dubbio.

Qualcuno aveva lasciato una cornice con una foto sul portavivande ai piedi del letto. Comprese anche il motivo. Se la paziente avesse aperto gli occhi, si sarebbe subito trovata davanti quell’immagine rassicurante: la ragazza col ciuffo viola posava in mezzo a un uomo sulla quarantina e a una donna un po’ più giovane, sicuramente i genitori. Erano belli, abbronzati e sorridenti. Che strano modo di preservare la felicità, si diceva l’uomo che puliva ogni volta che guardava un ritratto di famiglia. Le persone credevano davvero di poter rinchiudere nello scatto di una macchina fotografica ciò che provavano? Lui non era mai stato immortalato in una foto. Perfino quelle sul tesserino o sulla carta d’identità appartenevano a degli sconosciuti che gli somigliavano.

Vide che su una sedia c’erano delle buste trasparenti con dentro gli effetti personali della paziente. Con grande meraviglia, riconobbe il fazzoletto che aveva messo fra i denti della ragazza in preda alle convulsioni. Andò subito a recuperarlo e, in quel momento, si ricordò anche dell’unghia smaltata di rosso che vi aveva riposto.

La reliquia.

Aprì la stoffa ma, ovviamente, non c’era più. Pensò alle possibili implicazioni di quella disattenzione. Si sarà persa in acqua o sulla spiaggetta, si disse. Era inutile andare a cercarla, non l’avrebbe ritrovata mai. Quella storia gli aveva procurato già troppi grattacapi, considerò, rinfilandosi in tasca il fazzoletto.

Era venuto il momento di mettere un punto.

Si voltò verso l’angolo della stanza dove c’era il carrello coi farmaci e il defibrillatore. Si mosse sapendo già che in quei cassetti avrebbe trovato ciò che gli occorreva.

Guanti in lattice. Siringa ipodermica. Fiale di insulina.

Tenendo d’occhio la porta, preparò una dose massiccia del farmaco. Nessuno avrebbe notato un minuscolo puntino rosso fra le dita dei piedi della paziente. Pochi secondi e il loro legame si sarebbe sciolto. Pochi secondi e sarebbero stati entrambi liberi. Per sempre.

Tornò verso il letto. Calcolò che avrebbe avuto a disposizione meno di un minuto per allontanarsi, prima che il cardio-monitor registrasse un insolito aumento della frequenza e desse l’allarme. Ma era determinato a portare a termine il lavoro. Con una mano teneva in verticale la siringa e con l’altra sollevò il lenzuolo, scoprendo la gamba che non era immobilizzata dal tutore.

Mentre si sporgeva, si bloccò col braccio a mezz’aria. Nella parte interna del polpaccio, tra i graffi, c’era una piccola scritta sbiadita.

Una sequenza numerica, annotata a penna.

L’uomo che puliva si ritrasse, stordito, lasciando ricadere il lenzuolo. Rabbrividì. Quella vista era stata sufficiente a innescare dentro di lui un domino di reazioni che non sapeva come arrestare.

In quel momento, comprese che non sarebbe mai stato capace di praticare l’iniezione.

Io sono l'abisso
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